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capitolo il 135

ria: pagavan bene i miei pareri ed eravamo tutti contenti. Mentre che i miei affari andavano di bene in meglio, e che il mio studio fioriva in modo da inspirare gelosia ai miei confratelli, il diavolo fece che venne a Pisa una compagnia di comici. Non potei tenermi dall’andare a vederli, e mi venne il prurito di dar loro qualche cosa di mio. Per una rappresentazione di carattere erano troppo mediocri, onde rilasciai loro la mia commedia a braccia, intitolata: I cento quattro accidenti successi in un’istessa notte. In tale occasione provai appunto il disgusto riferito nel cap. XLI.

Mortificato per la caduta della mia rappresentazione, mi proposi di non mai più veder commedianti, nè pensare alla commedia, onde raddoppiai l’ardore nel mio lavoro giuridico, e vinsi tre liti in un mese. Mi fece anche infinito onore il buon esito di una difesa criminale. Un figliuolo di famiglia avea derubato il suo pigionale, era stata forzata una porta e dovea essere condannato alla galera. Si trattava di una famiglia rispettabile, di un figlio unico, di sorelle da maritare. Non bisognava salvarlo? Indennizzata la parte querelante, feci mutare il serrame dell’appartamento del primo, affinchè la chiave del secondo potesse aprirlo: il giovine aveva sbagliato il piano, ed aveva aperto per inavvertenza l’altro quartiere: il danaro era esposto, e l’occasione l’aveva sedotto. Diedi principio alla mia memoria col settimo verso del Salmo 25: Delieta juventutis mece, et ignorantias meas ne memineris, Domine. Scordatevi, o signore, le mancanze della mia gioventù, e quella della mia ignoranza; fiancheggiai la perorazione con autorità classiche, e decisioni della Rota Romana e della Camera Criminale di Firenze, chiamata il magistrato degli Otto, impiegai tutto il raziocinio, risvegliai tutto il patetico. Non si trattava d’un delinquente abituato al delitto, che s’ingegnasse di palliare la sua reità, ma d’un inconsiderato che confessava il suo fallo apertamente, non chiedendo grazia se non in considerazione dell’onore di un padre rispettabile, non meno che di due signorine ragguardevoli, e prossime a maritarsi. Insomma, il mio ladroncello ebbe la condanna della carcere per tre mesi soli: restò di me contentissima la famiglia, e l’istesso giudice criminale mi fece le sue congratulazioni. Eccomi adunque sempre più affezionato a una professione, che mi recava in un tempo medesimo molto onore, molto piacere e un ragionevole guadagno.

In mezzo a’ miei lavori ed alle mie occupazioni venne una lettera di Venezia, che tutto mi mise in moto lo spirito, e tutto il sangue. Era una lettera del Sacchi. Ritornato questo comico in Italia, appena seppe che io era a Pisa, mi chiese una commedia, e mi spedì egli stesso il soggetto, sopra il quale mi lasciava in libertà di lavorare a tutto mio piacere. Che tentazione per me! Il Sacchi era un attore eccellente, e la commedia era stata la mia passione; sentii rinascere nel mìo individuo l’antico genio, l’entusiasmo stesso, l’istesso fuoco. Il soggetto propostomi era Il servitore di due padroni. Conoscevo bene qual partito poteva da me trarsi dall’argomento della rappresentazione, e dall’attore principale che doveva recitarla: morivo dunque di voglia di riprovarmi di nuovo... non sapevo come fare... piovevano le liti ed i clienti. Ma il mio povero Sacchi?... Ma il servo di due padroni?... Orsù, ancora per questa volta... ma no..., ma sì... Insomma scrivo, rispondo, m’impegno. Il giorno lavoravo per la curia, la notte per la commedia. Terminata pertanto la composizione, la spedii a Venezia senza che niuno ciò sapesse; non era a parte del segreto altri che mia moglie, come lo era di tutti i miei travagli. Ahimè! vegliavo le intere notti.