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62 parte prima


gnacavallo, trovai tutto il mio contento nel rivedere i cari miei genitori. Mio padre aveva avuta una fiera malattia mortale, e l’unico suo rammarico era quello, diceva egli, di morire senza vedermi. Ahimè! mi vide, io pur lo vidi, ma questo reciproco piacere non fu di lunga durata. Bagnacavallo è un grosso borgo nella legazione di Ravenna, ricchissimo, fertilissimo e di sommo commercio. Dopo essere stato presentato nelle buone conversazioni del paese, mio padre per procurarmi nuovi piaceri mi condusse a Faenza. Fu in questa città, dove si cominciò a conoscere quella materia argillosa, composta di creta e sabbia di cui si è poi fatta quella terra smaltata, detta dagl’Italiani maiolica, e dai Francesi fayence. Vi sono in Italia molti piatti di questa terra, dipinti da Raffaello d’Urbino, e dai suoi scolari. Questi piatti son contornati di eleganti cornici, e si custodiscono preziosamente nelle gallerie di pitture. Io ne ho veduta una copiosissima e ricchissima collezione a Venezia nel palazzo Grimani a Santa Maria Formosa. Faenza è una assai graziosa città della Romagna, ma non vi son gran cose da vedere. Vi fummo benissimo accolti, ed in egual modo trattati dal marchese Spada; si videro alcune commedie, date da una compagnia volante, e in capo a sei giorni ritornammo a Bagnacavallo. Poco dopo si ammalò mio padre. Era già scorso un anno da che fu assalito dall’ultima sua malattia: si accorse, ponendosi in letto, che questa ricaduta doveva essere seria, ed il suo polso pure annunziava il pericolo in cui era; la febbre infatti divenne maligna nel settimo giorno, e andava sempre di male in peggio. Vedendosi agli estremi, mi chiamò al capezzale, mi raccomandò la cara sua moglie, mi disse addio, e mi diede la benedizione. Subito dopo fece venire il suo confessore, ricevè i sacramenti, ed il decimoquarto giorno il mio povero padre più non esisteva. Fu sepolto nella chiesa di San Girolamo a Bagnacavallo il 9 marzo 1731. Non mi tratterrò qui a dipingere la fermezza di un padre virtuoso, la desolazione di una tenera moglie, e la sensibilità di un amato e riconoscente figlio. Darò rapidamente un’idea dei momenti più crudeli della mia vita; questa perdita costò cara al mio cuore, e cagionò una mutazione grandissima nel mio stato e nella mia famiglia. Io asciugava le lacrime di mia madre, ella le mie; ne avevamo entrambi di bisogno. La nostra prima cura fu di partire, per andare a riunirci con la nostra zia materna che si trovava a Venezia, ed alloggiammo con lei in casa di uno dei nostri parenti, ove per buona sorte vi era un appartamento da dare a pigione.

In tutto il viaggio della Romagna fino a Venezia mia madre non fece altro che parlarmi del mio impiego nelle cancellerie di Terraferma, da lei chiamato impiego da zingani, poichè bisognava far la posta agl’impieghi, e mutar sempre paese. Voleva viver meco, vedermi sedentario presso di sè, e con le lacrime agli occhi mi scongiurava e m’istigava ad abbracciar la professione di avvocato. Al mio arrivo in Venezia tutti i nostri parenti, tutti i nostri amici si unirono con mia madre per il medesimo fine: resistei finchè mi fu possibile, ma finalmente bisognò cedere.

Avrò io fatto bene? Mia madre goderà lungo tempo della compagnia di suo figlio? Aveva tutta la ragione di sperarlo; ma la mia costellazione attraversava sempre i miei disegni. Talìa mi aspettava al suo tempio; ella mi ci trasse per tortuosi sentieri, facendomi provare pruni e spine prima di concedermi qualche fiore.