Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/LII

LII

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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CAPITOLO LII.

Visita al signor Medebac, che mi obbliga di andare a desinar da lui. — Ritratto della signora Medebac. — La commedia della Donna di garbo da me veduta per la prima volta. — Riepilogo di questa rappresentazione. — Mio impiego con Medebac. — Addio a Pisa. — Mia partenza.

Dopo il colloquio tenuto col Darbes, guardo l’orologio, e vedo che sono due ore dopo mezzogiorno. Era troppo tardi per andare a mangiare da qualcun de’ miei amici, onde feci ordinare il pranzo alla cucina dell’albergo. Mentre si apparecchiava, mi venne annunziato il signor Medebac. Entra, mi ricolma di garbatezze, e mi invita a desinare a casa sua. La minestra era già in tavola: dunque lo ringraziai. Il Darbes, ritornato da me in compagnia del direttore, va a prendere il mio cappello ed il bastone, e me li presenta. Il Medebac insiste; il Darbes mi prende per il braccio sinistro, l’altro per il braccio destro; mi si gettano addosso, mi trascinano: bisogna andare.

Nell’entrare in casa del direttore, venne ad incontrarmi alla porta dell’anticamera la signora Medebac, attrice stimabile per i suoi costumi, non meno che per il suo ingegno: era giovine, bella, ben fatta. Mi fece la più garbata e graziosa accoglienza. Insomma, entrammo a tavola. Il desinare era di famiglia, ma per altro assai decente, e servito con la massima pulitezza. Essendosi in quel giorno messo l’affisso per una commedia dell’arte, mi si usò anche la gentilezza di mutarla, e di rappresentare Griselda, aggiungendovi, tragedia del signor Goldoni. Benchè questa composizione non fosse intieramente mia, n’era nulladimeno lusingato il mio amor proprio, onde andai a vederla nel palchetto che mi era stato assegnato. Fui estremamente contento della signora Medebac, che recitava la parte di Griselda. La sua natural dolcezza, l’espressiva sua voce, la sua intelligenza, la sua azione la rendevano agli occhi miei un oggetto simpatico ed un’attrice stimabile al disopra di tutte quelle che io già conosceva. Fui però assai più contento il giorno seguente alla rappresentazione della Donna di garbo, stata fin allora la mia commedia favorita. L’aveva composta in Venezia per la signora Baccherini, e dovevo vederne a Genova, la prima sua recita, ma morì l’attrice avanti di rappresentarla, onde non ebbe luogo altrimenti il mio viaggio per Genova; era dunque la prima volta che compariva a’ miei occhi. Che piacere per me vedendola recitare così bene!

Ecco appunto l’opportunità di entrar nei particolari di questa rappresentazione, da me solamente annunziata nel capitolo XLIII. Rosaura, figlia di una lavandaia della città di Pavia, aveva occasione di vedere molti studenti ed alcuni professori dell’università in casa di sua madre; era anche nel caso di coltivare la sua inclinazione alle lettere, e di procurarsi nel tempo stesso un onorevole [p. 142 modifica] collocamento. Fu ingannata da un giovine, che dopo averle tutto promesso, l’abbandonò volgendosi ad altr’oggetto. Rosaura corre dietro al suo amante, e giunge prima di lui; viene accettata con l’aiuto di un servitore che conosceva, cameriera della cognata del suo infedele: procura di entrare in grazia ad ognuno, e giunge a metter la famiglia in impegno di occuparsi in favore di lei. Il padre è avvocato, ed ella ha cognizione del gius romano e della pratica della curia. Il figlio maggiore ha passione per il giuoco del lotto. Rosaura gli parla delle fasi della luna, d’influenze, di costellazioni, di sogni, di cabale, di combinazioni. La moglie è civetta, e la servente mette in vista tutto ciò che può lusingare la civetteria. La fanciulla ha un’inclinazione segreta, e Rosaura se n’accorge benissimo, la fa parlare, promette di secondarla, dà coraggio all’amante timido, e s’impegna a sollecitare la loro unione. Brighella fa da servitore molto accorto, nè vi è astuzia che non conosca. Arlecchino poi è un servo balordo, che fa tutte le scimmiottate possibili, e che ora diverte gli uni, ora accarezza gli altri. Lo scopo principale di Rosaura però è di guadagnare il capo di casa; giunge infatti a guadagnarlo in modo, che egli si determina di sposarla. Torna Fiorindo, quest’è il nome del perfido amante, il padre gli dichiara la sua inclinazione, la sua idea, e il figlio vi si oppone: bisogna dunque che egli renda ragione della sua apposizione, ed ecco perciò forzato a confessare i suoi impegni con la cameriera della sua cognata. Il padre, vedendo l’impossibilità di sposarla, costringe il figlio a dar soddisfazione alla giovine da lui ingannata, obbligandolo a mantener la parola. Fiorindo recalcitra; tutti son contro di lui; ne arrossisce, ne è confuso, la sposa. Ecco il trionfo di Rosaura. Non è essa Donna dì garbo? Benchè questo titolo abbia eccitate molte critiche, io non l’ho mutato, facendo Rosaura stessa la sua giustificazione al termine della commedia. Tutti, essa dice, mi hanno finora chiamata Donna di garbo, perchè ho saputo lusingare le loro passioni, e mi sono uniformata ai loro caratteri, ed ai loro geni. Confesso adunque, che questo titolo non mi conviene, poichè per meritarlo avrei dovuto essere più sincera e meno seducente. Ora se Rosaura è stata nel corso della rappresentazione una donna scaltra ed insidiosa, addiviene con quest’ultime espressioni una donna ragionevole, una Donna di garbo. Fu fatta anche un’altra critica alla mia composizione. Si diceva che Rosaura, per donna, era troppo istruita. Su questo punto poi rimisi tutta la mia difesa in mano del bel sesso, nè mi mancarono i mezzi di smentire appieno l’ingiustizia e i pregiudizi.

