IV - La Chiesa di San Pietro

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IV - La Chiesa di San Pietro
IV Mastro Zaccaria

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V.


L’ora della morte.


Passarono ancora alcuni giorni e mastro Zaccaria, quest’uomo quasi morto, si levò dal letto e tornò alla vita con un eccitamento soprannaturale. Viveva d’orgoglio. Ma Geranda non si ingannò, il corpo e l’anima del padre suo erano perduti per sempre. Si vide allora il vecchio occupato a radunare le ultime monete senza darsi cura dei suoi. Egli spendeva un’incredibile energia camminando, frugando e borbottando parole misteriose.

Una mattina Geranda scese all’officina; mastro Zaccaria non vi era, tutto quel giorno essa lo attese, mastro Zaccaria non tornò. Geranda pianse tutte le lagrime degli occhi suoi, ma il padre non riapparve.

Aubert percorse la città, ed acquistò la triste certezza che il vecchio l’aveva lasciato.

«Ritroviamo mio padre, esclamò Geranda, quando Aubert le diede la dolorosa novella.

— Dove può essere? si domandò Aubert.

Una improvvisa ispirazione illuminò il suo spirito. Le ultime parole di mastro Zaccaria gli tornarono in mente. Il vecchio orologiaio più non viveva se non nel vecchio orologio di ferro che non gli si era restituito. Mastro Zaccaria doveva esserne andato in cerca.

Aubert comunicò il proprio pensiero a Geranda.

«Vediamo il libro di mio padre, disse la fanciulla.

Entrambi discesero nell’officina; il libro era aperto sul banco. Tutti gli orologi fatti dal vecchio Zaccaria, e restituitigli perchè guasti, eran cancellati, tranne uno! [p. 98 modifica]

«Venduto al signor Pittonaccio un orologio di ferro a soneria ed a personaggi mobili, collocato nel suo castello di Andernatt.

Era questo l’orologio morale di cui la vecchia Scolastica aveva parlato con tanta lode.

«Mio padre è là, esclamò Geranda.

— Corriamoci, rispose Aubert, possiamo salvarlo ancora.

— Non per questa vita, mormorò Geranda, ma almeno per l’altra.

— Alla grazia di Dio, Geranda! Il castello di Andernatt è posto nelle gole dei Dents-du-midi, a venti ore circa da Ginevra, partiamo.

In quella sera medesima Aubert e Geranda, seguiti dalla vecchia domestica, camminavano a piedi sulla via che costeggia il lago di Ginevra. Percorsero cinque leghe nella notte, non arrestandosi nè a Bessinga nè ad Emanne dove sorge il celebre castello dei Mayor. Attraversarono a guado e non senza stento il torrente della Dransa. In tutti i luoghi si informavano di mastro Zaccaria, ed ebbero presto la certezza di camminar sulle sue tracce.

Il domani, al cader del giorno, dopo di aver passato Thonon, giunsero ad Evian, d’onde si vede la costa della Svizzera svolgersi per una estensione di dodici leghe. Ma i due fidanzati non badarono nemmeno a quei luoghi incantevoli. Camminavano spinti da una forza soprannaturale. Aubert appoggiato ad un nodoso bastone offriva il braccio ora a Scolastica ed ora a Geranda, ed attingeva nel proprio cuore una suprema energia per sorreggere le compagne. Tutti e tre parlavano dei loro dolori, delle loro speranze, e seguivano così quella bella via a fior d’acqua sulla spianata ristretta che congiunge le sponde del lago alle alte montagne dello Chalais. Presto giunsero a Bouveret nel luogo in cui il Rodano entra nel lago di Ginevra.

Oltre questo paese, essi abbandonarono il lago e crebbe la loro fatica in mezzo a quelle regioni montagnose. Vionnaz, Chesset, Collombay, villaggi semiperduti, furon presto alle loro [p. 99 modifica]spalle. Nondimeno le ginocchia piegavano, i piedi si laceravano in quelle creste aguzze che facevano irto il suolo quasi fossero cespugli di granito. E non si trovava traccia di mastro Zaccaria! Pur bisognava ritrovarlo, ed i due fidanzati non domandarono il riposo nè alle solitarie capanne, nè al castello di Monthey, il quale colle sue dipendenze formò l’apannaggio di Margherita di Savoia. Finalmente verso la fine di quel giorno giunsero all’eremitaggio di Nostra Signora del Sex, che è situato alla base del Dent-du-midi a seicento piedi sopra il Rodano.

