Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XIII

XIII

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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Parte prima - XII Parte prima - XIV
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CAPITOLO XIII.

Terzo anno di collegio. — Mia prima ed ultima satira. — Mia espulsione dal collegio.

Avevo intesa a Milano la morte del superiore del mio collegio, e conoscevo il signor abate Scarabelli suo successore. Arrivato a Pavia andai a presentarmi al nuovo prefetto, il quale, essendo in istretta amicizia col senator Goldoni, m’assicurò della sua benevolenza. Feci visita ancora al nuovo decano degli alunni, che dopo le solite ceremonie di convenienza, mi domandò se avessi voluto sostenere quell’anno la mia tesi di gius civile: aggiunse, che toccava [p. 37 modifica] a me; che per altro, quando non mi fosse premuto, avrebbe avuto caro di sostituire altro soggetto in mia vece. Gli dissi franchissimamente, che, toccando a me, avevo giuste ragioni per non cedere, e che mi pareva mill’anni di finire il mio tempo, per andare una volta a stabilirmi in Milano. Pregai l’istesso giorno il prefetto di voler far tirare a sorte i punti, che io doveva difendere. Fu scelto il giorno, mi furono assegnati gli articoli, e dovei nelle vacanze di Natale sostener la mia tesi. Tutto andava a maraviglia. Ecco un bravo giovane che ha volontà di farsi onore, ma che ha bisogno nel tempo stesso di divertirsi. Esco due giorni dopo per far visite: comincio dalla casa che più m’importava. Non usando guardaportoni in Italia, suono il campanello, aprono, e mi vengono a dire che la signora è malata, e la signorina non riceve. — Mi dimostro di ciò dolente, e lascio i miei complimenti. Vado in altro luogo, e vedo il servitore: — Si può aver l’onore di veder queste signore? — Padron mio, sono tutti in campagna; (ed io avevo veduto due cappelli alla finestra). Non mi raccapezzo: vado in un terzo luogo, non vi è nessuno. Confesso che n’ero punto all’estremo, e che mi credei insultato, senza poterne indovinar la cagione. Lasciai adunque di espormi a nuovi dispiaceri, e immerso nel turbamento, e nell’ira me ne tornai a casa. La sera al caminetto, ove son soliti concorrere gli alunni, raccontai con un’indifferenza maggiore di quella che in realtà io avessi, il caso avvenutomi. Alcuni mi compatirono, altri si burlarono di me; vien l’ora della cena, andiamo al refettorio, e quindi si sale nelle nostre camere. Mentre andavo ripensando ai dispiaceri che provavo, sento picchiare alla porta: apro, entrano quattro dei miei compagni, e mi annunziano di aver cose serie da comunicarmi. Non avevo tante sedie da offrir loro; il letto fece da canapè: ero in atto di ascoltarli, e tutti quattro volevano parlare in una volta. Ciascuno aveva da raccontare il suo caso, ciascuno da proporre il suo parere. Finalmente, ecco quanto rilevai. I cittadini di Pavia erano nemici giurati della scolaresca, e nel tempo delle ultime vacanze avevano congiurato contro di noi. Essi avevano decretato nelle loro assemblee, che qualunque zitella avesse ricevuto in casa scolari, non fosse chiesta in matrimonio da verun cittadino, e ve ne erano quaranta che avevano firmato. Si era fatto correre questo decreto per ogni casa: le madri e le figlie erano in convulsione, onde tutto in un tratto divenne lo scolare per esse un oggetto pericolosissimo. Il sentimento comune dei miei quattro compagni era di vendicarsi: io non aveva gran voglia di mescolarmivi, ma mi trattarono di vile e di poltrone, ed ebbi la melensaggine di piccarmi di onore, e di promettere che non mi sarei ritirato dall’impegno. Credevo di aver parlato a quattro amici, ed erano traditori, che solo bramavano la mia rovina: l’avevan contro di me meditata fino dall’anno precedente, ed avevano tenuto vivo l’odio nel cuore per lo spazio di un anno, cercando di valersi della mia debolezza per farlo scoppiare. Io ne fui la vittima: non ero ancora nel decimo ottavo anno, e aveva che fare con vecchi volponi di vent’otto in trent’anni. Questa buona gente aveva l’uso di portare in tasca le pistole: io non ne aveva mai prese in mano, ma mene provvidero generosissimamente: le trovavo belle, le maneggiavo con piacere, e n’ero divenuto pazzo.

