Meditazioni di un brontolone/L'umanità di Beatrice
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L’UMANITÀ DI BEATRICE
Una delle qualità più spiccate dell’uomo, e per la quale egli si segnala sopra gli altri animali, è lo innato suo spirito di contraddizione. Ci avete mai posto attenzione?... No?... Ebbene, guardate. Perchè mai Penelope disfaceva la notte il lavoro compiuto di giorno?... Per contraddizione. Perchè, secondo il vecchio apologo, l’uomo desidera le vivande calde e poi vi soffia sopra per raffreddarle?... Per contraddizione. Perchè si ama di addolcire col zucchero il caffè che è amaro?... Per contraddizione. Potrei durare a lungo negli esempi... ma preferisco arrestarmi, affermando che è su questo fenomeno, che io chiamerò psicologico, che si basa la metà almeno delle interminabili lotte filosofiche, artistiche e letterarie onde è, da molti e molti secoli, afflitta l’umanità.
E, quanto alle quistioni cui alludo, c’è un’altra ragione, oltre quella della contraddizione, che ne fomenta il periodico risorgere: e questa ragione è la moda; capricciosa Iddia a cui talento si rinnovellano, a un dato periodo, più o meno lungo, di tempo, innovellate, quasi per sorpresa e ad insaputa di tutti, di novella fronda certe dispute intorno alle quali tutto il mondo credeva ormai emessa formale e definitiva sentenza... Bah!... E il prurito di apparir critico nuovo elle assale or questo or quello, dove lo mettete?... E’ vi conviene piegare il capo: quella vecchia lite che voi, in buona fede, già credevate risolta e per sempre risolta... macchè!... eccola rifiorire più verde e prospera di prima.... non già afforzata dal rigoglio di nuove ragioni, ma sì bene ritta sullo stelo dei vecchi argomenti...
Ed eccoli lì i letterati, gii studiosi, i critici ad accapigliarsi, ad arrabattarsi, a dirsi, magari, un sacco di contumelie e ad arruffare più che mai la matassa, la quale, a farlo apposta, il più delle volte era, in origine, liscia, semplice, dipanata...
Oh ascendente irresistibile della vecchia storia di Penelope!
Tutte queste melanconiche riflessioni mi sono suggerite dal fatto che, oggi, torna a galla la disputa secolare se la Beatrice, la quale inspirò al divino Dante il più meraviglioso e sublime poema che la razza umana conosca, fosse realmente una fanciulla fiorentina di carne e d’ossa, poco importa se figlia di Folco Portinari o di altro cittadino, o se ella invece non sia che un ente fantastico, un mito, un simbolo creato dall’onnipotente immaginazione dell’esule ghibellino.
Per vedere quanto sia stravagante la resurrezione di tale quistione, dopo che la grande maggioranza dei critici e dei commentatori sì nostrani che stranieri l’avean risolta, più volte, a favore dell’umanità di Beatrice, basterà volgere uno sguardo al quando e al come tale discussione sorse e alle varie fasi per le quali si svolse.
Tutti i commentatori e lettori pubblici della Divina Commedia nel xiv secolo, cioè tutti i commentatori e lettori più vicini all’epoca in cui visse il poeta, tutti coloro che furono o suoi contemporanei, o quasi contemporanei, dal Boccaccio, scendendo, giù giù, pel Pievano, per Filippo Villani, per Jacopo della Lana, per l’Anonimo, per l’Ottimo, per Benvenuto da Imola, per Francesco da Buti, pel Malpaghinis, per Gherardo da Prato, fino ai due commenti attribuiti a Pietro e a Jacopo figli di Dante, tutti concordemente ammisero e riconobbero, sotto la soave e vaporosa persona di Beatrice, le sembianze e le forme di una donna viva e vera, la quale si era andata poi, man mano, trasformando e fondendo nella mente del poeta, in una cosa sola col simbolo della teologia o della scienza rivelatrice divina.
Quale interesse potevano avere i figli di Dante, e i commentatori e spositori quasi a lui contemporanei, quale interesse potevano avere a falsare la verità e la storia, narrando degli amori purissimi del poeta con una nobile e casta fanciulla fiorentina?...
I figli Jacopo e Pietro, stati di continuo presso il padre loro, dovean, senza dubbio, saperne, intorno a questi amori, più assai che non ne potessero sapere gli estranei, per la assidua loro dimestichezza col genitore; gli altri fondavano la loro credenza sulla esistenza di una vera e reale Beatrice, nella recente tradizione popolare viva, sincrona intorno alle vicende e alle azioni del poeta.
Non fu che in pieno secolo decimoquinto, centocinquant’anni circa dopo la morte del divino poeta, che Gio. Mario Filelfo, figlio di Francesco, dettando una vita dell’Alighieri, pensò opportuno di impugnare l’opinione generale e, primo, espose e sostenne l’idea che Beatrice fosse ente immaginario e non mai esistito.
La ragione di questa nuova dottrina non può ricercarsi e rinvenirsi che nel desiderio di novità che mosse il turbolento e bugiardo letterato a quella stravagante affermazione: dire e mostrare di credere il contrario di ciò che asserivano e credevano tutti gli altri parve al figlio del Tolentinese qualche cosa di simile ad un’altra invenzione della bussola: e fìnse di credere e scrisse che Beatrice non era altrimenti una donna esistita, ma un mito.
