Memorie inutili/Parte prima/Capitolo XIV

Capitolo XIV

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CAPITOLO XIV

Fine del mio triennio nella Dalmazia. Mia picciola economia sbilanciata e giustificata. Calcoli. Ragionamenti. Riflessioni cattive, perché non sono false. Mio arrivo in Venezia.


I tre anni del mio corso militare erano vicini al loro fine, quando fui assalito da una febbre, non mortale, ma lunga e tediosa. Era tempo ch’io facessi un bilancio sulla mia circostanza e sul mio stato d’allora, e lo feci.

Non aveva avuti altri soccorsi dalla mia famiglia, in tutto quel tempo, che due cambiali, l’una di quattordici, l’altra di sei zecchini, e dalla pubblica cassa militare quello delle mensuali trentotto lire, benigno prezzo alla mia inutilitá marziale.

Il giornaliero vitto, la pigione, la decente comparsa ad una corte di vestiti e di biancheria, un necessario servo, due malattie, qualche indispensabile spesetta nella societá in un mondo disordinato, mi fecero trovare al fine del mio triennio debitore verso l’amico signor Massimo di cinquantasei zecchini e sedici lire in punto, vale a dire di dugento ducati.

Se le necessitá non sono vizi, un tal debito era moderato. Era però d’un gran peso al mio spirito, il quale si confortava soltanto colle maniere nobili dell’amico e colla morale certezza di pagare il mio debito giugnendo alla casa paterna.

Ne’ miei conteggi trovava che tra le poche monete avute dalla famiglia, l’utilitá militare e il debito che aveva incontrato, erano entrati nella mia borsa, in tutto il corso di que’ tre anni, quattrocento ottanta ducati, e sembrava a me di non essere stato scialacquatore a spendere intorno a cento cinquanta ducati all’anno nel mio intero mantenimento e nelle mie infermitá.

Averei potuto cogliere un risparmio, concorrendo alla mensa giornaliera che dava il provveditor generale a tutti gli uffiziali [p. 99 modifica]della corte e della sua guardia, alla qual mensa non interveniva la di lui persona sublime.

L’Eccellenza sua non sapeva (tratte alcune buone anime pazienti o costrette dalla irreparabile necessitá) qual ciurma di gente sedeva a quella sua mensa, né le triviali bassezze che la deturpavano; ma io, che aveva uditi sino dal principio i discorsi imprudenti e infami che si facevano, le baruffe facchinesche che si accendevano tra commensale e commensale, tra commensale e staffiere, e veduti i tondi e i bicchier volar ne’ capi, pensando forse da ragazzo superbo, mi contentai di incontrare un debito di dugento ducati per allontanarmi da quella pericolosa prostituita utilitá.

Mi trovai a quel convito ch’io guardava come la cena di Tieste, soltanto ne’ giorni indispensabili ne’ quali mi toccava la guardia per ispezione.

Le relazioni e i computi ch’io do, fatti sull’economia de’ miei tre anni, devono certo parere miserabili piccolezze da omettersi, e non è vero. Prego il mio lettore, prima di dare questa sentenza, ad attendermi all’arrivo ch’io feci alla casa paterna desolata dalla pessima direzione, e al mio tentativo di por qualche argine nell’amministrazione per riparare inevitabili maggiori disordini. Egli vedrá nel séguito delle mie Memorie, che le teste riscaldate e colleriche de’ mortali sono fertilissime romanziere nell’inventare delle false accuse, e se sarò stato dipinto e predicato un scialacquatore, un rotto giuocatore e un disordinatore della famiglia ne’ sopra accennati tre anni, non averò avuto il torto ad esporre la veritá delle mie misere relazioni e i piú miseri miei conteggi sull’economia di quel triennio.

Non ebbi mai vergogna che tutto il mondo sapesse il mio stato ristretto, ed averei anzi della vergogna ad ostentare di possedere piú di ciò che possiedo.

Se mai mi riducessi ad un’estrema indigenza gettando il poco patrimonio che ho nelle concubine, nel lusso, nella galanteria e in simili virtú, accuserei me medesimo e non avrei la temeritá di accusare quelli che non aderissero a rimettere nelle mie mani de’ soccorsi onde poter io seguitare il corso delle mie [p. 100 modifica]lussurie, de’ miei stravizzi, del mio grandeggiare e de’ miei viziosi sistemi.

Quelli che pensano come io penso, non troveranno piccolezze ne’ miei conterelli.

La ricchezza non è per se medesima che un vocabolo. I sistemi e le costituzioni nelle quali fu posto il mondo dall’industria dall’aviditá e dalla forza degli uomini, hanno data una reale sostanza e soliditá d’immaginazione al vocabolo di ricchezza, che assolutamente non significa nulla. L’essenzialitá data dall’umana immaginazione, giustificata dalla falsa macchina del costume e da’ pretesti, menzogne credute veritá, è fonte perenne e principale delle ingiustizie, delle sopraffazioni, delle insidie, de’ tradimenti, delle estorsioni, de’ furti, degli assassini, de’ bisogni e delle angustie dell’umanitá. S’io abbasso il mio sguardo ad un legnaiuolo, indi se lo rivolgo ad un duca, e quindi lo innalzo ad un re, trovo con evidenza che non è ricco che quello il quale ha una ricchezza d’animo di contentarsi di ciò che possiede. È un peccato che questa veritá inopponibile sia soltanto confessata da me e da molti milioni di moribondi.

