Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/L

L

../XLIX ../LI IncludiIntestazione 27 novembre 2019 100% Da definire

Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
L
Parte prima - XLIX Parte prima - LI

[p. 136 modifica]

CAPITOLO L.

Mia aggregazione agli Arcadi di Roma. — Mia commedia intitolata: Il figlio di Arlecchino perduto e ritrovato. — Causa importante trattata in Pisa. — Altra causa a Firenze. — Mio viaggio a Lucca. — Musica straordinaria. — Graziosa opera. — Delizioso viaggio.

Nel tempo che stavo scrivendo la mia commedia, facevo chiudere al farsi della notte la porta, nè andavo punto a passar le sere al caffè degli Arcadi. Me ne rimproverarono la prima volta che vi comparvi, e me ne scusai sotto pretesto di gravi affari del mio studio. Quei signori avean caro di vedermi occupato, ma non volevan dall’altro canto che io dimenticassi il delizioso divertimento della poesia. Arriva il signor Fabri, che mostra estremo piacere in vedermi; trae dalla sua tasca un grosso involto, e mi presenta due diplomi, fatti venire espressamente per me: uno, era la patente chi mi aggregava all’Arcadia di Roma sotto il nome di Polisseno; e l’altro, mi dava l’investitura delle campagne Tegee: tutti allora in coro mi salutarono sotto il nome di Polisseno Tegeo, e cordialmente mi abbracciarono come loro compastore e confratello. Come voi ben vedete, caro lettore, noi altri Arcadi siamo ricchi; possediamo terre in Grecia, le aspergiamo coi nostri sudori, per poi raccogliervi frasche d’alloro, mentre che i Turchi vi seminan grano, vi piantan viti, solennemente burlandosi delle nostre canzonette e dei nostri titoli. Malgrado le mie occupazioni, non lasciavo di comporre di tempo in tempo sonetti, odi, ed altre cose in poesia lirica per le sedute della nostra accademia. Ma i Pisani avevano un bell’esser contenti di me: tale non era io, poichè per dire il vero, non sono mai stato buon poeta; così potevo forse chiamarmi per l’invenzione, ed il teatro ne potrebbe essere una prova, e verso questa parte appunto si rivolse il mio genio. Poco tempo dopo, il Sacchi mi diede notizia del buon successo della mia commedia. Il servo di due padroni riscuoteva molti applausi, se ne facevano tante ricerche che non si poteva desiderar nulla di più, e mi mandò nel tempo istesso un regalo che mai mi sarei aspettato, ma mi richiese un’altra commedia, e mi lasciò padrone della scelta del soggetto. Bramava bensì che la mia ultima composizione fondata unicamente sul rigiro comico, avesse avuto per base una favola piacevole, suscettibile di tutti quei sentimenti patetici che si convengono ad una commedia. Conoscevo benissimo che parlava da uomo, ed avevo un gran desiderio di contentarlo. La sua maniera di procedere m’impegnava anche di più. Ma il mio studio... Ecco alla tortura il mio cervello. Quando scrissi l’ultima commedia, avevo detto. — Ancora per questa volta. — Ci erano pertanto tre soli giorni di tempo per rispondere, e in questi tre giorni, e camminando e desinando e dormendo, non sognavo che il Sacchi, nè avevo per il capo che lui; bisogna pure levarmi di testa questo soggetto per esser buono a qualche altra cosa.

Immaginai pertanto quella commedia, conosciuta in Francia in egual modo che in Italia, sotto il titolo del Figlio d’Arlecchino perduto e ritrovato. Non si può concepire l’ottimo successo che ebbe questa piccola bagatella: fu appunto quella che mi fece venir a Parigi; composizione veramente per me avventurosa, ma che però [p. 137 modifica] non vedrà mai la luce pubblica, finchè sarò in vita, nè mai entrerà nel mio teatro italiano. Fu da me composta in un tempo, nel quale il mio animo era troppo agitato, e quantunque avessi corredato questa commedia di scene molto piacevoli, non ebbi poi il tempo di condur le medesime con quella precisione che qualifica le buone opere. Vi saranno forse stati diamanti, ma erano incastonati nel rame. Si conosceva che qualche scena era stata fatta da un autore, ma l’insieme dell’opera da uno scolaro. Confesso bensì che lo scioglimento di questa commedia poteva passare per un capolavoro dell’arte, se alcuni difetti essenziali non avessero recato anticipatamente un pregiudizio all’insieme di essa. Il suo errore principale, per esempio, era quello dell’inverosimiglianza: questa vi si ravvisa in tutti i punti. Ne ho dato sempre il giudizio a mente fredda, nè mi son mai lasciato sedurre dagli applausi. Terminata ch’io l’ebbi, le diedi con attenzione una lettura. Vi trovai tutto quel bello che poteva renderla piacevole, e tutte le imperfezioni delle quali era piena; ciò nonostante la mandai al suo destino.