Ma quanto potesse valere la stravagante affermazione del Filelfo, non sussidiata da alcun sodo e serio argomento, apparve facile a tutti i dotti contemporanei i quali non abbracciarono quella opinione, perchè sapevano per prova come e quanto Gio. Mario Filelfo fosse mendace spacciatore di frottole letterarie.
Cosicchè i commentatori suoi contemporanei e i posteriori - e ve ne furono dei valenti e di profondo acume dotati, e basterà citare il Landino, il Nidobeato, il Vellutello e il Dolce - non tennero alcun conto dell’opinione del Filelfo la quale trovò un appassionato sostenitore - sempre per quella benedetta tenerezza della contraddizione - nel canonico Anton Maria Biscioni e, più tardi, in un altro canonico, il Dionisi.
E contro le denegazioni del Filelfo e del Biscioni stettero i più dotti e autorevoli commentatori di Dante, dal Lombardi a Brunone Bianchi, dal Foscolo al Costa, dal Cesari al Fraticelli, dal Biagioli al Tommaseo, dall’Alfieri all’Emiliani-Giudici, dal Giusti al Carducci, e soltanto due nobili ed elevati intelletti, in mezzo al coro delle sapienti elucubrazioni onde era sostenuta, comprovata, dimostrata vera, fino all’evidenza, la umanità di Beatrice, sorsero, in questi ultimi tempi, sostenitori dell’idea del Filelfo e del Biscioni, Gabriele Rossetti e Francesco Perez.
Il primo di questi scrittori, invasato dall’idea che tutto il divino poema fosse una allegoria settaria e rivoluzionaria in materia religiosa, preludio del protestantesimo, secondo lui, già maturo nell’animo del glorioso poeta, non vide in Beatrice che un simbolo dell’idea massonica, e dettò in proposito due libri: Il mistero dell’amor platonico e La Beatrice di Dante, nei quali, non ostante il grande ingegno e la larga cultura onde egli era dotato, accatastò tante visionarie e sofìstiche argomentazioni e siffatta ampia messe di dotte ed argute castronerie, da travisare completamente non soltanto il senso morale, politico e storico del poema, ma il senso estetico altresì.
Il Perez, sulla scorta dell’acutissimo ingegno, col corredo di una dottrina tanto ammirevole quanto profonda, in base ad un convincimento sincero, ha scritto un libro critico intitolato: La Beatrice svelata, libro che io lessi due volte di seguito ed annotai pressochè in ogni pagina, quasi stupefatto della operosa sapienza dell’illustre siciliano il quale ebbe il coraggio vero ed ammirabile di studiare tutta la scolastica, tutto il simbolismo, tutto l’allegorismo del medio evo, per venire alla conclusione che Beatrice non è mai stata una donna, ma puramente e semplicemente .... la intelligenza attiva. Ma per giungere a questa conclusione quanti sforzi immani!... quali sottili contorsioni!... quanta abilità sofìstica!...
Eppure, non ostante la dottrina, profusa, a piene mani, nel libro del Perez, non ostante lo studio amoroso e paziente da lui fatto sopra Aristotele e sui suoi commentatori arabi, sui Padri della Chiesa e sulla loro dialettica, sulla influenza universale dell’allegoria nei secoli xii e xiii e sulle cause e ragioni di questa prevalenza allegorica, non ostante tuttociò e non ostante la logica stringente, serrata del Perez, le sue conclusioni non solo non penetrarono nell’animo mio, ma ne furono respinte; e lo studio posteriormente fatto su quel libro, posto a confronto col Poema, con la Vita Nuova e col Convito, anzichè dissuadermi, mi confermò validamente nella mia convinzione sulla umanità di Beatrice, si chiamasse ella Beatrice, o si chiamasse Giovanna, fosse di Folco Portinari, fosse di altri figliuola.
Le dottrine del Rossetti e del Perez, quantunque trovassero seguaci e sostenitori tanto in Italia, quanto all’estero, furono ineluttabilmente e vittoriosamente abbattute dallo Schlegel, dal Cantù, dal Puccianti, dal D’Ancona e da altri; e nei posteriori commentatori non ne era rimasta traccia.
Oggi, dopo molti anni, quelle dottrine, sempre per quel benedetto amore del nuovo, dello straordinario, magari dello stravagante, rifan capolino novellamente. Siamo sempre lì: pur di contraddire al consenso quasi universale, pur di renderci singolari, pur di riuscire notevoli di fuori e di sopra della comune degli uomini, ritorniamo all’Almagesto di Tolomeo e neghiamo che la terra si aggiri attorno al sole!
Ma che cosa c’è di serio, che cosa c’è di vero, e, sopratutto, che cosa c’è di nuovo in queste posteriori induzioni?...
Nulla, assolutamente nulla: siamo sempre alle medesime: non una virgola fu aggiunta a quanto avevano detto i precedenti sostenitori dell’opinione che Beatrice non fosse mai esistita: furono riprodotte le stesse idee, sotto forme diverse.
Domando, fino da ora, scusa ai lettori se anche io, combattendo contro questi testardi dell’impenitenza finale, sarò costretto a ripetere, in gran parte, gli argomenti contro di loro già addotti.
