Meditazioni di un brontolone/A proposito di verismo e di naturalismo
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A PROPOSITO DI VERISMO E DI NATURALISMO
A PROPOSITO DI VERISMO E DI NATURALISMO
Mi trovavo fra l’incudine e il martello.
L’atto terzo del Mefistofele era finito: io m’ero alzato dalla mia poltroncina e, appoggiandomi allo schienale della fila precedente, m’ero dato ad ammirare, attraverso alle lenti del mio piccolo cannocchiale, le spalle giunonie e i seni vistosi onde facevan mostra abbondante le matrone, più o meno romane, accorse in gran numero, in quella sera, nei palchetti dell’Apollo.
Alla mia destra sedeva un grosso e grasso signore, vestito irreprensibilmente, a cui luccicavano sul largo sparato della fine camicia grossi bottoni di brillanti. Egli poteva avere un sessantanni o giù di lì. La faccia paffuta e rubiconda di quel signore esprimeva una certa tal qual beatitudine, una specie di bonomia che erano messe in maggior luce dal brillare di due occhietti vispi ed azzurri, la cui mobilità e vivacità non venivano celate dagli occhiali, legati in oro, che sormontavano il grosso naso di quel signore. Una barbetta corta, più bianca che grigia, scendeva dalle tempie sotto il mento di quel brav’uomo, le cui labbra erano liscie e pulite di ogni pelo.
La poltrona situata alla mia sinistra era occupata da un leggiadro giovinetto, di forse venti anni. Dalla sua chioma bionda, liscia, ben divisa, emanava un acre odore di muschio, il quale attestava, insieme a tutta la soverchia eleganza dell’abbigliamento di quel giovinetto, come egli adempiesse, con zelo, le sue funzioni di damerino, delle quali sembrava andasse orgoglioso. Anzi, a tener conto di un certo suo piglio vezzosamente oltracotante, di una certa sua aria affettatamente annoiata, del suo frequente arricciare i nascenti baffetti, c’era da comprendere, alla bella prima, come egli fosse in quel periodo di trasformazione in cui dal baco sta per sbucciar fuori la farfalla e dal damerino sta per scaturire il conquistatore. Anch’egli, l’elegante giovinetto, si era levato e, dondolandosi svogliatamente, guardava or qua, or là, col suo binocolo, nel tempo stesso che mostrava di prestare mediocre attenzione ai ragionamenti del signore dagli occhiali d’oro, il quale, appena calata la tela, aveva appiccato dialogo con lui.
— Che cosa diavolo volete che me ne faccia io di questa roba? - diceva il grasso e beato mio vicino di destra. - Non parlo del primo atto, nel quale.... alla meglio.... là.... ci sono dei pezzi veramente musicali, nel senso in cui intendo la musica io.... ma parlo, in genere, di tutta l’opera.... e dico che cosa me ne ho da fare io di tutti codesti garbugli, di tutti codesti fracassi, di tutte codeste astruserie e diavolerie, io che vengo a teatro per divertirmi, per sollevare l’animo dalle faticose e - diciamolo - piuttosto noiose mie faccende giornaliere?... Che cosa me ne ho da fare di tutta questa algebra!... Quando voglio annoiarmi io vado all’Università ad assistere ad una lezione di calcolo sublime, vado al Gesù a sentire una predica del Padre Liberatore; ma, Dio mio!... al teatro!... Al teatro io voglio musica, musica dolce, musica soave, musica melodica, musica italiana, musica che mi vellichi l’orecchio, musica che mi scenda al cuore.... musica - diciamolo, senza ipocrite paure di essere accusati di codinismo - del passato....
— Già - beffardamente interruppe il giovine moscardino, guardando col cannocchiale, qua e là, pei palchi di seconda fila, alla sua sinistra - musica da tarantelle, da ritornelli, da romanzette.... musica facile, volgare, plebea, musica del torototera, torototà, musica da organetti, che tutti apprendono alla prima rappresentazione, che tutti zuffolano, modulano, canticchiano la prima sera che l’hanno udita, uscendo dal teatro!...
Il giovane frustino aveva gettato con garbato moto di dispetto, sul cuscino di velluto cremisi sbiadito della sua poltrona, il cannocchiale e volgeva, verso il grosso e paffuto suo interlocutore, uno sguardo di benigna compassione. Indi, a modo di conclusione, cacciando ambo le mani, coperte di attillati guanti, color grigio perla, entro le ali della sua chioma, per scomporla alquanto compassatamente e con grazia, soggiunse a mezza voce e con una certa aria di nobile sprezzo:
— Eh!... notaio mio, lasciamo andare queste palinodie!