L’Italia non aveva gustato che i primi saggi della riforma da me ideata: e vi erano tuttavia molti partigiani dell’antico gusto comico. In quanto a me, vivevo sicuro che il mio, senza molto allontanarsi dalla comune e trita condotta, doveva piacere, e doveva parimente stupire per quel misto di espressioni comiche e patetiche che aveva destramente adoperato. Seppi in sèguito quanto era stato fortunato il successo della mia commedia, e ne restai attonito. Ma quale non fu poi la mia maraviglia, allorquando la vidi, al mio arrivo in Francia, applaudita, ripetuta ed innalzata fino alle stelle sul teatro della commedia italiana! Bisogna ben dire, che intervenendo agli spettacoli gli uomini si formino idee e prevenzioni differenti, poichè i Francesi applaudivano al teatro italiano ciò che forse avrebbero condannato in quello della loro nazione. Frattanto, dopo aver mandato il figlio di Arlecchino al signor Sacchi, che doveva esserne il padre, ripresi il consueto corso delle mie giornaliere occupazioni. Avevo da fare spedire parecchie cause; incominciai dunque da quella che a me pareva più importante. Il cliente da difendersi era un contadino: si avverta però, che i contadini della Toscana stanno molto bene, litigano sempre, e pagano benissimo. La maggior parte di loro hanno possessioni a fitto enfiteutico per loro, i figli ed i nipoti. All’entratura del fitto danno una somma conveniente, ed un’annua rendita, e riguardano questi beni come appartenenti a loro stessi, vi si affezionano, hanno cura di migliorarli, e alla fine del fitto i proprietari ci guadagnano. Il mio litigante aveva da farla con un priore d’un convento, che pretendeva far annullare l’affitto, per la ragione che i frati son sempre pupilli, e che potevasi ricavar dalle loro terre un maggiore profitto. Venni in chiaro del monopolio. Una vedovella protetta dal reverendo padre voleva levar di possesso quei poveri villani.

Feci una scrittura di rilievo anche per la nazione, diretta a provar l’importanza della conservazione delle locazioni enfiteutiche, vinsi la mia lite, e tal difesa mi fece un onore infinito. Pochi giorni dopo fui obbligato di recarmi a Firenze per sollecitare un ordine del governo, ad oggetto di far chiudere in un convento una signorina durante una lite già incominciata. Una figlia maggiore e ricca erede aveva firmato un contratto di matrimonio con un gentiluomo fiorentino uffiziale nelle truppe di Toscana, e voleva sposare un altro giovine per il quale aveva una maggiore inclinazione.

Essendo il cliente ed io alla capitale, ella si maneggiò col nuovo [p. 138 modifica] suo pretendente in maniera da eludere i nostri passi. La lite andava a mutar faccia, e poteva divenir seria; aderimmo adunque ad alcune proposizioni che ci vennero fatte. La signorina era ricca, e l’affare restò ultimato all’amichevole.

Ritornato da Firenze, rimasi impegnato per un’altra lite di andare a Lucca. Avevo caro veramente di vedere questa Repubblica non estesa, nè potente, ma ricca, piacevole, e savissimamente governata. Condussi meco anche la moglie, e vi passammo sei giorni i più deliziosi del mondo. Era di settembre, il giorno dopo dell’Esaltazione della Santa Croce, festa principale della città; nella cattedrale vi è un’immagine del nostro Salvatore, chiamata il Volto Santo, che si espone in quel giorno con una pompa così splendida, ed una musica sì numerosa in voci ed in istrumenti, che non ho veduto mai la simile nè in Roma nè in Venezia.

Havvi una fondazione fatta da un devoto lucchese, che ordina di ricevere in quel dato giorno alla cattedrale tutti i musici che vi si presentano, e di pagarli non a proporzione dei loro meriti, ma del viaggio da essi fatto: e la ricompensa è fissata a un tanto per lega o per miglio. Una musica di tal sorte doveva essere più clamorosa che piacevole; ma l’opera che vi si dava in quell’istesso tempo era una delle più scelte e delle meglio composte. L’amabile Gabbrielli si era resa la delizia di quel musicale spettacolo. Essa era sempre di buon umore; il celebre Guadagni, suo eroe in scena ed in segreto, aveva sottoposti all’impero di amore i capricci della virtuosa. La faceva cantar sempre, onde il pubblico avvezzo a vederla malinconica, disgustata, scortese, godeva della sua bella voce e della superiorità delle sue doti.

Assestati i miei affari ed appagata la mia curiosità, lasciai con dispiacere quel rispettabile paese, il quale sotto la protezione dell’imperatore pro tempore gode una pacifica libertà, e s’occupa del più salutare e più esatto buon ordine. Avevo anche caro di osservare e far vedere a mia moglie una parte importantissima della Toscana; e a tale effetto attraversammo i territori di Pescia, di Pistoia e di Prato. Non si possono trovare colline meglio esposte, terreni meglio coltivati, campagne più ridenti e più deliziose. Se l’Italia è il giardino dell’Europa, la Toscana è il giardino d’Italia.