Memorie di Carlo Goldoni/Parte seconda/XLV

XLV

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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CAPITOLO XLV.

Una dell’ultime sere di Carnevale, ultima commedia da me data in Venezia avanti la mia partenza, commedia veneziana di tre atti, in prosa. — Allegoria della composizione. — Suo magnifico incontro. — Cinque commedie, che formano un piccolo Teatro di conversazione. L’Uomo di spirito; La Donna di spirito; L’Apatista; La Locanda della posta, e L’Avaro.

Ecco l’ultima composizione da me esposta in Venezia prima di partire. Una delle ultime sere di Carnevale, commedia di gusto veneziano ed allegorica, nella quale toglieva commiato dalla patria. Zamaria fabbricatore di stoffe dà una festa ai suoi confratelli, invitandovi anche Anzoletto, che loro somministra i disegni per i lavori. L’assemblea di questi operai rappresentava la compagnia dei comici, ed il disegnatore era io. Una ricamatrice francese chiamata la signora Gâteau trovasi a Venezia per affari: conosce Anzoletto; ama la persona di lui al pari de’ suoi disegni; lo impegna, ed è per condurlo a Parigi: ecco un enimma che non era difficile a indovinare.

Gli operai pertanto sentono con sommo rincrescimento la notizia dell’impegno di Anzoletto, e fanno il possibile per ritenerlo; ma sono da lui assicurati, che la sua assenza non passerà due anni. Accoglie le loro dimostrazioni di dispiacere e le loro lagnanze con riconoscenza, e risponde ai rimproveri con fermezza d’animo. Anzoletto, che va facendo le sue cerimonie e i suoi ringraziamenti con i commensali, non è altro che il Goldoni che li fa al pubblico. La commedia incontrò molto, e chiuse l’anno comico 1761. L’ultima sera di carnevale fu la più splendida per me, poichè tutta la platea risuonava di applausi, in mezzo ai quali si sentiva distintamente gridare: Buon viaggio! Felice ritorno! Non mancate! Confesso che ne fui commosso fino al punto di piangere.

Qui termina la collezione delle mie commedie composte per il pubblico di Venezia; e qui pure dovrebbe parimente aver termine la seconda parte di queste memorie; ma non posso finirla senza render conto anche di quelle composizioni che si trovano stampate nel mio Teatro. Esse sono commedie da me composte per il marchese Albergati Capaceli, senatore di Bologna. Sono commedie assai più corte dell’altre, di minor numero di personaggi, e formano un Teatrino di conversazione. Sono lavorate con molta attenzione; hanno avuto buonissimo incontro, ed alcune sono state anche recitate con gran successo su i teatri pubblici: ne darò un’idea più succintamente che mi sarà possibile.

Il Cavalier di spirito, commedia di cinque atti ed in versi: è questi un uomo colto ed amabile, che forma la delizia di tutte le conversazioni. È il ritratto fedele del giovine senatore, che recitava a maraviglia la parte principale della commedia. La donna bizzarra, commedia di cinque atti ed in versi: è una giovane vedova, bella, di merito e di belle qualità, ma ch’è guastata dalla civile società: e per voler troppo piacere, cade in ridicolezze. L’Apatista, commedia di cinque atti ed in versi: il protagonista è un uomo di mente fredda, sempre in calma, sempre eguale a sè stesso, che gode i doni della fortuna senza eccesso, che soffre le avversità senza lagnarsene, che offeso si difende senza collera, e che prende [p. 263 modifica] finalmente moglie senza passione. Sfido qualunque comico a sostenere questo carattere con tanta intelligenza e verità, quanta ne espresse il signor marchese Albergati nell’esecuzione di esso. La Locanda della Posta, commedia di un solo atto ed in prosa: il soggetto di questa composizioncella è istorico; l’intreccio è molto comico, felicissimo lo svolgimento. Sono anche di parere che non sarebbe molto difficile a tradursi in francese. L’Avaro, commedia di un sol atto ed in prosa: questa è l’ultima delle cinque produzioni fatte per il mio Teatro di conversazione; e siccome il titolo esprime uno di quei caratteri generalmente più noti, e che sembrano essere stati esauriti dai gran maestri dell’arte, sono per questo a darne un ragguaglio un poco più esteso. Apre la scena don Ambrogio, facendo da solo a solo alcune considerazioni sul proprio stato. Ha di recente perduto il suo figlio unico; sente al cuore la voce della natura; ma siccome il mantenimento di questo figlio gli costava caro, gli riesce meno difficile il consolarsene. Si trova anco nell’impaccio di dover pensare alla nuora, che è tuttavia nella casa di lui; e riguarda questa spesa come insopportabile; vorrebbe disfarsene; ma siccome bisogna restituirle la dote, non può determinarvisi. Questa vedova è giovine, nè le mancano partiti. L’Avaro gli accetta tutti; ma venuto al proposito della dote, non ne va avanti veruno. Sostiene inoltre di aver più speso per la nuora di quello che abbia ricevuto dal contratto matrimoniale di lei; mostra a tutti la nota delle spese fatte per lei; la porta sempre addosso; la legge tre o quattro volte al giorno, la tiene la notte sotto il capezzale del suo letto. Un amante però, più accorto degli altri, offre a don Ambrogio di sposar sua nuora senza sborso di dote, purchè il suocero si obblighi a dargliela dopo la sua morte. L’avaro vi acconsente, ma a condizione che lo sposo pensi ad alimentarlo. L’amante trova la proposizione ridicola, ma siccome è innamorato, teme di perdere l’occasione di sposare la sua bella. Ha anche timore dell’uomo sordido perchè lo minaccia di una lite; onde accorda tutto, e così segue il matrimonio. Questa, a dir vero, è una commedia di poco momento, ed è questo un avaro di nuova specie, che non può stare al confronto degli altri; con tutto ciò mi riuscì d’infondervi e brio comico ed affetto quanto poteva bastare per renderlo passabile; onde riportò quel successo che poteva desiderarsi.

Fin ad ora ho reso conto delle commedie da me composte in Italia, e che sono state recitate prima della mia partenza. Ne resta tuttavia una non per anche rappresentata, e che si trova stampata nel decimo settimo volume dell’edizione del Pasquali, e nell’undicesimo di quella di Torino. Essa è di cinque atti ed in versi, ed ha per titolo La Pupilla, composizione tutta quanta di fantasia, lavorata sulla maniera degli antichi, e unicamente destinata per la stampa; affinchè nel mio Teatro vi fossero produzioni di ogni genere ed un’idea dello stile comico di tutti i tempi. Il soggetto della Pupilla è semplice. Non vi sono caratteri, non vi è complicazione nell’intreccio: ha una condotta naturale e senza artifizio. Procurai però di ravvivare la sterilità dell’antica commedia con scene equivoche, affine di aumentarne l’effetto e sostenere maggiormente la sospensione. Anche la catastrofe non è nuova; e consiste in un tutore innamorato della sua pupilla, che finalmente scuopre per l’unica sua figlia, e diviene, per questo, suocero di chi per l’avanti aveva riguardato come rivale. Lo stile, di cui mi son servito, non è il medesimo dell’altre mie commedie, avendo voluto [p. 264 modifica] avvicinarmi con esso un poco più agli scrittori del buon secolo; riguardo poi alla versificazione, ho imitato quella dell’Ariosto nelle sue Commedie.