L’eremita li ricevette tutti e tre al cader della notte. Essi non avrebbero potuto fare un passo di più, e colà dovettero prendere un po’ di riposo. L’eremita non diede loro alcuna notizia di mastro Zaccaria; a mala pena si poteva sperare di ritrovarlo vivo in quelle tetre solitudini. La notte era profonda, l’uragano fischiava nella montagna e le valanghe si precipitavano dal sommo dalle roccie commosse.

I due fidanzati, accoccolati dinanzi al focolare dell’eremita, gli raccontarono la storia dolorosa. I loro mantelli inzuppati di neve asciugavano in un canto, ed al di fuori il cane dell’eremitaggio mandava lugubri latrati che si mescevano agli urli della raffica.

«L’orgoglio, disse l’eremita a’ suoi ospiti, ha perduto un angelo creato per il bene. È la pietra d’inciampo in cui si urtano i destini dell’uomo. All’orgoglio, principe di tutti i vizi, non si può opporre alcun ragionamento, poichè per la sua stessa natura l’orgoglioso si rifiuta di intenderli.... non rimane adunque che pregare pel padre vostro.

Tutti e quattro si inginocchiarono, quando i latrati del cane raddoppiarono e si picchiò all’uscio dell’eremitaggio.

«Aprite, in nome del diavolo!

La porta cedette agli sforzi violenti ed apparve un uomo scapigliato, torvo e vestito appena.

«Mio padre! esclamò Geranda.

Era mastro Zaccaria.

«Dove sono io? disse egli. Nell’eternità!.... il tempo è finito; le ore più non suonano.... le freccia si fermano. [p. 100 modifica]

— Babbo! disse Geranda, con una commozione così straziante che il vecchio parve tornare nel mondo dei viventi.

— Tu qui Geranda! esclamò, e tu Aubert!... Ah miei cari fidanzati, voi venite a sposarvi nella nostra vecchia chiesa.

— Padre mio, disse Geranda, afferrandolo per il braccio, torna alla tua casa di Ginevra, torna con noi.

Il vecchio si svincolò dall’amplesso della figlia e si slanciò verso l’uscio ove la neve s’ammucchiava a grossi fiocchi.

— Non abbandonate i figli vostri, esclamò Aubert.

— Perchè, rispose tristamente il vecchio orologiaio, perchè tornare a quei luoghi che la mia vita ha già lasciati e dove è sepolta una parte di me medesimo?

— La vostra anima non è morta, disse l’eremita.

— La mia anima? Ah no.... le sue ruote sono buone, io la sento battere in tempi eguali.

— L’anima vostra è immateriale! L’anima vostra è immortale, soggiunse l’eremita con forza.

— Sì,... come la mia gloria.... ma essa è chiusa nel castello di Andernatt e voglio rivederla.

L’eremita si fè il segno della croce, Scolastica si sentiva venir meno ed Aubert sorreggeva Geranda nelle proprie braccia.

«Il castello di Andernatt è abitato da un dannato, disse l’eremita, da un dannato che non saluta la croce del mio eremitaggio.

— Padre mio, non andarci.

— Io voglio la mia anima, la mia anima che è mia!...

— Trattenetelo, trattenete mio padre, gridò Geranda.

Ma il vecchio aveva lasciato la soglia e si era lanciato nel buio, gridando:

«La mia anima! La mia anima!»

Geranda, Aubert e Scolastica si precipitarono dietro i suoi passi; camminarono per impraticabili sentieri, sui quali mastro Zaccaria passava come l’uragano, spinto da una forza irresistibile. La neve turbinava intorno ad essi e mesceva i suoi larghi fiocchi alla schiuma dei torrenti straripati. Passando dinanzi alla cappella elevata in memoria della strage della [p. 101 modifica]legione tebana, Geranda, Aubert e Scolastica si fecero il segno della croce, ma mastro Zaccaria non si scoprì il capo.

