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capitolo xiii | 37 |
a me; che per altro, quando non mi fosse premuto, avrebbe avuto caro di sostituire altro soggetto in mia vece. Gli dissi franchissimamente, che, toccando a me, avevo giuste ragioni per non cedere, e che mi pareva mill’anni di finire il mio tempo, per andare una volta a stabilirmi in Milano. Pregai l’istesso giorno il prefetto di voler far tirare a sorte i punti, che io doveva difendere. Fu scelto il giorno, mi furono assegnati gli articoli, e dovei nelle vacanze di Natale sostener la mia tesi. Tutto andava a maraviglia. Ecco un bravo giovane che ha volontà di farsi onore, ma che ha bisogno nel tempo stesso di divertirsi. Esco due giorni dopo per far visite: comincio dalla casa che più m’importava. Non usando guardaportoni in Italia, suono il campanello, aprono, e mi vengono a dire che la signora è malata, e la signorina non riceve. — Mi dimostro di ciò dolente, e lascio i miei complimenti. Vado in altro luogo, e vedo il servitore: — Si può aver l’onore di veder queste signore? — Padron mio, sono tutti in campagna; (ed io avevo veduto due cappelli alla finestra). Non mi raccapezzo: vado in un terzo luogo, non vi è nessuno. Confesso che n’ero punto all’estremo, e che mi credei insultato, senza poterne indovinar la cagione. Lasciai adunque di espormi a nuovi dispiaceri, e immerso nel turbamento, e nell’ira me ne tornai a casa. La sera al caminetto, ove son soliti concorrere gli alunni, raccontai con un’indifferenza maggiore di quella che in realtà io avessi, il caso avvenutomi. Alcuni mi compatirono, altri si burlarono di me; vien l’ora della cena, andiamo al refettorio, e quindi si sale nelle nostre camere. Mentre andavo ripensando ai dispiaceri che provavo, sento picchiare alla porta: apro, entrano quattro dei miei compagni, e mi annunziano di aver cose serie da comunicarmi. Non avevo tante sedie da offrir loro; il letto fece da canapè: ero in atto di ascoltarli, e tutti quattro volevano parlare in una volta. Ciascuno aveva da raccontare il suo caso, ciascuno da proporre il suo parere. Finalmente, ecco quanto rilevai. I cittadini di Pavia erano nemici giurati della scolaresca, e nel tempo delle ultime vacanze avevano congiurato contro di noi. Essi avevano decretato nelle loro assemblee, che qualunque zitella avesse ricevuto in casa scolari, non fosse chiesta in matrimonio da verun cittadino, e ve ne erano quaranta che avevano firmato. Si era fatto correre questo decreto per ogni casa: le madri e le figlie erano in convulsione, onde tutto in un tratto divenne lo scolare per esse un oggetto pericolosissimo. Il sentimento comune dei miei quattro compagni era di vendicarsi: io non aveva gran voglia di mescolarmivi, ma mi trattarono di vile e di poltrone, ed ebbi la melensaggine di piccarmi di onore, e di promettere che non mi sarei ritirato dall’impegno. Credevo di aver parlato a quattro amici, ed erano traditori, che solo bramavano la mia rovina: l’avevan contro di me meditata fino dall’anno precedente, ed avevano tenuto vivo l’odio nel cuore per lo spazio di un anno, cercando di valersi della mia debolezza per farlo scoppiare. Io ne fui la vittima: non ero ancora nel decimo ottavo anno, e aveva che fare con vecchi volponi di vent’otto in trent’anni. Questa buona gente aveva l’uso di portare in tasca le pistole: io non ne aveva mai prese in mano, ma mene provvidero generosissimamente: le trovavo belle, le maneggiavo con piacere, e n’ero divenuto pazzo.
Avevo addosso armi da fuoco, e non sapevo che cosa farne; avrei io ardito forzare una porta? Indipendentemente dal pericolo che vi era da correre, l’onoratezza e la convenienza vi si opponevano. Volevo disfarmi di questo peso inutile: ma i miei buoni