Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XLIX
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CAPITOLO XLIX.
- Alcune parole sopra la città di Pisa. — Mia avventura nella colonia degli Arcadi. — Mio nuovo impiego. — Miei felici successi. — Mie distrazioni.
Pisa è un paese molto importante. L’Arno, che attraversa la città, è più navigabile di quello di Firenze, ed il canale di comunicazione fra questo fiume e il porto di Livorno procura allo Stato considerabili vantaggi. Vi è a Pisa un’università molto antica e frequentata quanto quelle di Pavia, Padova e Bologna.
L’ordine dei cavalieri di Santo Stefano fondato nel 1562 da Cosimo primo de’ Medici, tiene il suo capitolo generale in questa città ogni tre anni. I bagni di Pisa sono saluberrimi, l’aria della città e de’ contorni si reputa la migliore d’Italia, e vi si trova acqua pura, leggiera, e passante quanto quella di Nocera. Non dovevo trattenermivi che alcuni giorni, e vi passai tre anni consecutivi. Mi vi ero fissato senza volerlo, e vi avevo preso qualche impegno senza pensarvi: il mio genio comico era infievolito, ma non estinto. Offesa Talia della mia diserzione, mi spediva di tempo in tempo alcuni emissari, per richiamarmi ai suoi vessilli: cedetti finalmente alla dolce violenza di una seduzione per me tanto piacevole, e lasciai per la seconda volta il tempio di Temi per ritornare a quello d’Apollo. Farò dunque il possibile per restringere in poche parole il corso di un triennio che richiederebbe per sè stesso un volume.
I primi giorni dopo il mio arrivo in Pisa mi divertivo ad esaminare tutte le rarità che ne meritavano la pena: la cattedrale ricchissima di marmi e pitture; il singolar campanile, che sommamente pende al di fuori, e che comparisce diritto nell’interno, e il campo santo, circondato da un magnifico loggiato, e pieno di terra a tal segno impregnata di sali alcalini e calcarei, che in ventiquattro ore di tempo riduce i cadaveri in cenere. Cominciavo bensì ad annoiarmi, non conoscendo ancora nessuno. Un giorno passeggiando verso la fortezza, vidi un gran portone aperto, e carrozze ferme e molta gente che entrava. Do un’occhiata dentro, e vedo in fondo un vastissimo giardino con una quantità grande di persone tutte a sedere sotto una specie di pergola. Mi appresso di più, e trovo un uomo in livrea che se ne stava là con maniere ed aria d’uomo d’importanza: gli domando di chi era il palazzo, e qual fosse il motivo per cui si adunasse in quel luogo tanta gente. Quel servitore garbatissimo e molto istruito, non ricusò di appagare la mia curiosità. — L’adunanza, che costì vedete, o signore, ei mi disse, è una Colonia degli Arcadi di Roma, chiamata Colonia Alfea o di Alfeo, fiume celebre in Grecia, da cui era bagnata l’antica Pisa in Aulide. — Gli domando se potevo godere di tal festa io pure: Volentierissimo, mi risponde, e mi accompagna subito egli stesso fino all’ingresso del giardino: ivi mi presenta a un servitore dell’accademia, e questi mi fa prender posto nel circolo. Me ne sto là ascoltando, sento del buono, sento del cattivo, ed applaudo del pari l’uno e l’altro. Tutti avean gli occhi sopra di me, e parevano desiderosi di sapere chi fossi. Mi venne l’estro di contentarli. L’uomo, che mi aveva condotto al posto, non era molto lontano dalla mia sedia; lo chiamo, e lo prego d’andare a dimandare al capo dell’adunanza, se fosse stato permesso ad un forestiero d’esprimere in versi il piacere che provava in quell’istante. Dal capo dell’accademia si annunzia la mia richiesta ad alta voce, e l’assemblea tutta vi condiscende. Avevo in mente un sonetto da me composto appunto in una simile occasione nella mia gioventù; mutai in fretta alcune parole che riguardavano il locale, e recitai i miei quattordici versi con quel tono e con quella inflessione di voce, che ravvivano la rima ed il sentimento. Il sonetto passò per fatto su due piedi, e riscosse sommi applausi: non so se il consesso dovesse durar di più; so bene che ognuno si alzò, e che mi vennero tutti attorno. Ecco intavolate molte relazioni: ecco molte compagnie da scegliere: quella del signor Fabri fu per me la più piacevole e vantaggiosa. Era cancelliere della giurisdizione dell’ordine di Santo Stefano, e presiedeva all’assemblea degli Arcadi sotto il titolo pastorale di Guardiano. Trattai in seguito tutti i pastori dell’Arcadia da me veduti in adunanza. Desinai in casa degli uni, cenai in casa degli altri; ed essendo i Pisani officiosissimi verso i forestieri, concepirono amicizia e considerazione per me. Mi ero lor