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capitolo viii 27


Arrivando a Milano prendemmo alloggio all’albergo dei Tre Re, e il giorno seguente andammo a fare la nostra visita al marchese e senator Goldoni.

Non potevamo esser ricevuti più graziosamente; il mio protettore parve contento di me, ed io lo era pienamente di lui. Si parlò di collegio, e destinò inoltre il giorno che dovevamo essere a Pavia; ma il signor marchese guardandomi con maggiore attenzione, domandò a mio padre ed a me, perchè io fossi in abito da secolare, e perchè non avessi il collare. Non sapevamo dove andasse a parar questo discorso: in sostanza si seppe allora per la prima volta, che per entrare nel collegio Ghislieri, detto il collegio del Papa, bisognava necessariamente: 1° Che i convittori fossero tonsurati; 2° Che avessero un attestato della loro civile condizione, e della loro condotta; 3° Altro attestato di non aver contratto matrimonio; 4° La loro fede battesimale.

Mio padre ed io restammo senza parole dallo stupore, nessuno avendocene avvertiti. Il signor senatore era persuaso che dovessimo esserne informati, avendone incaricato il suo segretario, ed avendo dato al medesimo una nota per ispedircela. Il segretario se ne era scordato, e la nota era rimasta nella segreteria. Molte scuse, molti perdoni: il suo padrone era buono, e noi non avremmo guadagnato nulla ad esser cattivi.

Bisogna però rimediarvi, e mio padre prese l’espediente di scrivere a sua consorte, che si trasferì a Venezia, e sollecitò il tutto da ogni parte. Gli attestati di stato libero e di buoni costumi non incontravano alcuna difficoltà, molto meno per la fede battesimale. La più grave difficoltà era quella della tonsura. Il Patriarca di Venezia non voleva concedere le lettere dimissorie senza la costituzione del patrimonio ordinato dai canoni della Chiesa. Come fare? I beni di mio padre nello Stato Veneto non esistevano, quelli di mia madre erano beni surrogati; bisognava ricorrere al senato per averne la dispensa. Quanti prolungamenti! Quante contraddizioni! Quanto tempo perduto! — Il segretario senatoriale con le sue scuse e col suo malgarbo ci costò caro. Pazienza! Mia madre tanto si adoperò, che finalmente riuscì; ma mentre che ella si affatica per suo figlio a Venezia, cosa faremo noi a Milano? Ecco quel che facemmo. Restammo quindici giorni a Milano, desinando e cenando in casa del mio protettore, che ci faceva osservare ciò che vi era di più bello in questa città magnifica, che è la capitale della Lombardia Austriaca. Per ora non farò parola di Milano, dovendo rivederla: ne parlerò a mio comodo, quando sarò più degno di parlarne. In questo frattempo mi si fa cangiar costume. Prendo il collare, e quindi partiamo per Pavia ben muniti di lettere commendatizie. Alloggiamo, ci mettiamo a dozzina in una buona e civil casa, e son presentato al superiore del collegio, ove dovevo esser ricevuto.

Avevamo una lettera del senatore Goldoni per il signore Lauzio professore di legge. Mi condusse egli stesso all’università, dove lo seguitai nella classe che occupava, e non perdei tempo, mentre aspettavo il titolo di collegiale.

Era il signor Lauzio un giureconsulto del più gran merito. Aveva una libreria ricchissima di cui ero padrone, come lo ero della sua tavola, e la di lui signora consorte aveva molta bontà per me. Era ancora molto giovine, e sarebbe stata bella, se non fosse stata enormemente sfigurata da un mostruoso gozzo, che dal mento scendeva alla gola. Non son rari questi gioielli in Milano ed in Bergamo; quello però di madama Lauzio era di una specie particolare, avendo