Memorie inutili/Parte prima/Capitolo XV
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CAPITOLO XV
Prime scoperte sulla mia famiglia, contrarie alle mie lusinghe.
Passando dalla galera all’antica mia abitazione avita e paterna, il mio spirito ondeggiava tra il piacere d’essere uscito dalla servile soggezione passando alla libertá e quello di poter dare alloggio ad un buon amico, e tra il timore di dargli un cattivo ricovero.
Arrivammo all’uscio, e vidi il mio compagno sorpreso nel vedere l’edifizio della mia casa, che in vero ha l’aspetto di palagio. Egli, ch’è intelligente d’architettura, mi fece un grand’elogio sulla bella pianta. Gli risposi ch’egli era in debito di sapere che spesso gli esterni rallegravano e gli interni mortificavano.
L’amico ebbe del tempo di contemplare la bella fabbrica al di fuori, perché piú di sei gran picchiate all’uscio erano state il picchiare ad una sepoltura.
Una femminetta, appellata Eugenia, custode del diserto, venne finalmente ad aprire. Le chiesi dove fossero i miei congiunti. Mi rispose, con un sbaviglio, ch’erano tutti a villeggiare nel Friuli, ma che si attendeva a momenti a Venezia mio fratello Gasparo.
Scaricati i corredi, salimmo una bella scala di marmo che dimostrava di non condurre all’inferno; ma, appena montato l’ultimo scaglione, mi si presentarono tutte le meste larve della indigenza.
I pavimenti avevano delle cavitá cancrenose. Le invetriate lasciavano libero l’ingresso a tutti i venti marcati sulla bussola de’ piloti. Le tappezzerie erano poche, affumicate, rotte e penziglianti. D’una galleria di bellissimi quadri antichi, ch’io aveva fitti nella memoria, registrati e lasciati fideicommissi nel testamento dell’avolo mio, co’ quali sperava di far maravigliare l’amico, non v’era piú reliquia. Vidi solo i ritratti degli avi miei, del Tiziano e del Tintoretto, nella sala. Io li guardava ed essi guardavano me. Parevano mesti, maravigliati, e chiedenti ragione de’ consunti agi da loro lasciati.
Non ho mai detto che nel picciolo archivio della famiglia nostra esiste un antico libro tarlato colle ricevute de’ pagamenti alle pubbliche decime, in cui si rileva che il padre del mio bisavolo pagava la decima al principe per dieci e piú mila ducati di rendita annuale che possedeva.
Un solo riflesso di moralitá fa ch’io scriva questa menzione. La ricordanza di que’ ritratti che mi guardavano e del mio guardare lo stato squallido della mia abitazione, suscita in me ora l’estro vano di dire una veritá, che può servire d’avviso esemplare a tutte le discendenze, ma che non servirá a nulla, e particolarmente alla nostra posteritá.
L’avolo mio, che aveva lasciato un unico figlio maschio, una buona facoltá legata ad un strettissimo fideicommisso mascolino perpetuo, quattro civili abitazioni tutte corredate con abbondanza, l’una in Venezia, l’altra in Padova, l’altra in Pordenone, l’altra in Vicinale, villa del Friuli, com’egli accenna nel suo testamento, non si sará mai immaginato che le disposizioni testamentarie de’ morti avessero pochissima forza co’ vivi.
Aveva giá prevenuto l’amico signor Massimo fedelmente delle circostanze nostre famigliari, ma non aveva potuto prevenirlo di tutte le infelicitá maggiori avvenute nella mia casa nel tempo del mio triennio dalmatino.
L’aver avuta una notizia che le due mie maggiori sorelle erano state maritate, aveva destata in me la lusinga che gl’interessi famigliari, ridotti ad un assetto migliore, avessero cagionata la bella impresa.
Ero in quel miserabile inganno che s’udirá, e che mi dicevano cento bocche degli oscuri oggetti che m’erano a fronte.
Proruppi infine nelle mie consuete risa, e chiesi ridendo perdono al sozio dell’averlo invitato ad un mal albergo. L’accertai che il mio cuore era differente. Risvegliai con esso un’allegra conversazione, esaminando e trovando per ogni stanza degli addobbi, la comica vista de’ quali non faceva che raddoppiare le risa mie. Consigliava l’amico a ricreare il suo sguardo nel bell’esterno dell’abitazione. Alloggiammo infine nel miglior modo che potemmo.
Giunse due giorni dopo mio fratello Gasparo, e fatti alcuni convenevoli col forestiere, il cui merito, la cui amicizia, il cui credito furono da me dichiarati con sincera favella, piantammo la societá in terzo. Mio fratello, ch’era d’un genio lepido anche con la febbre, accrebbe lo spirito alla conversazione.
Avevamo tutti due una gran brama di favellarci fraternamente e secretamente. Giunse il momento di poterlo fare. Gli chiesi conto del povero mio padre, della madre, degli altri e delle circostanze della famiglia. Ciò che aveva veduto nella casa di Venezia era precursore di triste augurio a ciò che doveva udire.
Il fratello, filosofo ma non senza un’umana sensibilitá che appariva di quando in quando sugli occhi suoi, m’ha dati succintamente questi ragguagli: che la famiglia era in un’angustia tragica; che il padre viveva, ma ognora mutolo e paralitico come era prima della mia partenza; che si erano maritate le due maggiori sorelle Marina ed Emilia, l’una nel conte Michele di Prata, l’altra nel conte Giovan Daniele di Montereale; che si erano promessi per le dotazioni verso diecimila ducati; che si erano venduti le tali e tali campagne e i tali e tali beni, e incontrati de’ debiti per piú di duemila ducati con de’ mercanti; che ardeva un litigio nel fòro tra il conte Montereale cognato e la famiglia per certa somma della dote non ancora pagata; che le altre tre sorelle Laura, Girolama e Chiara, erano molto cresciute, e che davano de’ gran pensieri.
Mi increbbe il scorgere l’impossibilitá di poter pagare istantaneamente il mio debito, ma tutte quelle spaventevoli narrazioni non mi fecero pentire d’aver abbandonato l’uffizio di cadetto nobile di cavalleria.
Pochi giorni trascorsi, il signor Massimo partí per Padova colla promessa del pagamento del mio debito de’ dugento ducati, sopra il quale non espresse che de’ sentimenti da vero amico.
La stagione era ancora da villeggiare e desiderai di portarmi nel Friuli a baciar la mano all’infelice mio padre. Ci andai col fratello, armato l’animo d’una gigantesca fortezza, fortezza che ebbi poscia un estremo bisogno di adoperare.