Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/LIII

LIII

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
LIII
Parte prima - LII Parte seconda

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CAPITOLO LIII.

Mio congedo da Firenze. — Sibillone, divertimento letterario. — Partenza dalla Toscana e miei disgusti. — Passaggio dell’Appennino. — Passaggio per Bologna e Ferrara. — Mio arrivo a Mantova. — Miei incomodi, e mia partenza per Modena. — Aggiustamento de’ miei affari con la banca ducale. — Viaggio per Venezia.

Prima di lasciare la Toscana avevo caro di rivedere un’altra volta la città di Firenze, che ne è la capitale. Nel far le mie visite, e prender congedo dalle persone di mia conoscenza, mi fu proposto di andare all’accademia degli Apatisti. Ne avevo già contezza; ma si trattava di vedere in quel giorno il Sibillone, divertimento letterario, che vi si dava di tempo in tempo, nè da me ancora veduto. Il Sibillone, o la gran Sibilla, è un ragazzo di dieci o dodici anni, che vien posto in una cattedra in mezzo della sala dell’assemblea. Una persona scelta a caso nel numero degli assistenti, indirizza una domanda a codesta giovine Sibilla; il ragazzo deve nell’atto stesso pronunziare una parola, e questo è l’oracolo della profetessa ed è la risposta alla questione proposta. Queste risposte, questi oracoli, dati da uno scolare, senza dar luogo alla riflessione, non hanno per lo più senso comune, e però sta sempre accanto alla cattedra uno degli accademici, che, alzandosi dalla sedia, sostiene che il Sibillone ha ben risposto, e si accinge a dar nel momento l’interpretazione dell’oracolo.

Per far conoscere al lettore fin dove può giungere l’immaginazione e l’ardire di uno spirito italiano, renderò conto della domanda, della risposta, e dell’interpretazione di cui fui testimone io medesimo. L’interrogatore, ch’era forestiero come me, pregò la Sibilla di aver la compiacenza di dirgli: Perchè le donne piangano più spesso e più facilmente degli uomini. La Sibilla per risposta pronunziò la parola paglia, e l’interprete indirizzando il discorso all’autore della questione, sostenne che l’oracolo non poteva essere nè più decisivo nè più soddisfacente. Il dotto accademico interprete, che era un abate di circa quarant’anni, grasso, grosso, e di una voce chiara, sonora e piacevole, parlò per tre quarti d’ora continui. Incominciò dal fare l’analisi di tutte le piante fragili, provando, che la paglia sorpassa tutto in leggerezza. Dalla parola paglia passò alla donna, e svolse con non minor velocità che chiarezza una specie di saggio anatomico del corpo umano. Descrisse minutamente la sorgente delle lacrime nei due sessi, provò la delicatezza di fibra nell’uno e la resistenza nell’altro. Terminò in somma con lusingare dolcemente le signore che vi si trovano presenti, attribuendo le belle prerogative della sensibilità alla debolezza, e fu ben cauto di parlare delle lagrime artificiose. Confesso che di questo uomo rimasi colpito. Non si poteva far uso di maggiore scienza, erudizione, e precisione in una materia che finalmente non ne pareva suscettibile. Tali esercizi per vero dire, sono sforzi d’ingegno, son presso a poco sul gusto del Capo d’opera d’un incognito: è però sempre vero che questi rari ingegni son da stimarsi sommamente, non mancando ad essi se non incoraggiamento, per mettersi a livello di tant’altri, e trasmetter con gloria i loro nomi alla posterità. Rientrato quell’istesso giorno in casa, trovai [p. 145 modifica] la lettera di porto che aspettavo appunto da Pisa. I miei bauli si trovavano alla dogana di Firenze; andai perciò il giorno dopo a farne la spedizione per Bologna; e non indugiai a seguirli. Dalla porta della città, che io lasciava con tanto dispiacere, fino a Cafaggiolo, abitazione di campagna del granduca, quattordici miglia distante dalla capitale, godevo sempre della piacevole esposizione e dell’industriosa cultura del paese toscano; ma appena che bisognò cominciare ad arrampicarsi per l’Appennino, vidi una maravigliosa mutazione nel suolo, nell’aria, in tutta la natura. Passai col dispiacere del confronto quelle tre alte montagne, il Giogo, l’Uccellatoio, e la Raticosa, desiderando che i Fiorentini e i Bolognesi trovassero il mezzo di agevolare quest’alpestre cammino, per cui rendevasi noiosa e difficilissima la comunicazione di codesti due paesi importanti. Ebbero effetto i miei desiderii poco tempo dopo. Giunti a Bologna, avevamo bisogno mia moglie ed io di riposarci, onde non si vide alcuno; si riprese in capo a ventiquattr’ore il viaggio, ed arrivammo a Mantova alla fine di aprile.

Il Medebac, da cui ero aspettato con impazienza, mi accolse con giubilo, avendomi già preparato un quartiere in casa della signora Balletti. Era questa una vecchia comica, che sotto il nome di Fravoletta era stata eccellente nella parte di servetta, e che godeva nel suo ritiro d’una comodità molto piacevole, conservando ancora nella grave età di ottant’anni qualche resto della primitiva sua bellezza, ed un lampo della vivacità e della bizzarria della sua mente. Essa era matrigna di madamigella Silvia, che fece le delizie del teatro comico italiano in Parigi, e nonna della signora Balletti, alla quale vidi fare in Venezia la più bella comparsa per la sua bravura nel ballo, primeggiando poi in Francia anche in quella della commedia. Passai a Mantova un mese intero in termini molto cattivi, e quasi sempre in letto; l’aria di codesto paese paludoso non era per me. Diedi al direttore due nuove commedie composte per lui espressamente. Ne parve molto contento, nè disapprovò che andassi ad aspettarlo a Modena, ove doveva trovarsi egli pure per passarvi l’estate; feci assai bene a venirmene via; alla seconda posta mi sentii sollevato in modo che arrivai a Modena in perfetto stato di salute. La guerra aveva avuto termine; l’infante don Filippo era al possesso dei ducati di Parma, Piacenza, Guastalla, e il duca di Modena era già tornato al suo paese. La banca ducale proponeva accomodamenti ai creditori: avevo dunque sommo piacere di essere in grado d’attendere da me stesso ai miei interessi.

Giungono a Modena alla fine di luglio il Medebac e la sua compagnia. Diedi al medesimo una terza commedia, e serbai per Venezia l’esposizione delle mie prime novità. Era questo il paese, dove avevo gettato i fondamenti del Teatro Italiano, ed era appunto là dove dovevo lavorare per la costruzione del mio nuovo edifizio. Non avevo da combatter rivali, avevo però da superare alcuni pregiudizi. Se il lettore ha avuto la compiacenza di seguitarmi fin qui, la materia che son per offrirgli lo muoverà forse a continuarmi la sua benevolenza ed attenzione.

Il mio stile sarà sempre l’istesso, cioè senza eleganza, senza pretensione, ma animato dallo zelo per la mia arte e dettato dalla verità.