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38 | parte prima |
amici venivano spesso a farmi visita, a rinfrescar la polvere dello scodellino. Mi raccontavano le inaudite prodezze del loro coraggio, gli ostacoli che avevano superati, i rivali che avevano atterrati, ed io pure avevo francamente saltati cancelli, sottomesse madri e figlie, e fatto fronte ai bravi della città; eravamo tutti quanti in egual modo veridici, e tutti quanti forse dell’istessa bravura. Finalmente vedendo i perfidi, che, malgrado le pistole, non facevo dir di me, si diportarono in altro modo. Fui accusato presso i superiori di avere armi da fuoco per le tasche: essi mi fecero un giorno visitare, mentre entravo, dai servitori del collegio, e furon trovate le pistole. Non essendo in Pavia il prefetto del collegio, mi sequestrò in camera il viceprefetto. Avevo appunto voglia di profittare di questo tempo per lavorare intorno alla mia tesi; ma i miei finti fratelli vennero nuovamente a tentarmi, seducendomi in una maniera per me più pericolosa, poichè tendeva a solleticare il mio amor proprio. — Voi, mi dissero, siete poeta, ed avete armi per vendicarvi molto più potenti e sicure delle pistole e dei cannoni: un tratto di penna lasciato andare a proposito, è una bomba che schiaccia l’oggetto principale, ed i cui pezzi feriscono da destra e sinistra chi è d’appresso. Coraggio, coraggio! esclamarono tutti in una volta, noi vi somministreremo aneddoti singolari; farete le vostre e insieme le nostre vendette. Vidi bene a qual pericolo e a quali inconvenienti mi si voleva esporre, e posi loro davanti gli occhi le spiacevoli conseguenze ch’erano per risultarne. — Niente affatto, ripresero essi, nessuno lo saprà. Eccovi quattro buoni amici, quattro uomini d’onore; vi promettiamo la più precisa circospezione, e vi facciamo il solenne e sacro giuramento che nessuno lo saprà. Ero debole per temperamento, pazzo per occasione: cedei; presi l’impegno di appagare i miei nemici, e posi ad essi l’armi in mano contro di me. Avevo deliberato di comporre una commedia secondo il gusto di Aristofane; ma non mi sentendo forze bastanti per riuscirvi, e poi il tempo essendo corto, composi un’Atellana, genere di commedia informe presso i Romani, che conteneva soltanto satire e facezie. Il titolo della mia Atellana era il Colosso. Per dare alla mia statua colossale la perfezione della bellezza in tutte le sue proporzioni, presi gli occhi della signorina tale, la bocca di questa, la gola di quell’altra, ecc.; nessuna parte del corpo era passata in dimenticanza; ma gli artisti e gl’intendenti, ch’erano tutti di diverso sentimento, trovarono difetti per tutto. Era una satira, che doveva ferire la delicatezza di parecchie famiglie onorate e rispettabili: ebbi la disgrazia di renderla gradevole con motti piccanti, e con i dardi di quella vis comica, che si maneggiava da me con molta naturalezza e punta prudenza.
I quattro miei nemici trovarono gustosa la mia opera, e fecero venire un giovane, che ne ultimò due copie in un giorno: se ne impadronirono i furbi, facendola correre per i circoli e per i caffè. Non dovevo essere nominato, e mi fu reiterato il giuramento; nè mancarono di parola. Il mio nome non fu palesato; ma siccome avevo fatto in altro tempo una quartina, nella quale si trovava il mio nome, cognome e patria, posero la medesima a piè del Colosso, come se io stesso avessi avuto l’audacia di vantarmene.
L’Atellana faceva la novità del giorno: gl’indifferenti si divertivano dell’opera, e condannavano l’autore. Ma dodici famiglie gridavano vendetta: mi si voleva morto: ero per buona sorte ancora in arresto: parecchi dei miei compagni furono insultati, il collegio del Papa era assediato, fu scritto al prefetto, ed egli tornò preci-