Finalmente il villaggio di Evionnaz apparve in mezzo a quella incolta regione. Il cuore più indurito si sarebbe commosso alla vista di quella borgata, perduta nelle orribili solitudini. Il vecchio passò oltre, si diresse a mancina e si cacciò nel più profondo delle gole di quei Dents-du-midi che mordono il cielo co’ loro picchi aguzzi.

Poco dopo una rovina vecchia e tenebrosa come le roccie della sua base, si rizzò innanzi a lui.

«È là! là!... gridò egli, precipitando di nuovo la corsa sfrenata.

Il castello di Andernatt in quel tempo non era più che rovine. Una grossa torre logora, rotta, lo dominava e sembrava minacciare della sua caduta le vecchie mura che sorgevano a’ suoi piedi. Quegli ampi cumuli di sassi facevano orrore. Si indovinavano, in mezzo ai rottami, tenebrose sale dalle vôlte sfondate ed immondi ricettacoli di vipere.

Una postierla stretta e bassa, che si apriva sopra un fossato ingombro di rottami, dava accesso al castello di Andernatt. Quali abitanti erano passati di là? Senza dubbio qualche margravio, metà brigante e metà signorotto, soggiornò in quella abitazione. Al margravio, succedettero i banditi ed i falsi monetari che furono appiccati sul teatro del loro crimine, e la leggenda diceva che nelle notti d’inverno Satana veniva a dirigere le sue tradizionali sarabande sulle falde di quelle gole profonde in cui si inghiottiva l’ombra delle rovine.

Mastro Zaccaria non fu punto spaventato del loro aspetto sinistro. Giunse alla postierla e nessuno gli sbarrò il passo. Un ampio e tenebroso cortile s’offrì a’ suoi sguardi e nessuno gli impedì di attraversarlo. Salì sopra una specie di piano inclinato che metteva in uno di quei lunghi corridoi, le cui arcate sembrano schiacciare la luce sotto i loro spigoli massicci, e nessuno si oppose al suo passaggio. Geranda, Aubert e Scolastica lo seguivano sempre. Mastro Zaccaria, come guidato da una mano invisibile, pareva sicuro della sua via e camminava [p. 102 modifica]con passo rapido. Giunse ad una vecchia porta tarlata che cadde a’ suoi colpi, mentre i pipistrelli tracciavano obbliqui cerchi intorno al suo capo. Vide un’immensa sala, meglio conservata delle altre. Alti riquadri scolpiti ne vestivano le muraglie, su cui larve e tarasche sembravano agitarsi confusamente. Alcune finestre lunghe e strette, simili a feritoie, tremavano all’impeto della bufera.

Mastro Zaccaria giunto nel mezzo di quella sala mandò un grido di gioia. Sopra un sostegno di ferro addossato alla muraglia riposava l’orologio in cui oramai era ridotta tutta la sua vita. Quel capolavoro senza uguale rappresentava una chiesa romana coi contrafforti di ferro battuto e col campanile massiccio in cui era una soneria completa per l’antifona del giorno, l’angelus, la messa, i vespri, compieta e benedizione. Sopra la porta della chiesa che si apriva all’ora degli uffici, era un rosone, nel centro del quale si movevano due frecce, ed il cui archivolto riproduceva le dodici ore del quadrante scolpite in rilievo. Fra la porta ed il rosone, come aveva raccontato la vecchia Scolastica, appariva in un quadro di rame una massima relativa all’uso d’ogni istante della giornata. Mastro Zaccaria aveva un tempo regolato questa successione di massime con una sollecitudine del tutto cristiana. Le ore della preghiera, del lavoro, del pasto, della ricreazione e del riposo si seguivano secondo la disciplina religiosa e dovevano infallibilmente formare la salvezza d’un osservatore scrupoloso delle loro raccomandazioni.

Mastro Zaccaria, ebbro di gioia, stava per impadronirsi di quell’orologio, quando intese alle spalle un riso spaventoso.

Si volse, ed alla luce d’una lampada fumosa riconobbe il vecchietto di Ginevra.

«Voi qui! esclamò egli.

Geranda ebbe paura e si strinse contro il fidanzato.

«Buon giorno, mastro Zaccaria, disse il mostro.

— Chi siete voi?