Mi trovavo fra l’incudine e il martello.
Continuai, o finsi di continuare nella mia rivista delle bellezze, sparpagliate pei palchi.
— Eh, mio caro Gustavo! - esclamò, con bonomia, quantunque sembrasse alquanto piccato, il vecchio notaio - voi me lo concederete, siete troppo giovane per poter sapere con esattezza che cosa fossero i teatri venticinque o trentanni fa, di che valore fossero i capolavori di Cimarosa, di Rossini, di Bellini, di Donizetti che allora vi si rappresentavano e che ora sono stati posti in dimenticanza completamente e che voi non avete avuto tempo di udire e di gustare.... Non è egli vero, signore?
Questa domanda, mossa a bruciapelo, era indirizzata a me, che avevo smesso di guardare attorno e che mi ero nuovamente seduto.
Feci vista di non udire e non risposi affatto a quella interrogazione.
Ma il biondo farfallino, al quale, nella sua profumata baldanza, non importava punto che io intervenissi o non intervenissi nella quistione, alzò leggermente lo spalle e disse:
— Io ignoro quale sia l’opinione del signore in proposito e qualunque essa sia la rispetto, come rispetto la sua, caro notaio.... ma, già, a che cosa servono le dispute?... A ribadire meglio nell’animo di ciascuno la propria sentenza.... Ella è amico della mia famiglia e conosce i miei principi! in fatto d’arte....
— Eh! li conosco, li conosco.... ma i vostri non sono i miei.... - interruppe il pacifico notaio.
— E i miei non sono i suoi - ribattè, con leggera intonazione di sprezzo, il piccolo Salomone; - io aborro il manierismo sotto qualunque forma mi si presenti; detesto il convenzionalismo sotto qualunque bandiera mi appaia; odio l’Accademia, il Liceo, il Conservatorio, Aristotele, Orazio, Quintiliano, Longino, le regole, i precetti, la grammatica, il vocabolario, tutto eiò che sa di limite, tutto ciò che ha l’aria di insegnamento, tutto ciò che può inceppare in qualsiasi guisa la libera manifestazione del libero genio dell’artista; sono intransigente nel campo dell’arte.... voglio fare i versi di sedici sillabe, se mi accomoda, e magari di dieciotto....
— E perche no di venti? - domandai io, procurando di dare un’impronta di bonomia a quella interrogazione, sotto la quale, a stento, si nascondeva lo scoppio della mia impazienza.
L’azzimato comunardo dell’arte cessò, per un momento, di parlare, mi guardò nel bianco degli occhi, poi riprese a dire:
— E perchè no?... Anche di venti, se mi talenta; perchè io ho il coraggio delle mie convinzioni, io, e mi rido di coloro che adorano Raffaello, e di quelli che restano in ammirazione dinanzi a un quadro del Guercino; mi sento assalire dal mal di mare quando odo un’opera del Rossini o del Bellini, e sbadiglio, oh! sbadiglio forte, se sono condannato a leggere Dante... Non dico poi che temerei di morire d’apoplessia se dovessi centellinarmi la Gerusalemme liberata.... tutta roba vecchia, roba di altri tempi, di altri costumi, di altri gusti che siano gli odierni... Trovo appena appena passabili l’Heine, il De Musset e lo Zola in letteratura; il Wagner e il Listz in musica; il Courbet e l’Alma Tadema in pittura... e se vuole che gliela dica tutta, caro notaio, Morelli e Michetti, Gerace e D’Orsi, Leopardi e Giusti, Ponchielli e questo stesso Boito, che le urta tanto i nervi, col suo Mefistofele, per me, vede, gliela dico come la penso, per me, sono codini... non parlo del Prati, del Carducci, del Rapisardi, del Verdi, del Gounod, del Marchetti, del Duprè, del Fortuny, del Vertunni, di Ercole Rosa... Gesù mio! tutti manierati, rancidi, convenzionali, e noi, in arte, vogliamo la repubblica, la comune, l’anarchia... Morte al Bello!... vogliamo il vero, l’orrido, il deforme, lo schifoso...
— Ella parla come un libro stampato - esclamai io, che non ne potevo più.