Ma d’altronde, se si ha da trattare co’ sordi, come s’avrebbe a fare?...
Ripetere loro su tutti i tòni le verità sacrosante che essi non odono, o fanno le mostre di non volere udire.
Senza addentrarmi nella disamina delle ragioni obiettive di tempo, di studii, di ambiente, labirinto oscuro, faticoso, asmatico, nel quale, con passo così paziente e così sicuro, si è addentrato l’illustre Francesco Perez, per contorcere ad un preconcetto fine il senso limpido, esplicito, indiscutibile delle parole del divino poeta, io mi trincererò dietro quelle parole per dimostrare, ancora una volta, luminosissimamente, che la donna, da noi conosciuta sotto il nome di Beatrice, fu donna realmente esistita, donna di carne e di ossa, donna nelle cui vene scorreva sangue umano, donna dalle cui fibre emanavano fluidi che facevan tremar le vene e i polsi dell’Alighieri.
E dichiaro che, dal canto mio, trovo molto più arduo, e molto più ingegnoso, per ciò, l’assunto,di coloro che si sforzano, con abili e più che umane sottigliezze, stravolgere le precise espressioni del sommo ghibellino ad un significato che esse non hanno e che l’immortale autore non volle loro dare giammai, di quello che non sia il compito di coloro i quali tendono a dimostrare l’umanità di Beatrice servendosi, senza bisogno di commenti o di interpretazioni, delle parole stesse del divino Alighieri.
Ciò premesso, acciocchè nessuno creda che io aspiri ad acquistarmi gran merito fra la gente dotta, entro nell’argomento.
Che il divino autore di quella portentosa trilogia, che ha il titolo di Commedia, intendesse narrare nella Vita nuova la storia di un vero e potentissimo amore, apparrà chiaro ed evidente a chiunque quel prezioso ed aureo libretto legga, senza preconcetti e senza prevenzioni. In quella storia, fervida e passionata, come dice il poeta, il linguaggio è continuamente tremolante e palpitante per l’impeto della passione, sulla quale indarno si cerca gettare il freddo velo della studiata e impassibile allegoria.
Pretendere che Dante, il più proprio, il più matematico, il più scrupoloso adopratore delle parole che vanti la lingua nostra, prima e dopo di lui, concepisse a bello studio, non sentisse menomamente ed esprimesse calcolatamente ed a freddo le più calde e ispirate espressioni d’amore, soltanto per dare appiglio a taluni dei futuri commentatori di fargli dire fandonie che egli non si pensò mai di dire, è lo stesso che pretendere che il sole non splende, non riscalda, non vivifica, è lo stesso che asserire che esso è un gran piatto di bronzo dorato, fiammeggiante per luce riflessa, nella volta azzurra del cielo.
L’amore del poeta, il quale, secondo gli uni, sarebbe stato rivolto non a Beatrice o ad altra donna, ma all’intelligenza attiva, secondo gli altri, alla rivelazione o alla teologia o al simbolo essenico, quell’amore eratanto poco potente, tanto poco vero, tanto poco umana che «egli portava nel viso tante delle sue insegne, che non si poteva ricoprire» (Vita nuova, § 4), onde la gente gli diceva appresso: «Vedi come cotale donna distrugge la persona di costui» (§ 5) e lo costringeva «a piangere per la morte di una donna giovine e di gentile aspetto, stata amica della sua donna e a dettare per essa un sonetto e una ballata: Piangete amanti, e Morte villana (§ 8) e quando ella apparta, nullo nemico gli rimaneva, anzi gii giungea una fiamma di caritade la quale gli facea perdonare a chiunque lo avesse offeso: e chi allora lo avesse addinrandato di cosa alcuna, la sua risponsione sarebbe stata, amora, con viso vestito di umiltà» (§ il).
E poichè la bella gli ebbe, per gelosia, tolto il saluto,, dopo avere «amarissimamente pianto, si addormentò come un pargoletto battuto lagrimando» (§ 12); e, al solo trovarsi vicino alla sua donna, senza ancora averla veduta, «gli parve sentire un mirabile tremore incominciare nel suo petto dalla sinistra parte e stendersi di subito per tutte le parti del suo corpo, onde fu costretto a poggiare la sua persona simulatamente ad una dipintura, e, temendo non altri si fosse accorto del suo tremare, levò gli occhi, e, mirando le donne, vide tra loro la gentilissima Beatrice.» Di che «molte persone avevano compreso lo segreto del suo cuore» (§ 18), e quando egli apprese la morte del padre di Beatrice «rimase in tanta tristizia che alcuna lagrima talor bagnava la sua faccia che egli si ricopria con porsi spesse volte le mani sugli occhi,» a tal segno che donne provenienti dalla casa della desolata Beatrice diceano, vedendo il giovine Dante lagrimoso: «questi che quivi è, piange ne più, nè meno come se la avesse veduta come noi l’avemo;» e altre diceano: «vedi questo che non pare esso, tale è divenuto» (§ 22).