Il mio triennio è giunto al suo fine. Venne nella Dalmazia il nuovo provveditor generale Iacopo Boldú. Fu cesso il bastone di comando da S. E. Quirini colle solenni e sempre belle formalitá repubblicane.

Aveva composte ne’ momenti dell’ozio mio molte poesie in lode del signor provveditor generale e fatte giugnere delle altre da Venezia, le aveva tutte ricopiate in una raccolta con un carattere bellissimo, che aveva nella mia giovinezza, e ricucite insieme con una rispettosa lettera dedicatoria, in un cartone coperto d’un bel velluto cremesi. Mi presentai all’E. S. unito all’amico signor Massimo, e credei stoltamente di fare una buona azione recando un tributo di versi esaltatori.

Io non ero Virgilio, né nato al tempo di Augusto, e confesso che il solo fanatismo ch’io aveva per l’arte poetica mi faceva credere di fare un regalo donando de’ versi.

Il cavaliere accolse il libro con affabilitá dicendo: — Vi ringrazio. Potrò mostrare almeno che, stando voi nella mia corte, [p. 101 modifica]siete stati alla scuola. — Seppi dappoi ch’egli fece un dono di quel libro all’eminentissimo cardinale di lui zio vescovo di Brescia. L’E. S. mi chiese se voleva ritornare a Venezia o rimanere nella Dalmazia, godendo l’uffizio di cadetto nobile nella cavalleria, attendendo maggiore fortuna. Lo supplicai a ricondurmi a Venezia, ed egli accettò la mia supplica.

Un altro, fuori di me, avrebbe cercato con delle fedi poco fedeli d’ottenere delle lunghe e replicate licenze dalla clemenza troppo clemente, per sussistere molti anni ne’ ruoli militari del principe e per godere con fraude per lungo tempo il benefizio delle mensuali trentotto lire.

Era alieno dal seguitare la professione del soldato e dal razzolare con delle insidiose covertelle nel pubblico erario.

Considerava il principe padre comune, ma credeva ancora, che questo padre non meritasse d’avere de’ figli ladri, che con delle menzogne, de’ meriti inventati e delle protezioni acquistate co’ torcicolli, colle adulazioni, coltivate con gli uffizi e le bassezze piú vili di questo mondo, insidiassero e annichilassero le paterne preziose sostanze a tante pubbliche ed essenziali necessitá destinate.

Era un ragazzo povero e con un debito di dugento ducati, ma sapeva di non aver meritato co’ miei sudori in pubblico servigio, che il principe soccorresse la mia povertá e pagasse i miei debiti, benché non fossi un vizioso.

Rifletteva ch’io era povero soltanto per la numerosa mia fratellanza e per un patrimonio male amministrato.

Con tutto ciò, parco ne’ miei desidèri, mi lusingava di poter vivere modestamente e con sobrietá nel frutto delle facoltá famigliari, rendendomi operoso in quelle, ed era certissimo che il mio buon padre ch’era ancora tra i vivi, benché infermo paralitico e muto, non averebbe ricusato di pagare il mio debito de’ meschini dugento ducati. Io non aveva con lui demeriti, ed egli era troppo onorato per dubitarne.

Il mio nome sará forse vissuto ne’ ruoli pubblici delle milizie per chi sa quanto tempo, anche dopo la mia partenza dalla Dalmazia. Desidero che la cassa militare del principe non si [p. 102 modifica]sia lasciata beccare nemmeno quel tenue onorario sotto al mio nome. Sarei innocente dal canto mio. Non ho mai chiesto conto di ciò che non doveva avere, benché non abbia neppure chiesta la mia cassazione.

Non professo crediti colla mia repubblica per azioni guerriere, e per le mie azioni private non ebbi, non ho, e non averò mai da rimproverare il mio zelo e la mia fedeltá.

Fui povero, sono povero, e mi lusingo di morir povero. Morrei certamente disperato, se mi riducessi a morire fatto ricco da’ raggiri, dall’inganno, dall’ingiustizia e dall’avarizia.

Correva il mese d’ottobre dell’ultimo anno del mio triennio illirico, quando mi imbarcai nella galera «Generalizia». I tempi erano avversi. Dopo un penoso viaggio di ventidue giorni vidi Venezia e respirai. Mi sono inchinato con de’ ringraziamenti al cavaliere che m’aveva ricondotto, e m’avviai verso la magione paterna nella contrada di San Cassiano, col mio picciolo equipaggio e con quello dell’amico signor Massimo, che invitai ad albergar meco sino ch’egli fosse passato a Padova, sua patria, sperando di poter contribuire in parte a’ suoi benefici con un buon alloggio.