L’elegante e spietato criticuzzo si fermò, mi guardò, quasi minaccioso, e mi domandò, serio serio, cambiando intonazione di voce:
— Ci avrebbe qualche cosa a ridire?...
— Molte cose, caro signore, molte cose - dissi io, con la massima calma.
— Le dica, allora - soggiunse il minuscolo Lessing, facendomi un leggiero inchino col capo - le ascolterò volentieri. Come ella vede, son giovine, sono ardente, ho delle convinzioni profonde, ma ascolto volentieri i miei contraddittori.
— Ella è troppo gentile - rispos’io, facendo, alla mia volta, un inchino al mio interlocutore, e non riuscendo a nascondere l’ironia che si racchiudeva in quelle quattro parole.
— Per me, già, è tutt’una; io ho scritto sulla mia bandiera: verismo, naturalismo, novità... ad ogni costo, in barba alle regole, non ostante la grammatica, voglio il vero, voglio il naturalismo,
Novità vo cercando che è sì cara, |
— E, intanto, si serve di due versi di quel vecchio barbogio di poeta, la cui lettura lo fa tanto sbadigliare osservai io, che non seppi frenare un maligno sorriso.
— Eh!... pur troppo! - rispose, alquanto sconcertato, ma senza perdersi d’animo, l’imberbe Gian Vincenzo Gravina - ecco... lo vede? Reminiscenze dell’esecrato Liceo... sono gli strascichi, che lasciano, anche negli animi più baldi, i pregiudizi di una falsa educazione. Lo vede? io stesso, che detesto il classicismo più della febbre gialla o del vaiuolo nero, ecco, lo vede?... io stesso ci casco, a mia insaputa, senza volerlo.
— Eh, Dio mio!... non si disperi... non sarà nulla... la non morrà per così poco! - esclamai io. - Ella, che, così giovane, ha già compiti così larghi e profondi studi d’arte, d’estetica, di critica, di musica e di letteratura da poter sentenziare, con coscienza, in quistioni tanto gravi e tanto complicate, avrà tempo, certamente, a correggersi di queste piccole brutture, di queste reminiscenze classiche!
L’intonazione delle mie parole era corbellatoria, ma la mia voce era calma e il mio volto era serio.
Il giovine Adone mi guardò alquanto, in atto interrogativo, poi mi domandò:
— Se non mi inganno, ella si burla di me?
— Il ciel me ne guardi, caro signore! 0 non ha ella sentenziato testò, con la massima sicurezza e col piglio più risoluto, d’idealismo e di verismo, di classicismo e di naturalismo, di convenzionalismo e di realismo, condannando poco men che alle fiamme, come nuovo Cardinal De Pouget, gli scritti del Divino Poeta, schernendo il Sanzio, il Quercino, il Rossini, il Bellini e via di seguito?... È dunque evidente che ella ha studiato profondamente l’estetica, dai dialoghi di Platone e dalle opere di Aristotile fino al Locke, al Leibnitz, al Kant, allo Schelling, all’Hegel, al Cousin, al Jouffroy, al Gioberti; è evidente che ella deve aver girato, per lo meno per lo meno, tutte le gallerie e tutti i musei d’Italia, per poter instituire un parallelo fra l’arte antica e la moderna: è evidente che ella deve aver letti, intesi, gustati tutti i più grandi autori delle letterature vecchie e delle nuove, per poter giudicare e mandare secondo che le piace di avvinghiare - scusi la reminiscenza classica - io tutto ciò debbo credere, pei suoi discorsi, e ciò credo e ritengo, per fermo. O come vuole, dunque, caro signore, che io mi burli di lei?...
Il mio ragazzo s’era seduto al suo posto: era diventato prima rosso, poi pallido, poi rosso ancora; si era tolto il guanto dalla mano sinistra, poi se lo andava, con moti convulsi, calzando di nuovo, e, quando io ebbi finito di parlare, restò inchiodato nella sua poltroncina, immobile e muto, guardando il sipario.
— Ma, dunque, scusi - domandò allora il rosso e paffuto notaio, che non aveva perduto una delle mie parole - ma, dunque, scusi, quale è la sua opinione in tale disputa?...
— La mia opinione? - dissi io, sorridendo: - si figuri, ella, mio buon signore, se questo sia il luogo e questa l’ora per trattare ima questione grave, complessa, importante come è la presente.... sappia, intanto, die la mia è una opinione che non è opinione.