Contento dell’esecuzione di questa commedia, mi congratulai colla signora Medebac e con suo marito. Quest’uomo, a cui eran note le mie opere, ed a cui avevo fatta la confidenza dei dispiaceri da me provati recentemente in Pisa, mi tenne, alcuni giorni dopo, un discorso molto serio e importante per me. È necessario che ne renda conto ai miei lettori, poichè fu appunto in conseguenza di questo colloquio avuto col Medebac, che rinunziai allo stato nuovamente da me abbracciato da tre anni, e che tornai a battere il sentiero abbandonato. Se voi siete deciso, mi disse un giorno il Medebac, di lasciar la Toscana, e avete fatto proposito di ritornare in seno dei vostri compatriotti, parenti ed amici, ho una proposta da farvi, che vi servirà almeno di riprova del conto che io fo della vostra persona e del vostro ingegno. Vi sono in Venezia, egli proseguì, due teatri per le commedie. Io m’impegno di averne un terzo, e prenderlo a fitto per cinque o sei anni, quando vogliate farmi l’onore di [p. 143 modifica] lavorare per me. — Una tale proposta parvemi lusinghiera; e poi non vi abbisognavano sforzi per farmi prendere l’aire all’arte comica. Ringraziai il direttore della fiducia che aveva in me, accettai la proposizione, si fecero le dovute convenzioni, e fu su due piedi stipulato il contratto. Non sottoscrissi però in quel momento medesimo, volendone prima passar parola a mia moglie, non ancora tornata dalla sua corsa di Genova. Conoscevo, è vero, la sua docilità, ma le dovevo sempre riguardi di stima e di amicizia. Ella giunge, approva tutto, e spedisco a Livorno la mia firma.

Ecco la mia musa, la mia penna impegnata agli ordini d’un particolare. Un autor francese troverà forse singolare un tal impiego. Un uomo di lettere, dev’essere sempre libero, e deve disprezzare la tortura e la schiavitù. Rispondo: se quest’autore è ben provvisto come il Voltaire, o cinico come il Rousseau, non ho nulla da dire; quando sia uno di quelli che non ricusano di spartir con altri il provento della stampa, lo prego, in grazia, di voler porgere orecchio alla mia giustificazione. In Italia il prezzo più alto per l’ingresso al teatro comico non passa il valore di un paolo romano, che sono dieci soldi di Francia. È vero che tutti quelli che vanno nei palchetti pagano pure il biglietto d’ingresso; ma i palchetti non appartengono al proprietario del teatro, onde l’introito non può essere considerabile; di maniera che la parte che tocca all’autore, non merita assolutamente la pena di attendervi. Altri incoraggiamenti si offrono in Francia per le persone d’ingegno: sono le gratificazioni della Corte, le pensioni, le beneficienze del re. Niente dì tutto ciò in Italia; e questa è la cagione per cui tanti begli ingegni, onde sopra d’ogni altra è feconda questa terra, gemono nel torpore e nell’ozio. Alcune volte mi vien la tentazione di riguardarmi come un vero fenomeno; mi son dato in braccio senza riflessione al genio comico che mi ha sempre a sè trascinato, ed ho perduto tre o quattro volte le occasioni più felici per migliorare la mia sorte; sempre son ricaduto nell’istesse reti; ma non me ne pento; avrei forse trovato per tutto quella maggior comodità, ma minor soddisfazione. Ero pertanto contentissimo del mio stato e dei patti fissati col Medebac; le mie composizioni si ricevevano senza leggerle, e si pagagavano senza attenderne l’esito. Una sola delle mie commedie valeva per cinquanta, e se mai impiegavo maggior attenzione e zelo per procurare ad esse un buon successo, mi eccitava al lavoro il solo onore, ed era la mia ricompensa la sola gloria. Fu nel mese di settembre del 1746 che io mi legai col Medebac, dovendo andare ad unirmi seco a Mantova nel mese di aprile dell’anno seguente. Avevo dunque sei mesi di tempo per mettere in assetto i miei affari in Pisa, per ispedire alcune cause già incominciate, per cedere ad altri quelle che non potevo tirare avanti, per prendere congedo da’ miei giudici e clienti, ed in ultimo per fare le mie dipartenze poetiche con l’accademia degli Arcadi. Furono da me adempiti tutti questi doveri, e partii dopo Pasqua.