Tanto era poco vero, poco reale, poco umano l’amore del divino poeta per la sua donna che, infermato e standosi in letto, col pensiero vagante e pur fiso in mi solo obietto, cominciò a dire fra se e sè: «di necessità conviene che la gentilisima Beatrice alcuna volta si muoia» onde «gli giunse sì forte smarrimento che chiuse gli occhi e cominciò a travagliare come farnetica persona» (§ 22) e finì per provare tutti gii effetti dolorosi che nella stupenda canzone: Donna pietosa e di novella etate sono narrati; e perchè di lei si sapessero le lodi da per tutto non pur «da coloro che la poteano sensibilmente vedere, ma dagli altri ancora,» dettò per lei quel sublime sonetto, il più stupendo di tutti i sonetti che vanti l’italiana favella: Tanto gentile e tanto onesta pare, per entro al quale tanta onda è diffusa di delicato e soavissimo sentimento umano.
. . . . . Amore
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esclama il divino poeta, tutto in estasi nella contemplazione di questa bellissima e gentilissima, dalla quale emanavano e si trasfondevano in chi la mirava pensieri virtuosi e nobili e sante aspirazioni.
Della disperazione del poeta (§§ 29-32) per la morte della donna gentilissima e del soave e mestissimo abbandono onde ribocca la mirabile canzone: Gli occhi dolenti per pietà del core, non è a dire. E nel sonetto: Venite a intendere li sospiri miei, e nell’altro: L’amaro lagrimar che voi faceste, e in quello: Deh peregrini che pensosi andate! v’è tanto e sì profondo e così umano dolore, che non si sa comprendere come parole, vergate con le lacrime amare del poeta, parole stillanti il sangue del suo core, possano essere state credute indirizzate, con scolastica calma e studiata affettazione, o alla scienza teologica o alla intelligenza attiva!
Ora che in tutta la Vita nuova, fervida e passionata - lo dice l’autore - scorrano tutti i palpiti, tutti gl’impeti, tutte le lacrime di un amore puro, casto, verecondo, spirituale sì, ma veementissimo amore, fatto d’ammirazione e di adorazione, di estasi e di visioni, di venerazione e di idolatria, questo non si può assolutamente negare; perchè bisognerebbe che chi legge le pagine di quel delizioso libretto avesse i nervi paralizzati, il cervello intorpidito per non sentire ripercuotere nelle proprie fibre tutti i tremiti di quella profonda e sentita passione.
La purità incontaminata di quell’amore, che si accontenta soltanto del saluto di quella bellissima creatura, la spiritualità sublime di quell’amore, il quale vive di aspirazioni così modeste, che si arrestano ad una muta e fervorosa contemplazione, si spiega subito, alla bella prima, senza bisogno di costringere il senso comune a contorcersi come un clown fra le morse di sofismi incomprensibili, quando si ripensi all’indole della poesia volgare, nata dai canti dei trovatori, idealizzanti sempre e da per tutto la donna; quando si ripensi al misticismo dominante nel medio evo e i cui ultimi strascichi si ripercuotono su tutto il periodo del primo rinascimento; quando si ripensi alla indole mesta, riflessiva, pensosa, severa del divino poeta.
Ma che il suo amore fosse amore vero e reale per una donna, chiamata Beatrice da coloro che non sapeano come la dovessero chiamare e alla quale anche il poeta finisce per lasciare quel nome, sia che esso fosse proprio il suo, sia che gli piacesse quel pseudonimo attribuitole dalla gente, ma che questo amore fosse vero e reale, oltre che dai tanti passi della Vita Nuova, risulta da molti luoghi del Purgatorio e del Paradiso, allorchè nella mente divina del poeta, fatta matura dagli anni e dagli affanni, Beatrice erasi fusa con la scienza divina e la donna era diventata un tutto con il simbolo.
Anche allora, questo immortale cantore
Che sovra tutti come aquila vola, |
questo poeta, così lucido ed efficace incisore di epiteti, così sobrio e poderoso scultore di parole, con proprietà inimitabile rispondenti sempre nettamente alla idea, al concetto che esse erano incaricate di esprimere; anche allora che egli è tratto in estasi, nella meditazione dei misteri della sua fede, anche allora, tutte le volte che esso parla di Beatrice, l’affetto umano, l’affetto terreno, l’affetto vero e ardentissimo che aveva nu¬ trito per lei creatura vivente, si fa palese in ogni sua parola.
Ecco come egli descrive il suo incontro con essa nel Paradiso terrestre, dieci anni dopo la morte di lei:
Così dentro una nuvola di fiori |
E Beatrice, che, nella Vita nuova, non sarebbe stata altro che l’intelligenza attiva, o la scienza teologica, o il simbolo massonico, secondo coloro che negano la vera esistenza di lei, Beatrice esclamava, parlando di Dante e del tempo a citi si riferisce precisamente la narrasene contenuta nella Vita nuova:
Alcun tempo il sostenni col mio volto; |
E più tardi soggiunge:
Sì udirai come in contraria parte |
Più tardi il poeta, pentito e ribenedetto, guarda Beatrice e racconta che
Mille desiri PIÙ CHE FIAMMA CALDI |
carne, si parla di belle membra che ora sono a terra sparte, si tratta di venustà corporea e di amore ardente di mille desiri più che fiamma caldi, e non bastano i nebulosi dubbi e le cervellotiche asserzioni in contrario di cento Bartoli e di cento Costerò ad offuscare menomamente tutta la verità, la realtà che fiammeggia nelle solenni affermazioni del divino poeta.