— Curiosa! - mormorò il notaio, sulla cui faccia di luna piena l’inarcarsi delle grigie sopracciglia delineò l’espressione del più profondo stupore.
— Proprio così, signori garbati, proprio così.
— Eppure - scusi, sa, le sembrerò soverchiamente curioso - eppure.... - disse il vegliardo.
E si fermò un istante.
— Dica pure, dica pure.... - sussurrai, incoraggiandolo.
— Eppure, vede, dalle parole, che ella ha rivolte al mio giovane amico, mi sembrerebbe poter dedurre che lei stia dalla mia, cosa che non so conciliare poi con gli applausi che ella largiva, poco fa, con vero entusiasmo, al sabba romantico di quest’opera, proprio nei punti, nei quali io ero più stordito e più mi annoiavo: per cui....
— Ella non mi ha compreso? - domandai io, sorridendo, al buon notaio - ovvero le pare che io sia in contraddizione con me stesso.... non è così?....
— Così precisamente - disse il brav’uomo.
— Ed è appunto ciò che avevo notato anch’io - soggiunse il giovinetto, che si era ormai riavuto.
— Allora, lor signori, vogliono proprio conoscere la mia opinione?...
— Sì, sì - esclamarono ambedue.
— Ed io la esporrò loro, in poche parole, alla buona, incompletamente, per conseguenza, ma tanto che basti a farla chiara e palese... ad un patto, però....
E quale? - domandarono, contemporaneamente, i due miei vicini.
— Che, dopo che io avrò esposto la mia opinione, non se ne parli più e ognuno resti nella sua.
— Sta bene - disse il notaio.
— Precisamente; già, tanto è ciò che avviene sempre, come dissi poco fa - aggiunse il giovine, che aveva riguadagnato un po’ della sua, quasi infantile, eppur così petulante alterigia.
— Benissimo!... Ella aveva osservato esattamente e da quel valente giovane che ella è. Dunque la mia opinione è questa: per ciò che riguarda l’arte - della quale sono modesto, oscuro, ma antico, passionato, ardente cultore - per ciò che riguarda l’arte e le sue molteplici manifestazioni, io non ho opinioni, non ho pregiudizii, non ho preconcetti... sono libero come un uccello, indipendente come un gatto, non sono legato nè a scuole, nè ad accademie, nè a chiesuole... insomma sono eclettico.
— Ah! - sospirò l’innocuo e omeopatico Aristarco, facendo una smorfia, assai espressiva, con le labbra.
Io non badai a lui e continuai:
— Per me tutto ciò che è bello mi piace, l’osservo, l’ammiro e, parola d’onore, non ostante i miei quarantadue anni, dinanzi ad un bel quadro, a un bel dramma, ad un bel libro, vado in brodo di giuggiole e mi entusiasmo, con lo stesso slancio, con lo stesso ardore con cui mi entusiasmavo ai miei vent’anni.... Forse con gusto un po’ meno grossolano, forse con intelligenza meno rude, perchè, o bene o male, un po’ bene e un po’ male, ho letto, ho studiato, ho osservato, ho ascoltato, ho misurato, ho cercato di confrontare, di pesare, di valutare... alla buona, come meglio ho potuto e saputo, con poco discernimento, forse, ma con buona volontà, con cura febbrile, certamente, e oggi, come a vent’anni, sempre con impeto amorosissimo; per cui, come dicevo...
— Sì, sta tutto bene, ma chi è che stabilisce che cosa è il bello?... - domandò interrompendomi, con un certo suo sorrisetto, fra malizioso e trionfale, il Sainte-Beuve in erba.
