Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
86 | parte prima |
qualunque ella fosse. I piaceri ed i disgusti si succedevano per me rapidamente; ed il giorno nel quale io godeva di più era quasi il punto di un imminente e disgraziato avvenimento. Entra una mattina in camera di buonissima ora il mio servitore, apre le cortine, e vedendomi sveglio: — Ah! signore, mi disse, ho una gran nuova da darvi. Quindici mila Savoiardi, tanto a piedi come a cavallo, vengono ad impadronirsi della città, e si vedono schierati sopra la piazza del Duomo. — Sbalordito da questa novità così inaspettata, feci cento interrogazioni in un tratto al mio staffiere, che non sapeva dirmi altro. Mi vesto in fretta, esco e vado al caffè. Dieci persone mi parlano tutte in un tempo, ognuno vuol essere il primo ad informarmi. Vi erano diverse opinioni, ma ecco il fatto. Cominciata la guerra del 1733, chiamata la Guerra di don Carlo, il re di Sardegna si dichiarava del partito di questo principe, e riuniva le sue armi a quelle della Francia e della Spagna, contro la casa d’Austria. I Savoiardi, che avean fatto la loro marcia di notte, comparvero sul far del giorno alle porte di Milano; il generale chiese le chiavi della città, e poichè Milano è troppo vasta per porsi in istato di difesa, gli furono portate le chiavi. Senza internarmi di più nella cosa, credetti di saperne abbastanza per darne subito parte al mio residente. Rientro in casa, scrivo, spedisco un espresso a Venezia, e tre giorni dopo torna il ministro alla sua residenza. Non tardarono frattanto a comparire anche le truppe francesi, ed a riunirsi alle sarde loro alleate, mettendo insieme quell’esercito formidabile, che gl’Italiani chiamavano l’esercito dei Gallo-Sardi.
Disponendosi dunque gli alleati a far l’assedio del castello di Milano, fecero gli approcci per mettersi in istato di battere la fortezza, onde gli abitanti della piazza d’Armi furono obbligati a sloggiare. La mia povera veneziana, che si trovava in questo numero, mi fece avvertire del suo turbamento: vi accorsi subito, la feci escir prontamente, e non volendo collocarla in un quartiere appartato, fui forzato ad affidarla ad un mercante genovese, in casa del quale non potevo vederla che in mezzo ad una famiglia numerosa, ed eccessivamente inquieta. Gli assedianti formarono subito le loro trincee, e le loro strade coperte: l’assedio si eseguiva col maggior ardore, le batterie dei cannoni facevano le loro scariche giorno e notte, e ad essi rispondevano quelli della fortezza, venendo talvolta a farci visita in città qualche bomba mal diretta. Pochi giorni dopo un corriere della Repubblica di Venezia portò al mio ministro una lettera ducale in cartapecora con sigillo di piombo con ordine di partir da Milano, e di andare per tutto il tempo della guerra a stabilire la sua residenza in Crema. Mi partecipò subito il signor residente tal notizia: profittò di questa occasione per disfarsi del segretario, che non gli andava a genio, mi affidò questa onorevole e lucrosa commissione, e mi ordinò di star pronto per il giorno dopo. Siccome avevamo bisogno in Milano di un corrispondente nel tempo della nostra assenza, proposi il mio amico Carrara, che fu approvato dal ministro, e venne perciò ad abitare nel nostro palazzo. Preparai subito i miei fagotti, ammassai i miei fogli, ed andai a far le mie dipartenze con la bella veneziana che piangeva, ch’era in timore e nella maggior desolazione. Mi raccomanda vivamente suo zio, appunto in carcere a Crema: procuro di consolarla, e do del danaro tanto a lei quanto al suo albergatore: questo complimento parve che contribuisse molto a porla in calma. Ci abbracciamo, poi torno a casa e parto col ministro sul far del giorno. Arrivato a Crema, la mia prima premura fu di portarmi alle carceri;