Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XXI

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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CAPITOLO XXI.

Riflessioni morali. — Mutazione di stabilimento di mio padre. — Mio imbarco per Ferrara. — Cattivo incontro. — Mio arrivo a Bagnacavallo. — Viaggio a Faenza. — Morte del mio genitore.

Il distacco, da quell’amabile oggetto, che mi aveva fatto gustare le prime delizie di un amore virtuoso, mi costò pena. Bisogna per altro dire, che tale amore non fosse di tempra molto vigorosa, poichè io abbandonai la mia bella. Un poco più di spirito, un poco più [p. 61 modifica] di grazia, mi avrebbero forse fissato; ma non vi era che bellezza, e questa ancora mi compariva nella sua declinazione: ebbi tempo a riflettere, e l’amor proprio prevalse alla mia passione. Mi bisognava pertanto una distrazione, e ne ebbi di molte specie. Mio padre che non sapeva fissarsi in nessun luogo (manìa che per eredità ha lasciata a suo figlio), aveva mutato paese. Ritornando da Modena, ove si era trasferito per affari di famiglia, passò per Ferrara, e quivi gli fu proposto un vantaggiosissimo partito per andare a stabilirsi a Bagnacavallo in qualità di medico con onorario fisso. L’affare era buono, accettò la proposizione, ed io dovevo riunirmi seco in tal luogo appena fossi libero.

Partito da Feltre, passai per Venezia senza fermarmivi, ed imbarcai col corriere di Ferrara. Vi era in barca molta gente, ma mal combinata. Fra l’altre vi si trovava un giovine magro, pallido, con capelli neri, voce fessa, e svantaggiosa fisonomia, figliuolo d’un macellaro di Padova, e che faceva il grande. Si annoiava il signore, e invitava tutti a giuocare, ma nessuno gli dava retta; io solo ebbi l’onore di accomodar seco la partita. Mi propose subito un piccolo faraone tra noi soli, ma siccome il corriere non l’avrebbe permesso, ci determinammo ad un giuoco puerile chiamato calacarte. Quello che ha più carte alla fine della mano, vince una puglia, e quello che si trova ad avere ammassate più picche, ne vince un’altra. Perdevo sempre le carte, e non avevo mai picche nel mio giuoco, sicchè a trenta soldi la puglia, mi truffò due zecchini; ero almeno in questo sospetto; pagai per altro senza far parole.