— Ecco... precisamente... qui l’aspettavo... lo sapevo che ella mi avrebbe mosso questa domanda... lo sapevo quanto è vero che il sublime sta nel semplice ciò che sembra, a prima vista, un paradosso ed è una matematica verità - lo sapevo, ripeto, per cui, eccomi a lei. Io non dirò col filosofo greco che il bello è lo splendore del vero - sebbene io creda che questa sia la più perfetta definizione del bello - ma io non la porrò per canone, come non dirò, col divino poeta, che il bello sia l’armonica simmetria delle varie parti di un tutto fra loro; io, come lei, caro signore - e mi rivolsi al giovine rivoluzionario - sono nemico delle regole, dei precetti, delle definizioni... ho procurato di leggerle, di studiarle, di apprenderle e non me ne sono mai trovato male; ma, lasciamo stare... bando a tutti questi ceppi... il genio dell’artista deve essere libero nello sconfinato e liberissimo campo dell’arte. Dunque, non accetterò nessuna delle infinite definizioni che fin qui furono emesse del bello e dirò, per contentarla, che il bello è quello che per tale viene ricevuto ed ammesso dal comune e continuo consenso dell’universale. Variano i gusti, perchè il gusto è un sentimento, stavo per dire un senso, tutto individuale, tutto interno, tutto subiettivo, e perciò una cosa parrà bellissima a lei che a me parrà bruttissima e viceversa, ma là dove il gusto della grande maggioranza degli uomini, per lunghi anni di seguito, si mantenne fermo nel riconoscere l’esistenza del bello, là il bello c’è, a lei accomodi o non accomodi. Perchè siccome, alla fin fine, lo scopo vero dell’arte è di piacere, quella è arte vera che più lungamente piace e ai più. Quindi, come ella comprende bene, io non solo non misuro un’opera d’arte alla stregua delle regole e dei precetti, ma non ricerco menomamente, in essa, uno scopo filosofico o morale: se ce lo trovo, eh! - dico la verità - tanto - meglio; ma, se non ce lo trovo, non me ne preoccupa menomamente. Mi dà ella una bella commedia, come la Mandragola del Macchiavelli, per esempio, o come la Signora dalle Camelie del Dumas figlio - e sia immorale - benchè io potrei dimostrarle che, in quelle due commedie, la morale, non predicata, ma in azione,, c’è, e che morale! - ma, ripeto, questa data commedia, sia immorale e sia bella, e mi diverta, e mi agiti, e mi commuova... e io me ne rido della morale. Dunque, consideri bene quanto mi accosto a lei, caro signore; io non bado a precetti, non bado a morale, non bado a scuole, non bado ad accademie; accetto il bello in quanto è bello, da qualunque parte mi venga, sotto qualunque forma mi si presenti, a un solo patto, a una sola condizione: che sia bello. Nondimeno, come vede, caro signore, quantunque così vicino a lei, me ne trovo poi lontanissimo per questo: che ella, per esempio, disprezza l’Urbinate ed io l’ammiro, ed io ho la debolezza, che ella - beato lei! - non ha, di entusiasmarmi in ugual modo tanto dinanzi alla Madonna del Cardellino, come dinanzi alle Tentazioni di Santo Antonio; tanto di fronte al David o al Mosè del divino Michelangelo quanto in presenza dell’Abele di Duprè o del Genio di Franklin, del Monteverde, e sono capace - mi compatisca, sa - di deliziarmi ugualmente leggendo Anacreonte e De Musset, Catullo e Heine, Leopardi e Byron, come udendo il Guglielmo Tell o Lohengrin, il Profeta o l’Aida, la Sonnambula o il Mefistofele
Qui mi interruppi un momento a osservare le contorsioni del ventenne Boileau, poi, volgendomi al mio vicino di destra, ripresi:
— E lei, vede, ha torto quando parla di musica del passato e di musica dell’avvenire, di musica armonica e di musica melodica, di musica italiana e di musica tedesca, di musica drammatica e di musica sinfonica; c’è un solo genere di musica, possibile, a questo mondo; ed è la musica bella, la musica buona, la musica che diverte, che intenerisce, che fa pensare, e questa non è nè latina, nè ostrogota, nè antica, nè moderna, è di tutti tempi e di tutte le nazioni; l’altra, quella che annoia, infastidisce, che fa sbadigliare, quella soltanto è musica cattiva, da qualunque parte venga e chiunque sia che l’abbia scritta. Quanto al criterio della maggiore o minore facilità di intenderla e di sentirla piuttosto alla prima che alla quarta rappresentazione, questo, caro signore, mi permetta che glielo dica, è un criterio sbagliato.
Il notaio fece un movimento, come per obbiettare qualche cosa.