E se tutte queste frasi, se tutte queste parole vive, potenti, passionate, non fossero il riflesso delle amorose rimembranze dell’amante; se esse non fossero l’effetto dei fremiti dell’anima sua, dei palpiti dei suoi nervi, se esse non rispondessero a un sentimento altrettanto umano, quanto nobile, fervido e profondo, io rinuncierei a comprendere mai più il significato delle parole della mia lingua natia.
Ma altre prove e più convincenti e più chiare, se è possibile, scaturiscono dal Convito, e, sulla scorta di esse, se Beatrice fosse o non fosse una donna di carne e d’ossa, trasumanatasi, più tardi, nel simbolo della scienza divina nell’anima innamorata del poeta, vedremo, continuando nell’esame di tale quistione.
Innanzi di proseguire nell’esame delle ragioni che mi inducono a ritenere Beatrice, amata da Dante, essere stata prima donna reale e vera, mutata poscia e trasformata, ma poscia soltanto, in simbolo della scienza divina, importa rilevare questo fatto che, mentre i sostenitori dell’opinione contraria sono costretti ad affannarsi attorno alle espressioni del divino poeta per trovare in esse, a furia di sottigliezze inaudite e di contorcimenti indicibili, un senso recondito diverso dal senso lucido, lampante, indiscutibile, letterale, io non bo bisogno che di citare alla lettera, semplicemente alla lettera, le parole del divino poeta per conseguire trionfalmente lo scopo cui miro.
C’è più abilità - ne convengo e lo ripeto - in coloro che si arrabattano a veder lucciole dove son lanterne, che in coloro i quali riconoscono, alla buona, il calore e il fulgore dei raggi del sole: ad ogni modo, mi preme porre in rilievo che io spiego Dante con Dante, senza essere costretto ad arrampicarmi sugli specchi, senza essere costretto, cioè, a ricorrere ai cavilli estratti dalle opere di Tommaso d’Aquino, di , di Ugo da San Vittore, di Averroè e di Isidoro da Siviglia per far dire al sommo Fiorentino ciò che egli mai pensò di dire: per me l’umanità di Beatrice è dimostrata, di là della matematica evidenza, dalle parole stesse di Dante tolte dalla Vita nuova, dalla Commedia, dal Convito.
Nel capitolo primo del primo Trattato di questa ultima opera, il divino poeta, difatti, quasi presago delle fandonie che si sarebbero sforzati di fargli dire i futuri commentatori, solennemente dichiara: «E se nella presente opera, la quale è Convito nominata e vo’ che sia, più virilmente si trattasse che nella Vita Nuova, non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo siccome ragionevolmente quella fervida e passionata, questa temperata e virile esser conviene. Che altro si conviene e dire e operare a una etade che ad altra; perchè certi costami sono idonei e laudabili a una etade che sono sconci e biasimevoli ad altra; siccome di sotto nel quarto Trattato di questo libro sarà per propria ragione mostrato».
Nelle quali parole è evidentissimamente contenuta una specie di scusa pel soverchio ardore che fremeva nella Vita Nuova, ardore onde l’autore vuole attribuita la vivezza all’età in cui la scrisse, età nella quale secondo lui - è lecito essere innamorati alla frenesia, siccome egli lo era della donna sua.
Ora, nel Trattato secondo del Convito, a commento della prima delle quattordici canzoni onde esso, secondo le intenzioni del poeta, doveva essere composto, il divino Alighieri allo scopo dichiarato di svelare l’allegoria contenuta nella canzone stessa che è quella che principia: «Voi che intendendo il terzo ciel movete» cioè le Intelligenze o gli Angeli che precedono, secondo Aristotele, all’amore e che sono diffusi nel terzo cerchio del cielo, cioè nella sfera di Venere, secondo l’Almagesto di Tolomeo, scrive così: «Cominciando adunque, dico che la stella di Venere due fiate era rivolta in quello suo cerchio che la fa parere serotina e mattutina, secondo i due diversi tempi, appresso lo trapassamento - trapassamento che, con o senza allegoria, vuol dir morte, nient’altro che morte - di quella Beatrice beata, che vive ili cielo con gli angioli e in terra con la mia anima, quando quella gentil donna, di cui feci menzione nella fine della Vita Nuova, apparve primamente accompagnata da amore agli occhi miei e prese alcuno luogo nella mia mente».
Dove non soltanto chiarissimamente è confermato, per la millesima volta, come la donna del suo cuore, la donna vera di carne e d’ossa, che egli aveva tanto amato e tanto amava ancora, è morta, ma è anche spiegato, oltre l’evidenza, come l’altra donna di cui fe’ cenno sul finir della Vita Nuova e di cui egli si era incominciato ad innamorare, fosse la Filosofia. Spiegazione questa che è ripetuta alla sazietà nei susseguenti capitoli dei susseguenti Trattati, e per la quale il poeta, strappato il velo allegorico di femminili bende onde, nella Vita Nuova, egli aveva avvolto questa seconda passione dell’animo suo, esplicitamente dice e ridice e ripete che questa passione intellettuale, susseguita a quella prima casta, verginale, ma carnale, era l’amore della Filosofia. Il che è più nettamente dichiarato nel capitolo decimoterzo dello stesso Trattato secondo, là dove il divino dice: «Tuttavia, dopo alquanto tempo» poscia che «egli ebbe perduto il primo diletto della sua anima»,cioè Beatrice, «la mia mente, che s’argomentava di sanare, provvide (poichè nè il mio, nè l’altrui consolare valea) ritornare al modo che alcuno sconsolato avea tenuto a consolarsi. E missimi a leggere quello, non conosciuto da molti, libro di Boezio - «De consolatione philosophiae» - nel quale cattivo e discacciato consolato s’avea».
