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248 | parte seconda |
carnevale di Roma non ha che 24 ore di durata. Quest’intervallo però è impiegato molto bene. Non è possibile farsi una idea del brio e della magnificenza di questi otto giorni. Per quanto è lungo il Corso, si vedono quattro file di carrozze ornate riccamente: le due file laterali sono spettatrici delle altre due che girano nel mezzo, e una folla di maschere a piedi, che non è gente di basso ceto, corre sui marciapiedi, canta, fa mille curiose buffonerie, lazzi lepidissimi, gettando nelle carrozze confetti a staia, che loro vengono con egual profusione restituiti; di modo che la sera camminasi sopra farina inzuccherata. In tali giorni, e in quest’istesso luogo, si dà una corsa di barberi, ed il vincitore di essi riporta un drappo di oro o di argento. Questi cavalli, sciolti, senza guida alcuna, e già addestrati alla corsa, irritati da punte di ferro che li molestano, ed incitati vie più alla corsa dai gridi e battimani del popolo spettatore, partono dalla porta della città, e son ripresi al palazzo di San Marco, ove viene assegnato giuridicamente il premio al primo che vi arriva.
Io aveva tutto il comodo di godere questo grazioso colpo di vista senza escire dalla mia camera: ma dal mio ospite erami già stata destinata una finestra nella sala del suo appartamento dov’era affisso un cartello, nel quale si leggevano a lettere cubitali queste parole: Finestra per il signor Avvocato Goldoni.
Sessanta erano le persone state invitate dall’abate, e le finestre non eran che otto. La gente dunque che sopraggiungeva non badava punto al cartello, e ciascuno procurava di prender posto il primo, onde il mio povero abate era impacciatissimo per serbarmi un posto. Potevo andare nella mia camera con sua moglie e la mia: niente affatto: mi voleva assolutamente nella sala. Mi presentano; tutto era pieno, ognuno per altro cerca di ristringersi, e mi viene assegnato il posto; ma ecco delle signore, conviene dare loro la preferenza; esco adunque con gli altri, e resto fuori di posto. L’abate allora infuria e nella maggior collera mi afferra per il braccio, mi tira in camera, fa escire la moglie e la figlia, mi spinge per forza al parapetto della finestra, e si pone accanto a me trattenendovisi fino al termine del divertimento, facendomi fare attenzione alle carrozze dei principi e delle principesse, e dei cardinali, dei quali conosceva i cocchieri, e mi nomina i cavalli della corsa da lui distinti dalle divise. Finita la festa, l’impiccio del mio povero abate divenne più grande. Tutta la gente ch’era nella casa di lui non se ne andava. Egli ne aveva invitata una buona parte a cena, nè più si ricordava del nome, nè del numero delle persone invitate. Tra i componenti quella conversazione vi si trovavano dilettanti di musica; si mette adunque insieme su due piedi un’accademia, si giuoca, si canta, tutto va a maraviglia, ma nessuno discorre di andarsene: come fare? Il povero abate vien da me tutto tremante, e mi chiede consiglio per cavarsi d’impaccio: — Niente, amico mio (gli rispondo), niente paura; voi avete fatto la corbelleria, bisogna pagarla. — Ma noi siamo, ei mi dice, quaranta, cinquanta... — Ebbene, coraggio (io soggiunsi), caro abate, coraggio: mandate subito a cercare dei violini, mettete in ordine in fretta un piccolo rinfresco, fate ballare tutta questa gente, e cavatevela nella miglior maniera che potete. — Egli trova ottimo il mio consiglio; fu data la festa da ballo, furono sufficienti i rinfreschi, la serata riuscì magnifica, ognuno partì contento.
Prossimi alla fine del carnevale, passammo questi ultimi giorni di giubilo ora in casa di questi, ora in casa di quelli con sommo