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capitolo liii 143


lavorare per me. — Una tale proposta parvemi lusinghiera; e poi non vi abbisognavano sforzi per farmi prendere l’aire all’arte comica. Ringraziai il direttore della fiducia che aveva in me, accettai la proposizione, si fecero le dovute convenzioni, e fu su due piedi stipulato il contratto. Non sottoscrissi però in quel momento medesimo, volendone prima passar parola a mia moglie, non ancora tornata dalla sua corsa di Genova. Conoscevo, è vero, la sua docilità, ma le dovevo sempre riguardi di stima e di amicizia. Ella giunge, approva tutto, e spedisco a Livorno la mia firma.

Ecco la mia musa, la mia penna impegnata agli ordini d’un particolare. Un autor francese troverà forse singolare un tal impiego. Un uomo di lettere, dev’essere sempre libero, e deve disprezzare la tortura e la schiavitù. Rispondo: se quest’autore è ben provvisto come il Voltaire, o cinico come il Rousseau, non ho nulla da dire; quando sia uno di quelli che non ricusano di spartir con altri il provento della stampa, lo prego, in grazia, di voler porgere orecchio alla mia giustificazione. In Italia il prezzo più alto per l’ingresso al teatro comico non passa il valore di un paolo romano, che sono dieci soldi di Francia. È vero che tutti quelli che vanno nei palchetti pagano pure il biglietto d’ingresso; ma i palchetti non appartengono al proprietario del teatro, onde l’introito non può essere considerabile; di maniera che la parte che tocca all’autore, non merita assolutamente la pena di attendervi. Altri incoraggiamenti si offrono in Francia per le persone d’ingegno: sono le gratificazioni della Corte, le pensioni, le beneficienze del re. Niente dì tutto ciò in Italia; e questa è la cagione per cui tanti begli ingegni, onde sopra d’ogni altra è feconda questa terra, gemono nel torpore e nell’ozio. Alcune volte mi vien la tentazione di riguardarmi come un vero fenomeno; mi son dato in braccio senza riflessione al genio comico che mi ha sempre a sè trascinato, ed ho perduto tre o quattro volte le occasioni più felici per migliorare la mia sorte; sempre son ricaduto nell’istesse reti; ma non me ne pento; avrei forse trovato per tutto quella maggior comodità, ma minor soddisfazione. Ero pertanto contentissimo del mio stato e dei patti fissati col Medebac; le mie composizioni si ricevevano senza leggerle, e si pagagavano senza attenderne l’esito. Una sola delle mie commedie valeva per cinquanta, e se mai impiegavo maggior attenzione e zelo per procurare ad esse un buon successo, mi eccitava al lavoro il solo onore, ed era la mia ricompensa la sola gloria. Fu nel mese di settembre del 1746 che io mi legai col Medebac, dovendo andare ad unirmi seco a Mantova nel mese di aprile dell’anno seguente. Avevo dunque sei mesi di tempo per mettere in assetto i miei affari in Pisa, per ispedire alcune cause già incominciate, per cedere ad altri quelle che non potevo tirare avanti, per prendere congedo da’ miei giudici e clienti, ed in ultimo per fare le mie dipartenze poetiche con l’accademia degli Arcadi. Furono da me adempiti tutti questi doveri, e partii dopo Pasqua.