E, più sotto, soggiunge: «E siccome esser suole, che l’uomo va cercando argento, e fuori dell’intenzione trova oro, lo quale occulta cagione presenta, non forse senza Divino imperio; io, che cercava di consolare me, trovai non solamente alle mie lagrime rimedio, ma vocaboli di autori e di scienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la Filosofia che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa. E immaginava lei fatta come una donna gentile: e non la potea immaginare in atto alcuno se non misericordioso; per che sì volentieri lo senso di vero l’ammirava, che appena lo potea volgere da quella. E da questo immaginare, cominciai ad andare là ov’ella si dimostrava veracemente, cioè nelle scuole dei religiosi e alle deputazioni dei filosofanti; sicchè, in picciol tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentir della sua dolcezza che il suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero».
Cioè a dire che le meditazioni filosofiche e i profondi studi, cui si abbandonò per distrarsi dal dolore cagionatogli dalla morte della sua vera e reale Beatrice, lo trassero all’amore della scienza.
E qui, prima di procedere innanzi, mi cadono spontanee dalla penna due osservazioni. La prima delle quali si è che non arrivo a comprendere il battagliare accanito che fanno fra loro i commentatori intorno alla donna pietosa e gentile cui si riferiscono gli ultimi sonetti della Vita Nuova, specialmente dopo la spiegazione portane, con l’usata acutezza, dal Carducci: avere, cioè, da prima alluso il poeta ad una donna viva e vera onde erasi nuovamente acceso; indi a qualche anno, quasi vergognoso di quel nuovo amore, che sembravagli offuscare quello ardentissimo nutrito dianzi per Beatrice, avere egli riferito quei sonetti alla Filosofia, quale, per ripetute dichiarazioni del poeta, è adombrata in quella donna gentile 1.
La seconda osservazione, che scaturisce legittima ed immediata dalle surriferite parole del poeta, è questa: come avvenga mai che Dante, il quale, nella Vita Nuova, fece precedere e seguire ogni poesia da un commento, che Dante il quale, nel Convito, spiega così minuziosamente non soltanto le allegoria e il senso delle canzoni del Convito stesso, ma talvolta anche il senso delle poesie della Vita Nuova, come mai, dico, avvenga che Dante neppure una sillaba abbia pronunciato nè nel primo, nè nel secondo dei detti suoi libri sulla pretesa allegoria che - secondo i contorcitori del senso comune - si asconderebbe sotto le sembianze di Beatrice?
Di altri passi del Convito nei quali il divino poeta chiaramente parla dei suoi due amori, cioè di quello giovanile, fervido e passionato per la sua bella, pura, casta, vereconda creatura fiorentina, morta e ita fra gii angioli in cielo, e di quello maturo, assennato e virile concepito, dopo la morte di Beatrice, per un’altra donna che poi si mutò nella Filosofìa, ne avrei da citare a iosa.
«Ma perocchè della immortalità dell’anima è qui toccato, farò una digressione ragionando di quella; perocchè di quella ragionando sarà bello terminare lo parlare di quella viva Beatrice beata, della quale più parlare in questo libro non intendo» (Convito, Trattato II, capitolo IX). E nella conclusione del capitolo stesso «..... ed io così credo, così affermo e così certa sono, ad altra vita migliore, dopo questa, passare; là dove quella gloriosa donna vive, della quale fu l’anima mia innamorata, eco.».
«Dico che pensai che da molti di retro da me forse sarei stato ripreso di leggerezza d’animo, udendo me essere dal primo amore mutato. Per che, a torre via questa riprensione, nullo migliore argomento era che dire qual era quella donna che m’avea mutato.» (Convito, Trattato III, capitolo I). E difatti lo dice nella meravigliosa canzone Amor che nella mente mi ragiona, nella quale ci fa conoscere, a sua giustificazione, che la donna onde nuovamente si era acceso d’amore non era un’altra creatura, umana come la sua desiderata e gloriosa morta, ma la Filosofia.
«Dico adunque die a me conviene lasciare le dolci rime d’amore, le quali soleano cercare i miei pensieri eco.» (Convito, Trattato IV, capitolo II), perchè mutato è l’obietto dei suoi sospiri e la natura del suo amore, onde egli più sotto, nello stesso capitolo, soggiunge: «deporrò, cioè lascierò stare lo mio stile, cioè modo soave, che di amor parlando ho tenuto, eco.».
E più oltre - se non credessi che ce ne fosse ad esuberanza - potrei continuare: ma, mi arresto: poichè credo che, dai passi riportati, limpidamente emerga la verità che nelle poesie della Vita Nuova, per dichiarazioni esplicite dello stesso poeta, si parlò di una bella, pura, vereconda giovinetta fiorentina, e in quelle del Convito, sotto le sembianze di una bella e nobile donna, fu cantata la Filosofia; ciò è a dire che il primo fu amore vero, reale, naturale - quantunque idealizzato e più tardi spiritualizzato - e perciò caldo, tenero, appassionatissimo, e il secondo fu amore allegorico, convenzionale, scientifico, e perciò freddo, arido, scolastico. A quali stravaganze e inconcepibili conclusioni ci recherebbe la ipotesi - già dimostrata falsa con le parole del divino poeta - che Beatrice non fosse altro che l’Intelligenza attiva o che la Scienza divina, or ora vedremo.
