Memorie di Carlo Goldoni/Parte terza/IV
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CAPITOLO IV.
- Mio ritorno a Parigi. — Mie osservazioni e miei disegni. — Mia abitazione presso il Palazzo Reale. — L’amor paterno, mia prima commedia. — Breve estratto di questa. — Suo poco incontro. — Composizioni date al Teatro Italiano nel corso di due anni. — Nuove osservazioni sull’Opera Buffa. — Alcune parole sulla Commedia Francese.
Ritornato a Parigi, riguardai con altr’occhio questa immensa città, la sua popolazione, i suoi divertimenti, i suoi pericoli. Avuto tutto il tempo di ponderare, compresi che la confusione da me provatavi non era già un difetto morale o fisico del paese; onde schiettamente giudicai, che la curiosità e l’impazienza erano state causa del mio sbalordimento; e che in Parigi si poteva benissimo godere e divertirsi senza strapazzo, e senza sacrificare il suo tempo e la propria tranquillità. Furono troppe le conoscenze fatte tutto ad un tratto al mio arrivo; proposi di mantenermele, profittando però sobriamente; però destinai tutto il tempo della mattina al lavoro, ed il restante del giorno alla conversazione. Avevo preso a pigione un quartiere nei dintorni del Palazzo Reale; e il mio studio corrispondeva appunto sul giardino del medesimo, che sebbene allora non avesse la forma e la vaghezza che oggigiorno l’adornano, offeriva nulladimeno alla vista tali bellezze, di che molti rammentano con dispiacere la perdita. Per quanto fossi occupato, non era possibile che di tanto in tanto non dessi un’occhiata a quel passeggio delizioso, che ad ogni ora riuniva tanti oggetti differenti. Vedevo sotto le mie finestre le colazioni del caffè Foi, ove gente di ogni grado si radunava per riposarsi e rinfrescarsi. Mi stava dirimpetto quella famosa pianta di castagno, chiamata l’arbre de Cracovie, intorno alla quale si radunavano i novellisti, per ispacciare le loro nuove, disegnando in terra con le loro mazze, trincee, campi di battaglia, posizioni militari, e spartendo quindi l’Europa a modo loro. Queste volontarie distrazioni mi erano talvolta vantaggiose, poichè il mio spirito riceveva in tal modo un dilettevole riposo, dopo il quale mi riusciva di ripigliare il lavoro con maggior vigore ed ilarità. Si trattava di dover dare i primi saggi della mia abilità; dovevo comparire sul Teatro francese con un nuovo lavoro corrispondente all’opinione che il pubblico aveva di me concepita, ma i sentimenti de’ miei comici non erano mai concordi. Gli uni persistevano in favore delle commedie scritte, gli altri per quelle a braccia; onde su tal proposito fu tenuta un’adunanza, alla quale io pure intervenni, nè mancai di far notare la sconvenienza di presentare per la prima volta al pubblico un autore senza dialogo; fu perciò concordemente stabilito, che io dessi principio con una commedia in dialogo. Ero contento; ma prevedevo per altro, che gli attori, i quali ormai avevano perduto l’assuefazione di imparare a mente le loro parti, mi avrebbero, benchè senza malizia e cattiva volontà, indubitatamente mal servito. Eccomi pertanto costretto a limitare le mie idee, e a contenermi, relativamente al soggetto, entro il confine della mediocrità, per non arrischiare un’opera, che avesse richiesto maggiore esattezza nell’esecuzione, sperando di poter così condurre a poco a poco i miei comici a quella riforma alla quale m’era riuscito di portare i miei attori italiani. Composi quindi una commedia in tre atti, intitolata L’Amor paterno, o La Serva riconoscente.
Pantalone ha due figlie che son l’oggetto del suo più tenero amore, ed alle quali ha procurato la più squisita educazione. Clarice infatti si è un poco avanzata nelle belle lettere, ed Angelica è divenuta una buona cantatrice. Questo buon padre però erasi rovinato per queste due figlie; la morte di un suo fratello, da cui gli venivano somministrati i mezzi affine di mantenere con onore la famiglia, lo mette nell’impossibilità di sostenerla. Cammilla, che si trova in uno stato molto comodo, e che una volta fu cameriera delle due figlie di Pantalone, presta al suo antico padrone e all’antiche sue padroncine tutti gli aiuti possibili, e giunge finalmente a renderle felici. Ecco un piccolo estratto che sarà forse più stimabile della commedia medesima, la quale non ebbe che sole quattro recite.