— Il signor Pittonaccio per servirvi, venite a darmi la vostra figliuola, avete ricordato le mie parole: «Geranda non sposerà Aubert.» [p. 103 modifica]

Il giovane operaio s’avanzò contro Pittonaccio, il quale gli sfuggì come un’ombra.

«Ferma Aubert, disse mastro Zaccaria.

— Buona notte, disse Pittonaccio, e scomparve.

— Babbo, esclamò Geranda, fuggiamo questi luoghi maledetti... babbo!...

Mastro Zaccaria non era più là, egli inseguiva attraverso i piani sfondati il fantasma di Pittonaccio.

Scolastica, Aubert e Geranda rimasero sbigottiti in quell’immensa sala. La giovinetta era caduta sopra un seggiolone di pietra; la vecchia s’inginocchiò accanto a lei e pregò; Aubert rimase in piedi a vegliare sulla fidanzata. Pallidi bagliori serpeggiavano nell’ombra, il silenzio era solo interrotto dal lavorio dei tarli che rodono i legni antichi, ed il cui rumore segna gli intervalli dell’orologio della morte.

Ai primi raggi del giorno tutti e tre si avventurarono nelle scalinate senza fine che circolavano sotto quel cumulo di sassi. Per due ore vagarono così senza incontrare anima viva, e non udendo altro che un eco lontano in risposta alle loro grida. Ora si trovavano cento piedi sotto terra, ora dominavano dall’alto le montagne selvaggie. Il caso li condusse finalmente nella vasta sala che li aveva ricoverati in quella notte d’angoscie. Non era più vuota. Mastro Zaccaria e Pittonaccio vi discorrevano insieme, l’uno in piedi e rigido come un cadavere, l’altro accosciato sopra una tavola di marmo.

Mastro Zaccaria, com’ebbe visto Geranda, venne a prenderla per mano e la condusse innanzi a Pittonaccio dicendo: «Ecco il tuo signore e padrone, figlia mia! Geranda, ecco il tuo sposo.

Geranda rabbrividì da capo a piedi.

«Giammai, gridò Aubert, essa è la mia fidanzata.

— Giammai, rispose Geranda, come un eco lamentevole.

Pittonaccio uscì in una risata.

«Mi volete dunque morto! gridò il vecchio, là, in quell’orologio, l’ultimo che cammini ancora di tutti quelli che sono usciti dalle mie mani, là è chiusa la mia vita, e quest’uomo mi ha detto: «quando avrò tua figlia questo orologio ti [p. 104 modifica]apparterrà.» E questo uomo non vuol rimontarlo, può spezzarlo, precipitarlo nel nulla. Ah! figlia mia non m’ami dunque più?

— Babbo! mormorò Geranda tornando in sè.

— Se tu sapessi quanto ho sofferto lontano da questo principio della mia esistenza, soggiunse il vecchio; forse non si aveva cura di questo orologio; si lasciava che le sue molle si logorassero, che si intricassero le sue ruote; ma ora colle mie proprie mani io voglio mantenergli la salute così cara, perchè non bisogna che io muoia, io, il grande orologiaio di Ginevra! Guarda, figlia mia, come queste freccie camminano a passo sicuro! To’, ecco, le cinque stanno per suonare! Ascolta, bene e guarda la bella massima che si offrirà a’ tuoi sguardi.

Suonarono le cinque al campanile dell’orologio con un rumore che eccheggiò dolorosamente nell’anima di Geranda, ed apparvero in lettere rosse queste parole:

Bisogna mangiare i frutti dell’albero della scienza.

Aubert e Geranda si guardarono in faccia. Non erano più le imprese ortodosse dell’orologiaio cattolico. Certo Satana ci aveva soffiato sopra. Ma Zaccaria non ci badava e soggiunse:

«Intendi, Geranda mia? Io vivo, io vivo ancora, ascoltala mia respirazione, vedi il sangue che circola nelle mie vene.... no, tu non potrai uccidere il padre tuo, accetterai questo uomo per sposo, affinchè io divenga immortale e raggiunga finalmente la potenza di Dio.

A queste empie parole, Scolastica si fece il segno della croce e Pittonaccio mandò un grido di gioia.

