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capitolo xxi 61


di grazia, mi avrebbero forse fissato; ma non vi era che bellezza, e questa ancora mi compariva nella sua declinazione: ebbi tempo a riflettere, e l’amor proprio prevalse alla mia passione. Mi bisognava pertanto una distrazione, e ne ebbi di molte specie. Mio padre che non sapeva fissarsi in nessun luogo (manìa che per eredità ha lasciata a suo figlio), aveva mutato paese. Ritornando da Modena, ove si era trasferito per affari di famiglia, passò per Ferrara, e quivi gli fu proposto un vantaggiosissimo partito per andare a stabilirsi a Bagnacavallo in qualità di medico con onorario fisso. L’affare era buono, accettò la proposizione, ed io dovevo riunirmi seco in tal luogo appena fossi libero.

Partito da Feltre, passai per Venezia senza fermarmivi, ed imbarcai col corriere di Ferrara. Vi era in barca molta gente, ma mal combinata. Fra l’altre vi si trovava un giovine magro, pallido, con capelli neri, voce fessa, e svantaggiosa fisonomia, figliuolo d’un macellaro di Padova, e che faceva il grande. Si annoiava il signore, e invitava tutti a giuocare, ma nessuno gli dava retta; io solo ebbi l’onore di accomodar seco la partita. Mi propose subito un piccolo faraone tra noi soli, ma siccome il corriere non l’avrebbe permesso, ci determinammo ad un giuoco puerile chiamato calacarte. Quello che ha più carte alla fine della mano, vince una puglia, e quello che si trova ad avere ammassate più picche, ne vince un’altra. Perdevo sempre le carte, e non avevo mai picche nel mio giuoco, sicchè a trenta soldi la puglia, mi truffò due zecchini; ero almeno in questo sospetto; pagai per altro senza far parole.

Arrivato a Ferrara, ed avendo bisogno di riposo, andai a prendere alloggio all’albergo di San Marco, ov’era la posta dei cavalli: mentre desinavo solo solo nella mia camera, ecco a farmi visita il mio giuocatore, che mi propone la rivincita: ricuso; egli si burla di me, e trae fuori dalla sua tasca un mazzo di carte, e una manata di zecchini, proponendomi il faraone; io però insisto sempre nella negativa. — Andiamo, andiamo, egli disse, o signore, avete il diritto di rifarvi; son galantuomo, voglio concedervelo, e voi non potete ricusarlo. Non mi conoscete, egli proseguì; per assicurarvi sul conto mio, tenete la banca voi, ed io punterò. — La proposizione mi parve onesta, e non essendo ancora bastantemente accorto per prevedere gli strattagemmi dei signori giuocatori di vantaggio, credei bonariamente che avrebbe deciso la sorte, e che avrei potuto essere nel caso di riguadagnare il mio danaro. Levo fuori dalla mia borsa dieci zecchini per far fronte a quelli del mio competitore; mescolo, fo alzar le carte, l’amico ne punta due; io li vinco, ed eccomi allegro come Arlecchino. Mescolo nuovamente; il galantuomo raddoppia la sua scommessa, vince, e fa paroli; questo paroli decideva della banca; non potei ricusare di starvi: lo tengo, e lo vinco: il furbo bestemmia come un vetturale, prende le carte cadute sulla tavola, le conta, trova una carta impari, dice esser falso il taglio, sostien d’averlo vinto, e vuole impadronirsi del mio danaro. Io mi oppongo ed egli cava una pistola di tasca; do addietro, e i miei zecchini non son più miei. Allo strepito della mia voce tremante e lamentevole, entra un servente dell’albergo, il quale d’accordo forse con quel mariuolo ci annunzia essere entrambi incorsi nelle pene più rigorose, imposte ai giuochi d’azzardo, minacciando ambedue di andare a denunziarci sul fatto, se ricusavamo di dargli qualche cosa. Immantinente gli diedi un zecchino di mia parte, presi la posta nell’atto, e partii arrabbiato di aver perduto il mio danaro e molto più di essere stato messo in mezzo. — Giunto a Ba-