Pervenuto a questo punto del mio disadorno ragionamento, io mi arresto e domando agii avversarli dell’assunto mio e a quei pochi lettori che avranno avuto la pazienza di seguirmi: e se, per una ipotesi impossibile, noi volessimo ammettere, non ostante la volontà recisamente manifestata in contrario dal divino poeta e non ostante
il suon delle parole vere espresse
scritte da lui stesso, se noi volessimo ammettere che nella Beatrice della Vita Nuova fosse simboleggiata la intelligenza attiva, come vuole il Perez, o lo spirito essenico, come favoleggiò il Rossetti, o la scienza teologica, come affermano altri, che cosa rappresenterebbero tutti gli altri personaggi della Vita Nuova stessa?...
Imperciocchè, dato che il personaggio principale, il quale ha pure atteggiamenti e movenze da parer vivo, alitante, e fatto di polpe e sangue, sia allegorico, conviene di necessità che debba essere allegorico tutto il resto, la scena cioè e i personaggi secondari. La conseguenza è così legittima ed immediata che non v’ha sottigliezza scolastica che valga a sottrarcene. Chi è, ossia, qual ente astratto rappresenta quella «gentile donna di molto piacevole aspetto che sedea nel mezzo di Beatrice e di Dante, per la retta linea e la quale mirava il poeta spesse volte, meravigliandosi del suo sguardare che parea che sopra lei terminasse» (Vita Nuova, § 5), onde tutti la credettero la donna per la quale Dante si struggeva? Chi è?... Che cosa rappresenta?.!.
E chi era e che rappresentava la «donna giovane e di gentile aspetto molto la quale fu assai graziosa» in Firenze e che era stata compagna di Beatrice e la quale morì, e «lo cui corpo, il poeta, vide giacere senza l’anima in mezzo di molte donne, le quali piangevano assai pietosamente?...» Vita Nuova, § 8).
E ohi erano, e ohe cosa rappresentavan quelle donne?...
E la donna la quale, per consiglio e virtù d’Amore, sarà «difensione» del poeta, come lo era stata l’altra, di cui è parola nel § 5, contro il suspicare ed il curiosare della gente (Vita Nuova, § 9) che cosa rappresentava e chi era?...
E la «gentildona che disposata era in quel giorno»?... E le «donne che» a questa «erano di compagnia»?... (Vita Nuova1 § 14).
E quella «di molto leggiadro parlare e le compagne sue» di cui il poeta favella nei §§ 17 e 18, come di persone vive e parlanti, alcune delle quali «rideano tra loro» e si burlavano del poeta «che tremava e sveniva» tutte le volte che vedeva Beatrice, chi erano e che mai rappresentano?...
Noi abbiamo diritto di sapere tutte queste cose e di saperle chiaramente dai contorcitori del senso comune, poichè vaghezza del nuovo, dello straordinario, del paradossale li trae a voler vedere allegorie e simboli là dove il divino poeta non mise che persone vive e vere.
E abbiamo diritto di sapere che cosa ha voluto simboleggiare il cantore dei tre regni dei morti in «colui che era stato genitore di tanta meraviglia, quanta si vedeva che era quella nobilissima Beatrice» ed il quale «di questa vita uscendo se ne gìo alla gloria eternale veracemente» (Vita Nuova, § 22).
Chi era e che rappresenta questo padre di Beatrice che muore come tutti gli altri nati di donna?... Come?... Il padre dell’Intelligenza attiva muore?... Muore il padre dello spirito essenico?... Muore il padre della scienza divina, il quale, così, a occhio e croce, per quel poco che io mi intenda di teologia, dovrebbe essere, nientedimeno, che lo stesso Ente Divino in persona?...
Ah novatori!... Ah fabbricatori di rebus!
E le donne, eh/erano nella camera del poeta malato, quando, pel farnetico della febbre, gli parve, in visione, che Beatrice fosse morta, e la «Donna gentile e di novella etate» che, in quell’occasione, lo andava confortando (Vita Nuova, § 23) che cosa simboleggiano e rappresentano?...
E colei, che era «di famosa beltade e che fu già molto donna di quel suo primo amico» (Guido Cavalcanti) e il cui nome era «Giovanna, salvo che per la sua beltade, secondo ch’altri crede, imposto l’era nome Primavera» (Vita Nuova, § 14) chi era dessa?... Quale altro ente astratto ella ricopre con le belle sue membra?