manifestato per avvocato veneziano, ed avevo raccontato una parte de’ miei avvenimenti; vedendo essi pertanto che io era un uomo senza impiego, ma suscettibile di averne, mi proposero di riprendere la lasciata toga, e mi promisero clienti e libri nel tempo istesso. Qualunque forestiere, purchè addottorato, poteva nella curia di Pisa esercitare le sue funzioni liberamente: intrapresi adunque col molto ardore l’esercizio della professione di avvocato civile e criminale. In tutto mi mantennero i Pisani la lor parola, ed io poi ebbi anche la fortuna di contentarli. Lavoravo giorno e notte; avevo più cause di quello che ne potessi sostenere ed avevo oltre a ciò trovato il segreto di diminuirne il fascio con soddisfazione dei clienti, provando loro il male che facevano a litigare, e procurando di aggiustarli con la respettiva parte contraria: pagavan bene i miei pareri ed eravamo tutti contenti. Mentre che i miei affari andavano di bene in meglio, e che il mio studio fioriva in modo da inspirare gelosia ai miei confratelli, il diavolo fece che venne a Pisa una compagnia di comici. Non potei tenermi dall’andare a vederli, e mi venne il prurito di dar loro qualche cosa di mio. Per una rappresentazione di carattere erano troppo mediocri, onde rilasciai loro la mia commedia a braccia, intitolata: I cento quattro accidenti successi in un’istessa notte. In tale occasione provai appunto il disgusto riferito nel cap. XLI.
Mortificato per la caduta della mia rappresentazione, mi proposi di non mai più veder commedianti, nè pensare alla commedia, onde raddoppiai l’ardore nel mio lavoro giuridico, e vinsi tre liti in un mese. Mi fece anche infinito onore il buon esito di una difesa criminale. Un figliuolo di famiglia avea derubato il suo pigionale, era stata forzata una porta e dovea essere condannato alla galera. Si trattava di una famiglia rispettabile, di un figlio unico, di sorelle da maritare. Non bisognava salvarlo? Indennizzata la parte querelante, feci mutare il serrame dell’appartamento del primo, affinchè la chiave del secondo potesse aprirlo: il giovine aveva sbagliato il piano, ed aveva aperto per inavvertenza l’altro quartiere: il danaro era esposto, e l’occasione l’aveva sedotto. Diedi principio alla mia memoria col settimo verso del Salmo 25: Delieta juventutis mece, et ignorantias meas ne memineris, Domine. Scordatevi, o signore, le mancanze della mia gioventù, e quella della mia ignoranza; fiancheggiai la perorazione con autorità classiche, e decisioni della Rota Romana e della Camera Criminale di Firenze, chiamata il magistrato degli Otto, impiegai tutto il raziocinio, risvegliai tutto il patetico. Non si trattava d’un delinquente abituato al delitto, che s’ingegnasse di palliare la sua reità, ma d’un inconsiderato che confessava il suo fallo apertamente, non chiedendo grazia se non in considerazione dell’onore di un padre rispettabile, non meno che di due signorine ragguardevoli, e prossime a maritarsi. Insomma, il mio ladroncello ebbe la condanna della carcere per tre mesi soli: restò di me contentissima la famiglia, e l’istesso giudice criminale mi fece le sue congratulazioni. Eccomi adunque sempre più affezionato a una professione, che mi recava in un tempo medesimo molto onore, molto piacere e un ragionevole guadagno.
In mezzo a’ miei lavori ed alle mie occupazioni venne una lettera di Venezia, che tutto mi mise in moto lo spirito, e tutto il sangue. Era una lettera del Sacchi. Ritornato questo comico in Italia, appena seppe che io era a Pisa, mi chiese una commedia, e mi spedì egli stesso il soggetto, sopra il quale mi lasciava in libertà di lavorare a tutto mio piacere. Che tentazione per me! Il Sacchi era un attore eccellente, e la commedia era stata la mia passione; sentii rinascere nel mìo individuo l’antico genio, l’entusiasmo stesso, l’istesso fuoco. Il soggetto propostomi era Il servitore di due padroni. Conoscevo bene qual partito poteva da me trarsi dall’argomento della rappresentazione, e dall’attore principale che doveva recitarla: morivo dunque di voglia di riprovarmi di nuovo... non sapevo come fare... piovevano le liti ed i clienti. Ma il mio povero Sacchi?... Ma il servo di due padroni?... Orsù, ancora per questa volta... ma no..., ma sì... Insomma scrivo, rispondo, m’impegno. Il giorno lavoravo per la curia, la notte per la commedia. Terminata pertanto la composizione, la spedii a Venezia senza che niuno ciò sapesse; non era a parte del segreto altri che mia moglie, come lo era di tutti i miei travagli. Ahimè! vegliavo le intere notti.