Volevo tosto partirmente; ma potevo lasciar Parigi che aveami già incatenato? Giacchè avevo contratto impegno per due anni, mi sentivo tentato a restarvi; la maggior parte de’ comici italiani non mi richiedevano se non se composizioni a braccia; il pubblico vi era assuefatto, la Corte le soffriva; perchè dunque dovevo ricusare di uniformarmi? Su via, dissi allora fra me, facciamo dunque composizioni a braccia, giacchè così si vuole. Qualunque sacrifizio pareami dolce, qualunque pena tollerabile, per il piacere di restare a Parigi. Per altro non può dirsi, che i divertimenti mi abbiano impedito d’adempiere al mio dovere; poichè nello spazio di questi due anni misi insieme ventiquattro composizioni, i titoli delle quali, unitamente al loro buono e cattivo incontro, si trovano nell’Almanacco degli Spettacoli. Otto di queste commedie restarono al teatro, e mi costarono maggior fatica che se le avessi scritte interamente. Non era per me possibile d’incontrare il favore del pubblico se non a forza di scene piacevoli e di una virtù comica preparata con arte, e sempre al coperto dai capricci degli attori. Vi riuscii più di quello che non credevo: con tutto questo, qualunque fosse l’incontro delle mie commedie, non andavo mai a vederle. Amavo la buona commedia, e andavo perciò al Teatro francese per trovarvi divertimento ed istruzione. Avevo già ottenuti i biglietti di libero ingresso, che fin dal giorno del mio arrivo a Parigi ebbi l’onore di vedermeli offerti; e questo mi solleticava anche più, poichè nessuno si sarebbe mai figurato che un giorno riuscisse a me pure d’essere ascritto nel catalogo degli autori francesi. Trovai questo spettacolo nazionale egualmente ben ordinato sia per le tragedie come per le commedie. I Parigini mi parlavano talvolta con entusiasmo d’attori celebri che più non esistevano, dicendomi che la natura aveva spezzato la stampa di questi gran comici. Essi per altro erano in errore. La natura fa la stampa, il modello, gli originali insieme e li rinnova poi a suo talento. Ciò succede in ogni tempo; si compiange sempre il passato, e ci lagniamo del presente; così la natura degli uomini. In riprova di ciò, si potevano forse mai desiderare due attrici più perfette della signorina Duménil e della signorina Clairon? La prima rappresentava la natura nella sua maggior verità, laddove l’altra aveva portato l’arte della declamazione al più gran punto di perfezione. Inoltre poteva egli meno stimarsi ed ammirarsi nelle parti comiche, la nobiltà e l’eleganza dell’azione della signora Préville, unitamente alla graziosa naturalezza della signorina Oligny? Quest’ultima rese un gran servizio alle donne della sua professione, provando loro che i soli guadagni teatrali possono benissimo in Francia assicurare uno stato piacevole e onesto. Il signor Kain era un portento; aveva sfavorevole il personale, la figura, la voce, ma con tutto questo l’arte l’aveva reso sublime: e il signor Brisard godeva tutti quanti i vantaggi del suo esteriore accompagnati col merito del suo ingegno.
Il signor Molé sosteneva le parti d’amoroso. Qui veramente si può dire che si ha un bel fare dei confronti investigando le fredde ceneri degli antichi attori, poichè io credo che in questo genere non vi sia mai e poi mai stato alcun soggetto più piacevole e più grande di lui. Nobile nella passione, vivace nel brio, originale nelle parti caricate, poteva veramente dirsi un Proteo, sempre vero, sempre bello, sempre maraviglioso. Riguardo al signor Préville, vidi fin da principio che tutti gli rendevano giustizia, nè mai udii far sopra di lui confronto alcuno. Egli era uno di quegli attori che non ha mai imitato veruno, e che nessuno forse potrà mai imitare. Insomma il nostro secolo ha prodotti tre gran comici quasi contemporaneamente, il Garrik in Inghilterra, il Préville in Francia, e il Sacchi in Italia. Il primo fu condotto alla sepoltura da duchi e da pari. Il secondo fu colmato di ricompense e onori. Il terzo, per quanto sia celebre, non compirà la sua vita nell’opulenza.