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capitolo xxxix 249


piacere. Venuta la quaresima, variò scena, ma non diminuì per altro il divertimento: infatti si trova musica da per tutto, e da per tutto tavolini da giuoco. Fra i giuochi poi di trattenimento, quello di maggior uso nelle conversazioni è la Bestia, ed in quest’appunto osservai una pulitezza verso le signore che non ho, per vero dire, veduta praticare in verun altro luogo; cioè se la signora è in pericolo di soccombere alla giuocata, bisogna concederle grazie, vale a dire convien giuocare una carta bassa per farle evitare in tal modo il rincrescimento della perdita. Tutti i piaceri da me goduti fino a quel tempo in Roma erano un nulla in confronto di quelli che provai nella settimana santa; in tali giorni appunto consacrati del tutto alla divozione, si conosce la maestà del pontefice e la grandezza della religione. Nulla infatti di più magnifico ed imponente che la celebrazione di una messa pontificale nella basilica del Vaticano: il papa vi figura da sovrano, con tal pompa ed apparato, che conciliano la divozione e la maraviglia a un tempo medesimo. Tutti i cardinali, che sono principi della Chiesa e presuntivi eredi del trono, vi assistono; il tempio è immenso, immenso il corteggio. Anche la ceremonia della Lavanda a me non comparve meno grandiosa, poichè vedesi dovunque lavar piedi a’ poveri, i quali rappresentano gli apostoli; ma quella tiara a tre corone, quei berretti rossi, e quella gran gerarchia di vescovi e patriarchi riempie di stupore e colpisce l’immaginazione. Un altro spettacolo religioso da me parimente ammirato in quella chiesa, mi sembrò piacevole non meno che degno di ammirazione; questo fu il Miserere del venerdì santo. Entrate in San Pietro, e tale è la distanza che corre dalla porta primaria all’altar maggiore, che non vi lascia scorgere se vi sia gente, o no; ed allorquando siete a portata di vedere e sentire, vedete soltanto una numerosissima assemblea di musici in tonaca e collare, e vi par di sentire tutti gli strumenti possibili, mentre non ve n’è neppur uno. Io non sono della professione, nè posso spiegare per conseguenza questa varietà e questa gradazione di voci in un istesso accordo che produce tale illusione. Tutti i compositori bensì debbono conoscer questo capolavoro della lor arte.

Restai a Roma fino alla festa dei santi Pietro e Paolo, ed osservai tutto ciò che non avevo ancor veduto, tanto per la città come per la campagna. Desideravo vivamente di andare a Napoli, n’ero quasi alle porte, ed ebbi perfino occasioni di andarvi senza un obolo di spesa; ma ecco le ragioni che m’impedirono una tal soddisfazione. Allorquando dovevo partir da Venezia per Roma, partecipai la mia intenzione al ministro di Parma, che mi procurò l’accoglienza di S. A. R., e m’inviò lettere di raccomandazione per l’ambasciadore di Spagna. Scrissi al ministro medesimo per andare a Napoli, e non ebbi risposta alcuna; reiterai le mie istanze, ma con lo stesso resultato disgustoso. Essendo pertanto a mia notizia che in quel tempo tra la corte di Parma e quella di Napoli non regnava troppa buona intelligenza, interpretai il silenzio del ministro come un rifiuto del principe, e non volli rischiare di perdere per un divertimento la benevolenza di un mio protettore e padrone. Vidi dunque in Roma la vigilia di San Pietro illuminata quell’immensa cupola, come pure quella famosa girandola, che assomiglia ad un torrente di fuoco lanciato in aria colla violenza dei vulcani; e la ceremonia della chinea, presentata al Santo Padre dal contestabile Colonna in nome del re di Napoli.

L’aria di Roma incominciava a divenire perniciosa, I Romani