Memorie di Carlo Goldoni/Parte seconda/XXXIX

XXXIX

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
XXXIX
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CAPITOLO XXXIX.

Il carnevale di Roma. — Corsa de’ barberi. — Impaccio del mio ospite. — Divertimenti della quaresima. — Messa pontificale — La funzione della lavanda. — Il Miserere della cappella del Vaticano. — La festa dei santi Pietro e Paolo. — Ragioni che m’impedirono di andare a Napoli. — Mia partenza da Roma.

L’apertura del carnevale segue quasi per tutta l’Italia alla fine di dicembre, o al principio di gennaio. In Roma, questo tempo di allegrezza o follia, singolare per la libertà delle maschere, non incomincia che negli ultimi otto giorni, nè le maschere si tollerano, se non dalle due dopo il mezzogiorno fino alle cinque. Tutti al far della notte debbono andare a viso scoperto onde può dirsi che il [p. 248 modifica] carnevale di Roma non ha che 24 ore di durata. Quest’intervallo però è impiegato molto bene. Non è possibile farsi una idea del brio e della magnificenza di questi otto giorni. Per quanto è lungo il Corso, si vedono quattro file di carrozze ornate riccamente: le due file laterali sono spettatrici delle altre due che girano nel mezzo, e una folla di maschere a piedi, che non è gente di basso ceto, corre sui marciapiedi, canta, fa mille curiose buffonerie, lazzi lepidissimi, gettando nelle carrozze confetti a staia, che loro vengono con egual profusione restituiti; di modo che la sera camminasi sopra farina inzuccherata. In tali giorni, e in quest’istesso luogo, si dà una corsa di barberi, ed il vincitore di essi riporta un drappo di oro o di argento. Questi cavalli, sciolti, senza guida alcuna, e già addestrati alla corsa, irritati da punte di ferro che li molestano, ed incitati vie più alla corsa dai gridi e battimani del popolo spettatore, partono dalla porta della città, e son ripresi al palazzo di San Marco, ove viene assegnato giuridicamente il premio al primo che vi arriva.

Io aveva tutto il comodo di godere questo grazioso colpo di vista senza escire dalla mia camera: ma dal mio ospite erami già stata destinata una finestra nella sala del suo appartamento dov’era affisso un cartello, nel quale si leggevano a lettere cubitali queste parole: Finestra per il signor Avvocato Goldoni.

Sessanta erano le persone state invitate dall’abate, e le finestre non eran che otto. La gente dunque che sopraggiungeva non badava punto al cartello, e ciascuno procurava di prender posto il primo, onde il mio povero abate era impacciatissimo per serbarmi un posto. Potevo andare nella mia camera con sua moglie e la mia: niente affatto: mi voleva assolutamente nella sala. Mi presentano; tutto era pieno, ognuno per altro cerca di ristringersi, e mi viene assegnato il posto; ma ecco delle signore, conviene dare loro la preferenza; esco adunque con gli altri, e resto fuori di posto. L’abate allora infuria e nella maggior collera mi afferra per il braccio, mi tira in camera, fa escire la moglie e la figlia, mi spinge per forza al parapetto della finestra, e si pone accanto a me trattenendovisi fino al termine del divertimento, facendomi fare attenzione alle carrozze dei principi e delle principesse, e dei cardinali, dei quali conosceva i cocchieri, e mi nomina i cavalli della corsa da lui distinti dalle divise. Finita la festa, l’impiccio del mio povero abate divenne più grande. Tutta la gente ch’era nella casa di lui non se ne andava. Egli ne aveva invitata una buona parte a cena, nè più si ricordava del nome, nè del numero delle persone invitate. Tra i componenti quella conversazione vi si trovavano dilettanti di musica; si mette adunque insieme su due piedi un’accademia, si giuoca, si canta, tutto va a maraviglia, ma nessuno discorre di andarsene: come fare? Il povero abate vien da me tutto tremante, e mi chiede consiglio per cavarsi d’impaccio: — Niente, amico mio (gli rispondo), niente paura; voi avete fatto la corbelleria, bisogna pagarla. — Ma noi siamo, ei mi dice, quaranta, cinquanta... — Ebbene, coraggio (io soggiunsi), caro abate, coraggio: mandate subito a cercare dei violini, mettete in ordine in fretta un piccolo rinfresco, fate ballare tutta questa gente, e cavatevela nella miglior maniera che potete. — Egli trova ottimo il mio consiglio; fu data la festa da ballo, furono sufficienti i rinfreschi, la serata riuscì magnifica, ognuno partì contento.