— E poi Geranda, tu sarai felice con esso. Vedi questo uomo? È il tempo! La tua esistenza sarà regolata con precisione assoluta. Geranda! Poichè io t’ho data la vita, rendi la vita al padre tuo.

— Geranda, mormorò Aubert, io sono il tuo fidanzato.

— Egli è mio padre, rispose Geranda sfinita di forze.

— È tua, disse mastro Zaccaria. Pittonaccio manterrai tu la promessa?

— Ecco la chiave dell’orologio, rispose l’orribile personaggio. [p. 105 modifica]

Mastro Zaccaria s’impadronì della lunga chiave, che rassomigliava ad una vipera allungata, e corse all’orologio cui diede la corda con fantastica rapidità. Lo stridore della molla faceva male ai nervi. Il vecchio orologiaio girava sempre, senza che il suo braccio si arrestasse, e pareva che quel movimento di rotazione fosse indipendente dalla sua volontà. Girò sempre più presto, con bizzarre contorsioni, finchè cadde sfinito.

«Eccolo montato per un secolo.

Aubert uscì dalla sala come pazzo. Dopo lunghi giri egli trovò l’uscita della casa maledetta e si slanciò nella campagna. Tornò all’eremitaggio di Nostra Signora del Sex e parlò al sant’uomo parole così disperate, che costui acconsentì ad accompagnarlo al castello di Andernatt.

Se in quelle ore d’angoscie Geranda non aveva pianto, gli è che la fonte delle lagrime le si era inaridita. Mastro Zaccaria non aveva lasciato l’immensa sala. Egli veniva ogni minuto ad ascoltare i battiti regolari del vecchio orologio. Frattanto erano suonate le dieci e, con gran spavento di Scolastica, queste parole erano apparse sul quadro d’argento:

L’uomo può divenire eguale a Dio.

Non solamente il vecchio non era più offeso da tali massime empie, ma le leggeva delirando e si compiaceva in quei pensieri d’orgoglio, intanto che Pittonaccio gli girava intorno.

L’atto di matrimonio doveva essere segnato alla mezzanotte. Geranda, quasi inanimata, più non vedeva nè intendeva. Il silenzio era solo interrotto dalle parole del vecchio e dal ghignare di Pittonaccio. Suonarono le undici. Mastro Zaccaria diè un sussulto e lesse con voce sonora questa bestemmia:

L’uomo debb’essere lo schiavo della scienza
E deve sagrificare per essa parenti e famiglia.

«Sì, esclamò egli, non v’ha che la scienza a questo mondo.

Le frecce serpeggiavano sul quadrante di ferro con fischi da vipera e l’orologio batteva colpi precipitati. [p. 106 modifica]

Mastro Zaccaria non parlava più, era caduto a terra, e dal suo petto oppresso uscivano solo queste parole: «La vita, la scienza.»

Questa scena aveva allora due nuovi testimoni: l’eremita ed Aubert. Mastro Zaccaria era coricato sul suolo. Geranda accanto a lui, più morta che viva, pregava.... d’un tratto si intese il rumore che precede il batter delle ore. Mastro Zaccaria si raddrizzò.

«Mezzanotte, esclamò.

L’eremita stese la mano verso il vecchio orologio e la mezzanotte non suonò. Allora mastro Zaccaria mandò un grido che dovette essere inteso dall’inferno, quando apparvero queste parole:

Chi tenterà farsi uguale a Dio sarà dannato per l’eternità.

Il vecchio orologio scoppiò con rumore di folgore, e la molla uscendo dall’incassatura saltò in mezzo alla sala con mille contorcimenti fantastici. Il vecchio si risollevò e le corse dietro cercando invano di afferrarla e gridando:

«La mia anima! La mia anima!

La molla saltellava dinanzi a lui, or da una parte or dal l’altra, senza che mai egli potesse afferrarla.

Finalmente Pittonaccio la prese e profferendo una orribile bestemmia sprofondò sotto terra. Mastro Zaccaria cadde rovescioni... era morto.

· · · · · · · · · · · · · · ·

Il corpo dell’orologiaio fu seppellito in mezzo ai picchi di Andernatt. Poi Aubert e Geranda tornarono a Ginevra, e nei lunghi anni che Dio concesse loro, si sforzarono di riscattare colla preghiera l’anima del riprovato della scienza.