Avevo addosso armi da fuoco, e non sapevo che cosa farne; avrei io ardito forzare una porta? Indipendentemente dal pericolo che vi era da correre, l’onoratezza e la convenienza vi si opponevano. Volevo disfarmi di questo peso inutile: ma i miei buoni [p. 38 modifica] amici venivano spesso a farmi visita, a rinfrescar la polvere dello scodellino. Mi raccontavano le inaudite prodezze del loro coraggio, gli ostacoli che avevano superati, i rivali che avevano atterrati, ed io pure avevo francamente saltati cancelli, sottomesse madri e figlie, e fatto fronte ai bravi della città; eravamo tutti quanti in egual modo veridici, e tutti quanti forse dell’istessa bravura. Finalmente vedendo i perfidi, che, malgrado le pistole, non facevo dir di me, si diportarono in altro modo. Fui accusato presso i superiori di avere armi da fuoco per le tasche: essi mi fecero un giorno visitare, mentre entravo, dai servitori del collegio, e furon trovate le pistole. Non essendo in Pavia il prefetto del collegio, mi sequestrò in camera il viceprefetto. Avevo appunto voglia di profittare di questo tempo per lavorare intorno alla mia tesi; ma i miei finti fratelli vennero nuovamente a tentarmi, seducendomi in una maniera per me più pericolosa, poichè tendeva a solleticare il mio amor proprio. — Voi, mi dissero, siete poeta, ed avete armi per vendicarvi molto più potenti e sicure delle pistole e dei cannoni: un tratto di penna lasciato andare a proposito, è una bomba che schiaccia l’oggetto principale, ed i cui pezzi feriscono da destra e sinistra chi è d’appresso. Coraggio, coraggio! esclamarono tutti in una volta, noi vi somministreremo aneddoti singolari; farete le vostre e insieme le nostre vendette. Vidi bene a qual pericolo e a quali inconvenienti mi si voleva esporre, e posi loro davanti gli occhi le spiacevoli conseguenze ch’erano per risultarne. — Niente affatto, ripresero essi, nessuno lo saprà. Eccovi quattro buoni amici, quattro uomini d’onore; vi promettiamo la più precisa circospezione, e vi facciamo il solenne e sacro giuramento che nessuno lo saprà. Ero debole per temperamento, pazzo per occasione: cedei; presi l’impegno di appagare i miei nemici, e posi ad essi l’armi in mano contro di me. Avevo deliberato di comporre una commedia secondo il gusto di Aristofane; ma non mi sentendo forze bastanti per riuscirvi, e poi il tempo essendo corto, composi un’Atellana, genere di commedia informe presso i Romani, che conteneva soltanto satire e facezie. Il titolo della mia Atellana era il Colosso. Per dare alla mia statua colossale la perfezione della bellezza in tutte le sue proporzioni, presi gli occhi della signorina tale, la bocca di questa, la gola di quell’altra, ecc.; nessuna parte del corpo era passata in dimenticanza; ma gli artisti e gl’intendenti, ch’erano tutti di diverso sentimento, trovarono difetti per tutto. Era una satira, che doveva ferire la delicatezza di parecchie famiglie onorate e rispettabili: ebbi la disgrazia di renderla gradevole con motti piccanti, e con i dardi di quella vis comica, che si maneggiava da me con molta naturalezza e punta prudenza.

I quattro miei nemici trovarono gustosa la mia opera, e fecero venire un giovane, che ne ultimò due copie in un giorno: se ne impadronirono i furbi, facendola correre per i circoli e per i caffè. Non dovevo essere nominato, e mi fu reiterato il giuramento; nè mancarono di parola. Il mio nome non fu palesato; ma siccome avevo fatto in altro tempo una quartina, nella quale si trovava il mio nome, cognome e patria, posero la medesima a piè del Colosso, come se io stesso avessi avuto l’audacia di vantarmene.

L’Atellana faceva la novità del giorno: gl’indifferenti si divertivano dell’opera, e condannavano l’autore. Ma dodici famiglie gridavano vendetta: mi si voleva morto: ero per buona sorte ancora in arresto: parecchi dei miei compagni furono insultati, il collegio del Papa era assediato, fu scritto al prefetto, ed egli tornò [p. 39 modifica] precipitosamente. Avrebbe desiderato di poter salvarmi, scrisse però al senator Goldoni, e questi spedì lettere per il senatore Erba Odescalchi governatore di Pavia: si adoperarono in mio favore l’arcivescovo che mi aveva tonsurato, ed il marchese Ghislieri che mi aveva nominato: tutte le mie protezioni e tutti i loro passi furono inutili. Io doveva essere sacrificato, e, senza il privilegio del luogo ove io era, la Giustizia si sarebbe di me impadronita. In somma mi si annunziò l’esclusione dal collegio, e si aspettò che fosse sedata la burrasca per farmi partire senza pericolo.

Che orrore! che rimorsi, che pentimenti! Eclissate le mie speranze! sacrificato il mio stato! perduto il mio tempo: parenti, protezioni, amici, conoscenze, tutto doveva essere contro me; ero afflitto, desolato: stavo nella mia camera, non vedevo alcuno, alcuno non veniva a trovarmi: che doloroso stato! che disgraziata condizione!