Il perspicuo acume di coloro, che videro tanto addentro, nel pensiero del divino poeta, da rinvenire tanto peregrine e così risibili allegorie là dove egli, col suo pennello smagliante, col suo scalpello immortale, avea delineato e scolpito la realtà, viva, vigorosa, potente, deve pur dare queste spiegazioni al volgo dei profani il quale si ostina a credere, sulla efficace e nitidissima parola di Dante, che nella Beatrice della Vita Nuova non ci sia neppur l’ombra di allegoria, ma una donna «tanto onesta e tanto gentile» che
par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Il perspicuo acume degli indagatori di sensi reconditi e di astruserie è in dovere di dare queste spiegazioni nitide, ciliare, lampanti e tanto più nitide, chiare e lampanti, quanto più le loro interpretazioni cervellotiche sono in opposizione colla tradizione popolare dei contemporanei, coi commenti dei figli del poeta, con tutti gli espositori della Commedia più vicini all’autore e col testo caldo, lucido, palpitante d’amore e di verità dell’immortale cantore di Beatrice.
Quanto all’obbiezione mossa da uno, dal più oscuro forse, fra gli odierni ricantatori della vecchia fandonia del Filelfo, o come mai, cioè, Dante potesse, per la morte della Portinari, esclamare di Firenze, come Geremia di Gerusalemme: «Quomodo sedet sola civitas?», è così puerile e ridicola che, in verità, par fino impossibile che l’abbia dettata un uomo che la pretende a letterato.
Da che mondo è mondo, e da che ci furono lirici che cantarono d’amore, è cosa nota «lippis et tonsoribus» che essi esagerarono sempre e sempre esagerano l’importanza che ha, nella vita reale, la donna del loro cuore. Il subbiettivismo dei loro canti amorosi fa credere loro che tutti provino i loro sentimenti, e così da Catullo, che invitava a piangere le Veneri e gli Amori e tutto il mondo romano per la morte del passero di Lesbia, a Vittoria Colonna, che vede oscurarsi il cielo e crede spento il sole, per la morte del marchese di Pescara, sempre tutti i poeti amanti cantarono finito il mondo per la morte della loro donna.
Qual meraviglia adunque che il divino poeta creda diserta Firenze, cioè, una sola città, per la morte della Portinari, che egli già aveva decantata come la più bella, la più casta, la più pura, la più soave fra tutte le donne Fiorentine?...
Dante anzi, con quel senso della realtà che non lo abbandona mai, con quella misura esatta del vero che non lo fa mai esagerare e che lo tiene perpetuamente lontano dal gonfio, dallo ampolloso, dallo stravagante, che già invadevano tutta l’età sua, Dante anzi si restringe a credere e a far credere ai suoi lettori che soltanto Firenze fosse stata dolorosamente colpita e spaurita per la morte della bella e santa Fiorentina.
Questa obbiezione anzi torna tutta in danno degli oppositori, e prova più che mai che si trattava proprio d’una giovine donna, nata e morta sull’Arno, giacchè se si fosse trattato invece di un ente simbolico e di natura universale, il mondo egli avrebbe dovuto proclamare deserto e straziato e non la sola Firenze.
Poco, anzi pochissimo, importa - lo dissi, già, in principio di questo povero ragionamento - il sapere se Beatrice fosse o non fosse il vero nome della donna adorata dal divino poeta, e se il suo cognome fosse o non fosse Portinari - quantunque tutto, fino a questo momento, ci dia il diritto di crederlo: - ciò che importa constatare, ancora una volta, si è che la donna amata dal sommo ghibellino, quella donna ch’egli dipinse con così soave e tenero stile, con parole così vive di fuoco, con tremito così sentito e profondo della voce e della persona, fu donna «vera, reale, di carne e di ossa,» più tardi assai, fusasi, nella mente, virilmente assennata e pur sempre innamorata, del poeta, col simbolo della scienza divina.
Questo è il vero storico, questo è il vero filologico che scaturisce lucentissimamente da tutte le parole dell’Alighieri; tutto il resto non è che frastuono di voci vane, non è che arruffio di arzigogoli insostenibili e che pur trovano sostenitori per quella siffatta manìa del nuovo, dello strano che assale periodicamente qualche Gio: Mario Filelfo, allo scopo di attrarre sul proprio nome l’attenzione degli studiosi, allo scopo di costringere il volgo ad esclamare: Veh! qual Cristoforo Colombo gli è mai costui!
Note
- ↑ G. Carducci, Delle rime di Dante Alighieri, nel volume Studi letterari — Livorno, F. Vigo - 1880. — Anzi questo studio dotto ed amoroso dell’illustre critico toscano, pel quale molte delle poesie del canzoniere dantesco, non ostante le esplicite dichiarazioni dell’immortale autore che le affermava dedicate all’ente astratto della Filosofia, sono restituite alla loro vera condizione di poesie inspirate da un reale sentimento d’amore, da una passione naturale, questo studio dotto e amoroso del Carducci, dico, è una nuova e solenne riprova a danno dei sostenitori della stolta dottrina onde si vuole Beatrice simbolo astratto e non creatura umana. Imperciocchè se il Carducci riuscì a provare, con irrefragabile ragionamento, come molte poesie del canzoniere dantesco fossero dirette a donne umane e vere, tuttochè il divino poeta, per un posteriore sentimento di resipiscenza e di verecondia, volesse farle credere ai contemporanei e ai posteri, indirizzate alla Filosofia, a quanta maggior ragione non si avranno a ritenere per umane quelle dettate da un amore vero, profondo nella Vita Nuova e rivolte a Beatrice e le quali, per espressa e solenne e ripetuta affermazione del poeta, una gentilissima e casta fanciulla fiorentina, vera di carne e d’ossa, gli aveva inspirato?...