— No, no, scusi, mi lasci dire. Ne vuole una prova?... Mi dica, di grazia, che cosa trova più facile a comprendere, lei: due terzine di Dante o due strofette del Metastasio?... Evidentemente le strofette del poeta, nostro concittadino. E che ne dedurrebbe lei, a rigor di logica, basandosi su questo suo criterio?... Forse che il Metastasio, perchè più piano, più semplice, più popolare, sia più grande, più poderoso, più sublime di Dante?... No, per certo: dunque il Metastasio sarà bello nella sua apparente facilità, nella sua semplicità, nella sua melodia, ciò che non ci impedirà di riconoscere che, quantunque più astruso, più condensato, più vigoroso, anzi appunto per ciò, il divino poeta è immensamente più grande del poeta cesareo. Ora applichi questa osservazione alla musica, ed ella troverà che se il Matrimonio segreto di Cimarosa è bello come l’Ipermestra del Metastasio, gli Ugonotti sono belli come il canto di Farinata degli Uberti. Se ne persuade?... Il notaio sorrise bonariamente, e mormorò:
— Il paragone è più ingegnoso che esatto.
— Sarà, può essere - risposi io; - ma ci pensi bene e, forse forse, finirà per trovarlo più esatto che ingegnoso. Quanto a lei poi, mio caro signore, continuai, indirizzandomi al biondo Baretti in sessantaquattresimo - che strepita contro il convenzionalismo e il manierismo, ella ha mille ragioni e, per quanto debole possa essere la mia alleanza, mi troverà sempre al suo fianco in questa crociata. Sicuro: ella ha ragione da vendere: in arte ci vuole originalità, e perciò ci vuole naturalezza; occorre che ognuno si mostri quale è, facendo da sè e traendo la sua ispirazione da sè stesso. Ma crede ella che il convenzionalismo e il manierismo siano vizi di moderna invenzione? No, mio caro signore, no; sono nati coll’uomo. Il fascino, che esercitarono ed esercitano gli alti ingegni sopra i mediocri, ha sempre generato e genererà sempre negli uomini e questa sarebbe, disgraziatamente, una pròva di più che l’uomo discende dalla scimmia - la mania dell’imitazione, e quindi il convenzionalismo e il manierismo. Senza ricorrere all’antichità, pensi al Petrarca, al Marini, a Michelangelo, al Frugoni, al Metastasio, al Monti, al Canova e mi dica, poi, se il manierismo e il convenzionalismo sono piaghe di data recente.
E lo stesso le dico sul suo verismo, sul suo realismo, sul suo naturalismo. Ma crede ella, proprio, in buona fede, sulla scorta di quattro ragazzi, generalmente bocciati al Liceo e che scrivono delle porcherie in pessimi versi e che vociano e cianciano e cinguettano pei tavolini dei caffè e su per le pagine giallognole degli elzeviri, di scuola nuova e di scuola del vero, di realismo e di naturalismo, e ne vanno a pescare gli esempii in Rabelais, in Lesage, in Balzac e in Zola, credendo di scoprire l’America; ma crede, proprio, ella, in buona fede, che queste le sian cose di moderna invenzione?...
No, caro il mio signore, no; le son cose vecchie come la barba di Matusalem e più ancora. Il naturalismo è nato con Eva, il giorno che quella buona donna peccò. Nello spazio di tempo, sia pur stato breve quanto ella vuole, che corse fra il punto in cui la compagna di Adamo commise il primo fallo, fino a quello in cui, accorgendosi della sua nudità, si coprì con la famosa fronda di fico, in quel breve spazio di tempo nacquero il verismo, il realismo e il naturalismo... figliuoli tutti del peccato e della fragilità femminile, come ella vede.
Ma di quali scoperte o invenzioni mi va dunque favellando, mio buon signore? Per carità; ma cominci dal leggere il capo xix del libro della Genesi e il libro di Rut e lo stupendo, il mirabile Cantico de’ Cantici, dove il naturalismo il più crudo è velato, appena appena, dalla più splendida poesia che mente sensuale potesse concepire al mondo e venga, giù giù, ad Anacreonte, ad Euripide, ad Aristofane, a Plauto, a Catullo, a Orazio, a Ovidio, a Marziale, a Petronio, e, per parlar dei nostri soltanto, scenda fino al divino poeta, al Boccaccio, al Sacchetti, al Firenzuola, al Machiavelli, al Berni, all’Ariosto, all’Aretino, al Casti, e mi dica poi se il verismo, il realismo e il naturalismo l’ha inventato lei, o coloro che - strepitano alla luna, come lei.
Se differenza c’è fra il vecchio e il nuovo naturalismo, è tutto a scapito dei moderni, nei quali manca, quasi sempre, la leggiadria, la venustà, la grazia della forma, veramente artistica, che, negli altri, quasi sempre, si ritrova e si gusta e si ammira.