Prossimi alla fine del carnevale, passammo questi ultimi giorni di giubilo ora in casa di questi, ora in casa di quelli con sommo [p. 249 modifica] piacere. Venuta la quaresima, variò scena, ma non diminuì per altro il divertimento: infatti si trova musica da per tutto, e da per tutto tavolini da giuoco. Fra i giuochi poi di trattenimento, quello di maggior uso nelle conversazioni è la Bestia, ed in quest’appunto osservai una pulitezza verso le signore che non ho, per vero dire, veduta praticare in verun altro luogo; cioè se la signora è in pericolo di soccombere alla giuocata, bisogna concederle grazie, vale a dire convien giuocare una carta bassa per farle evitare in tal modo il rincrescimento della perdita. Tutti i piaceri da me goduti fino a quel tempo in Roma erano un nulla in confronto di quelli che provai nella settimana santa; in tali giorni appunto consacrati del tutto alla divozione, si conosce la maestà del pontefice e la grandezza della religione. Nulla infatti di più magnifico ed imponente che la celebrazione di una messa pontificale nella basilica del Vaticano: il papa vi figura da sovrano, con tal pompa ed apparato, che conciliano la divozione e la maraviglia a un tempo medesimo. Tutti i cardinali, che sono principi della Chiesa e presuntivi eredi del trono, vi assistono; il tempio è immenso, immenso il corteggio. Anche la ceremonia della Lavanda a me non comparve meno grandiosa, poichè vedesi dovunque lavar piedi a’ poveri, i quali rappresentano gli apostoli; ma quella tiara a tre corone, quei berretti rossi, e quella gran gerarchia di vescovi e patriarchi riempie di stupore e colpisce l’immaginazione. Un altro spettacolo religioso da me parimente ammirato in quella chiesa, mi sembrò piacevole non meno che degno di ammirazione; questo fu il Miserere del venerdì santo. Entrate in San Pietro, e tale è la distanza che corre dalla porta primaria all’altar maggiore, che non vi lascia scorgere se vi sia gente, o no; ed allorquando siete a portata di vedere e sentire, vedete soltanto una numerosissima assemblea di musici in tonaca e collare, e vi par di sentire tutti gli strumenti possibili, mentre non ve n’è neppur uno. Io non sono della professione, nè posso spiegare per conseguenza questa varietà e questa gradazione di voci in un istesso accordo che produce tale illusione. Tutti i compositori bensì debbono conoscer questo capolavoro della lor arte.

Restai a Roma fino alla festa dei santi Pietro e Paolo, ed osservai tutto ciò che non avevo ancor veduto, tanto per la città come per la campagna. Desideravo vivamente di andare a Napoli, n’ero quasi alle porte, ed ebbi perfino occasioni di andarvi senza un obolo di spesa; ma ecco le ragioni che m’impedirono una tal soddisfazione. Allorquando dovevo partir da Venezia per Roma, partecipai la mia intenzione al ministro di Parma, che mi procurò l’accoglienza di S. A. R., e m’inviò lettere di raccomandazione per l’ambasciadore di Spagna. Scrissi al ministro medesimo per andare a Napoli, e non ebbi risposta alcuna; reiterai le mie istanze, ma con lo stesso resultato disgustoso. Essendo pertanto a mia notizia che in quel tempo tra la corte di Parma e quella di Napoli non regnava troppa buona intelligenza, interpretai il silenzio del ministro come un rifiuto del principe, e non volli rischiare di perdere per un divertimento la benevolenza di un mio protettore e padrone. Vidi dunque in Roma la vigilia di San Pietro illuminata quell’immensa cupola, come pure quella famosa girandola, che assomiglia ad un torrente di fuoco lanciato in aria colla violenza dei vulcani; e la ceremonia della chinea, presentata al Santo Padre dal contestabile Colonna in nome del re di Napoli.

L’aria di Roma incominciava a divenire perniciosa, I Romani [p. 250 modifica] istessi la temevano, ed infatti dal mese di luglio fino a quello di ottobre la città resta un vero deserto. Me ne partii adunque il secondo giorno d’agosto con rincrescimento grandissimo del mio buon ospite, da cui, per vero dire, ero stato sempre colmato di attenzioni. Egli non cessò mai di scrivermi, e d’inviarmi ogn’anno l’almanacco di Roma fino all’ultima sua malattia.