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parte seconda - capitolo xxii 373

compagnia, scatenati contro la Ricci, la fulminavano con degli equivoci significanti e solo avevano qualche rattenutezza alla mia presenza.

Alcuna però delle attrici, esultante, chiedeva in secreto a me se fossi ancora a segno di conoscere il carattere di quella femmina di cui avevano proccurato in tante forme di avvertirmi invano.

Or mostrava io di non intendere, or correggeva la maldicenza, or volgeva le spalle fingendo collera con le lingue pestifere, e attendeva pur la quaresima.

Una sera, còlto dalla stessa sorella della Ricci, Marianna, in un stanzino del teatro, ella mi disse; — Che le pare, signor conte, della stravagante novitá? — Che novitá stravagante? — diss’io. — Di quella matta di mia sorella — segui la giovine. — Ella fu sempre una matta, di cervello leggero, ambizioso e imprudente. Chi avrebbe detto che dopo cinqu’anni d’assistenza e vera amicizia di lei, si fosse abbandonata a tanta solennitá colla persona del Gratarol?

Mentre andava pensando a una risposta che niente significasse, de’ comici entrati nello stanzino mi levarono d’imbroglio, troncando il discorso.

Essend’io accostumato a dare ogn’anno a un buon numero della compagnia comica un pranzo casalingo verso il fine del carnovale, aveva giá fatto l’invito per un giovedí, per non alterare una consuetudine che facesse fare delle inopportune interpretazioni.

La Ricci, il di lei marito, qualche altra attrice, il Fiorilli, il Zannoni e qualche altro attore furono i miei commensali.

Le lepidezze volavano, ma con mio dispiacere i sali del Fiorilli, facetissimo e ardito, giravano sopra a certi novelli adornamenti che aveva indosso la Ricci, e con delle allusioni che la scorticavano. Ella arrossiva, si avvolgea senza rispondere; gli altri ridevano; ed io cercava indarno di risvegliare discorsi d’altro argomento.

Dopo quel giorno trovai sparse per la compagnia delle disseminazioni franche, esose, sulla sbrigliatezza della povera Ricci, che la infamavano. Giugnevano persino ad affermare che ogni