Quanto all’orrido, al deforme, allo schifoso, che ella vuole adoperare nell’arte, l’adopri pure; ma, per salvarsi dal precipizio sul quale si mette a volare, ma, per salvarsi dai fischi, si ricordi di adoperarlo come l’ha adoperato il divino poeta nel dipingere la pattuglia diabolica nei canti xxi e xxii e l’alterco fra mastro Adamo e il greco Sinone nel xxx dell’Inferno. Ritragga pure dei birbanti come il sublime Jago di Shakespeare; lo ritragga pure coi più foschi colori della sua tavolozza, ma lo ponga vicino a una figura nobile e generosa, come quella di Otello, e di fronte alla splendida luce, che emana dalla soavissima persona di Desdemona. Scolpisca pure il deforme, come Yictor Hugo nel suo Quasimodo, ma lo circondi dell’aureola della virtù, come ha fatto il poeta francese; e, creda a me, non sarà male se, accanto a Quasimodo, ci porrà, per contrapposto, un Claudio Frollo che rappresenti il bello fisico e lo schifoso morale, e se le due antitesi viventi saranno rischiarate dalla leggiadra e poetica figura di Esmeralda... magari con la capretta.
E questi non sono precetti, sa; badi bene, signor mio, non sono regole, nè ceppi che io voglio imporre alla sua libera fantasia; sono avvertimenti che le dò perche ella non sia fischiato, giacche, non si illuda, non si faccia dare ad intendere frottole, se ella farà il brutto per il brutto, se il brutto della natura ella non lo idealizza, trasportandolo nel campo dell’arte; se, per conseguenza, idealizzandolo, ella non lo rende bello, nella forma, non si illuda, sa, trasportando il brutto, fotograficamente, dall’immondezzaio sulla tela, tale quale è, ella sarà irremissibilmente, senza pietà, perpetuamente fischiato... la qual cosa non è, generalmente, la mèta a cui miri l’artista.
E lo stesso, precisamente lo stesso le dico pei suoi versi di sedici e di diciotto sillabe: li faccia pure, nessuno glielo impedisce: sarà una stranezza, ma basta che riesca una stranezza bella, passerà e sarà lodata. Ma bisognerà che i suoi versi abbian nerbo di pensiero, grazia e incisività di frase, fascino di forma. bisognerà che sian belli, ma belli per consenso dell’universale, e belli in guisa da abbacinare lo splendore dei migliori endecasillabi, dei migliori settenari in voga... se no il suo ardimento riuscirà come quello di Icaro ed ella sarà inesorabilmente deriso e subito messo in oblìo.
Quanto alla grammatica e al vocabolario li lasci stare, poveretti: o che le hanno fatto? Anche a favore di quelle due povere creature, c’è il consenso universale: saranno pregiudizi, ne convengo, saranno pedanterie, ma, alla fin fine, come fare?... Bisogna subire la ti-rannide della maggioranza e passare sotto le forche caudine di Basilio Puoti e della Crusca. È vero che Voltaire, con biasimato neografismo, scriveva, ai suoi tempi, français, anglais, ils aimeraient ecc., ecc., in barba all’ortografia, allora in voga, che statuiva si scrivesse françois, anglois e ils aimeroient, ma una rosa non fa primavera e bisognerebbe che ella fosse ben bene sicuro di essere Voltaire, cosa che non accade a tutti e neppure tutti i giorni.
Quanto poi...
Fortunatamente per me e per gli altri, a questo punto fui interrotto dall’alzarsi della tela.
Durante la rappresentazione dell’epilogo del Mefìstofele, sbirciai, tre o quattro volte, alla sfuggita, i miei due vicini e interlocutori: il vecchio notaio pareva più contento che malcontento, ma l’altero piccolo Schlegel non sembrava gran che soddisfatto.
L’opera finì, fra gli applausi del pubblico; io salutai i miei vicini ed uscii in fretta.
Nel corridoio, mentre accendevo una sigaretta, mi imbattei in un amico, al quale, passando, il biondo amorino, che poco prima sedeva alla mia sinistra, aveva volto un altezzoso saluto.
— Conosci quel giovine? - gli chiesi.
— Sì - rispose egli: e me ne disse il nome e la condizione.
Era uno studente, figlio di un capo-divisione, bocciato, per due anni di seguito, all’esame di licenza liceale !...