Arrivato a Ferrara, ed avendo bisogno di riposo, andai a prendere alloggio all’albergo di San Marco, ov’era la posta dei cavalli: mentre desinavo solo solo nella mia camera, ecco a farmi visita il mio giuocatore, che mi propone la rivincita: ricuso; egli si burla di me, e trae fuori dalla sua tasca un mazzo di carte, e una manata di zecchini, proponendomi il faraone; io però insisto sempre nella negativa. — Andiamo, andiamo, egli disse, o signore, avete il diritto di rifarvi; son galantuomo, voglio concedervelo, e voi non potete ricusarlo. Non mi conoscete, egli proseguì; per assicurarvi sul conto mio, tenete la banca voi, ed io punterò. — La proposizione mi parve onesta, e non essendo ancora bastantemente accorto per prevedere gli strattagemmi dei signori giuocatori di vantaggio, credei bonariamente che avrebbe deciso la sorte, e che avrei potuto essere nel caso di riguadagnare il mio danaro. Levo fuori dalla mia borsa dieci zecchini per far fronte a quelli del mio competitore; mescolo, fo alzar le carte, l’amico ne punta due; io li vinco, ed eccomi allegro come Arlecchino. Mescolo nuovamente; il galantuomo raddoppia la sua scommessa, vince, e fa paroli; questo paroli decideva della banca; non potei ricusare di starvi: lo tengo, e lo vinco: il furbo bestemmia come un vetturale, prende le carte cadute sulla tavola, le conta, trova una carta impari, dice esser falso il taglio, sostien d’averlo vinto, e vuole impadronirsi del mio danaro. Io mi oppongo ed egli cava una pistola di tasca; do addietro, e i miei zecchini non son più miei. Allo strepito della mia voce tremante e lamentevole, entra un servente dell’albergo, il quale d’accordo forse con quel mariuolo ci annunzia essere entrambi incorsi nelle pene più rigorose, imposte ai giuochi d’azzardo, minacciando ambedue di andare a denunziarci sul fatto, se ricusavamo di dargli qualche cosa. Immantinente gli diedi un zecchino di mia parte, presi la posta nell’atto, e partii arrabbiato di aver perduto il mio danaro e molto più di essere stato messo in mezzo. — Giunto a [p. 62 modifica] Bagnacavallo, trovai tutto il mio contento nel rivedere i cari miei genitori. Mio padre aveva avuta una fiera malattia mortale, e l’unico suo rammarico era quello, diceva egli, di morire senza vedermi. Ahimè! mi vide, io pur lo vidi, ma questo reciproco piacere non fu di lunga durata. Bagnacavallo è un grosso borgo nella legazione di Ravenna, ricchissimo, fertilissimo e di sommo commercio. Dopo essere stato presentato nelle buone conversazioni del paese, mio padre per procurarmi nuovi piaceri mi condusse a Faenza. Fu in questa città, dove si cominciò a conoscere quella materia argillosa, composta di creta e sabbia di cui si è poi fatta quella terra smaltata, detta dagl’Italiani maiolica, e dai Francesi fayence. Vi sono in Italia molti piatti di questa terra, dipinti da Raffaello d’Urbino, e dai suoi scolari. Questi piatti son contornati di eleganti cornici, e si custodiscono preziosamente nelle gallerie di pitture. Io ne ho veduta una copiosissima e ricchissima collezione a Venezia nel palazzo Grimani a Santa Maria Formosa. Faenza è una assai graziosa città della Romagna, ma non vi son gran cose da vedere. Vi fummo benissimo accolti, ed in egual modo trattati dal marchese Spada; si videro alcune commedie, date da una compagnia volante, e in capo a sei giorni ritornammo a Bagnacavallo. Poco dopo si ammalò mio padre. Era già scorso un anno da che fu assalito dall’ultima sua malattia: si accorse, ponendosi in letto, che questa ricaduta doveva essere seria, ed il suo polso pure annunziava il pericolo in cui era; la febbre infatti divenne maligna nel settimo giorno, e andava sempre di male in peggio. Vedendosi agli estremi, mi chiamò al capezzale, mi raccomandò la cara sua moglie, mi disse addio, e mi diede la benedizione. Subito dopo fece venire il suo confessore, ricevè i sacramenti, ed il decimoquarto giorno il mio povero padre più non esisteva. Fu sepolto nella chiesa di San Girolamo a Bagnacavallo il 9 marzo 1731. Non mi tratterrò qui a dipingere la fermezza di un padre virtuoso, la desolazione di una tenera moglie, e la sensibilità di un amato e riconoscente figlio. Darò rapidamente un’idea dei momenti più crudeli della mia vita; questa perdita costò cara al mio cuore, e cagionò una mutazione grandissima nel mio stato e nella mia famiglia. Io asciugava le lacrime di mia madre, ella le mie; ne avevamo entrambi di bisogno. La nostra prima cura fu di partire, per andare a riunirci con la nostra zia materna che si trovava a Venezia, ed alloggiammo con lei in casa di uno dei nostri parenti, ove per buona sorte vi era un appartamento da dare a pigione.

In tutto il viaggio della Romagna fino a Venezia mia madre non fece altro che parlarmi del mio impiego nelle cancellerie di Terraferma, da lei chiamato impiego da zingani, poichè bisognava far la posta agl’impieghi, e mutar sempre paese. Voleva viver meco, vedermi sedentario presso di sè, e con le lacrime agli occhi mi scongiurava e m’istigava ad abbracciar la professione di avvocato. Al mio arrivo in Venezia tutti i nostri parenti, tutti i nostri amici si unirono con mia madre per il medesimo fine: resistei finchè mi fu possibile, ma finalmente bisognò cedere.

Avrò io fatto bene? Mia madre goderà lungo tempo della compagnia di suo figlio? Aveva tutta la ragione di sperarlo; ma la mia costellazione attraversava sempre i miei disegni. Talìa mi aspettava al suo tempio; ella mi ci trasse per tortuosi sentieri, facendomi provare pruni e spine prima di concedermi qualche fiore.