Lucifero/Canto quinto
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CANTO QUINTO
Ma qual riposo mai, qual mai quíete
Quinci innanzi, o pietosa Ebe, a te resta,
Se amor, che ai passi tuoi tende la rete,
Sì fiero caso alla tua vita appresta?
5Come fil di corallo entro a le chete
Onde germoglia amor nell’alma mesta;
Amor sen vien furtivo e taciturno,
Sen viene al cor qual ladroncel notturno.
Su le deserte, angoscíose piume
10Ella inqueta si volge, ella sospira;
E, qual lieve farfalla intorno al lume,
Amor non visto intorno a lei si aggira;
Gira per l’aria, e com’è suo costume,
Nel foco ch’ei destò, ventila e spira;
15E dello strano eroe le reca innante
Le fogge, il riguardar, gli atti, il sembiante.
Ella il vede, ella il sente: ad una ad una
Fan le audaci parole a lei ritorno,
Qual nel tiepido ottobre all’ora bruna
20Tornan le pecchie argute al lor soggiorno;
Ecco, ei le parla della sua fortuna,
Muto or la guarda, or le si asside intorno;
Ed ella, a par di bianca aerea face,
Trema a quei detti, e d’ascoltar le piace.
25Sorse alfine; e dell’ombre impazíente
Gli opposti vetri alle fresche aure aperse.
Diradavasi il cielo ultimo, e lente
Cedevano al mattin le stelle avverse;
Un zeffiro gentil dall’oríente
30Le vaghe ali movea di brina asperse,
E dalle screzíate, umide aiuole
Dolci olezzi traea, dolci parole.
Diceva all’aura il fiore: — Aura pietosa,
Che mi porti le brine alme e vivaci,
35Deh! per poco su me l’ali riposa
L’ali dolci così, così fugaci;
Tu in sen mi svegli ogni virtù nascosa;
Son mia vita ed amor solo i tuoi baci;
Deh! se posar non puoi rompi il mio stelo;
40Che teco io venga a spazíar pe’l cielo! —
— Sorgi, dicea con lamentevol grido
Presso alla rosa il tenero usignolo;
Quanto bella sei tu, tanto io son fido,
Quanto lieta sei tu, tanto io son solo.
45Già il candido mattin sorge dal lido,
E tu sorgi così dal tuo bocciòlo;
Tu il vago olezzo, il vago inno io t’invio;
Tu sei l’amore, e l’armonia son io. —
Udìa l’assorta giovinetta, e un’onda
50L’avvolgea d’amorose ombre e di larve,
Quando un fruscìo sentì tra fronda e fronda,
Ed un uom vide, o di veder le parve;
Stette, il respir contenne, e alla gioconda
Luce dell’alba il pellegrin le apparve;
55Mise ella un grido, e pallida divenne;
Se non fuggì, fu amor che la rattenne.
— Ferma, sclamò l’eroe con mesto accento,
M’odi, pietà del mio destin ti tocchi:
Io, che ai Numi recai guerra e spavento,
60Ecco, supplice io cado ai tuoi ginocchi!
Ogni raggio d’onor fia per me spento,
Se non mi dànno un raggio i tuoi begli occhi:
In tal raggio d’amor, poi ch’io l’ho visto,
La vita, il trono, la vittoria acquisto.
65Ti sognai, ti cercai: nell’infinita
Luce del ciel, nei cupi abissi orrendi
Sempre in traccia di te corsa ho la vita,
O eterna Idea, che umana forma or prendi;
Vista t’ho innanzi a me, t’ho in cor sentita.
70Sempre acceso m’hai tu come or m’accendi;
Or che t’aggiungo, intero alfin son io,
Son colmi i fati ed il trionfo è mio.
Sì, vincerò. La voluttà ch’io bramo
Alza le menti a imprese inclite e chiare:
75T’amai nel sogno, nella vita or t’amo,
E immenso è l’amor mio siccome il mare:
Ei dà a la foglia il fior, la foglia al ramo,
La beltà agli occhi, alla beltà l’altare,
Sola virtù di questa fragil salma,
80Luce de la pupilla, aria de l’alma! —
Così dicendo, all’odorato lembo
Delle vesti di lei dolce si appiglia;
Ella pavida in atto, al vergin grembo
Restringe i veli, e al suol figge le ciglia;
85E qual fussia gentil, che dopo il nembo
Scote la pioggia, e al Sol più s’invermiglia,
Stillante di pudor la faccia bella,
Senza il fronte levar, così favella:
— Stranier, qual che tu sii, dolce e cortese,
90Benchè nuovo ed ardito, èmmi il tuo detto;
Deh! chi mai la possente arte ti apprese
Del suave parlar, ch’apre ogni petto?
Ben questi alberi muti e le scoscese
Rupi verrían commossi a tanto affetto,
95E amor risponderían, d’amore istrutti,
Le dure querce e gl’infecondi flutti.
Ma qual amor vuoi tu, ch’apra e rallegri
Il fior di questa mia povera vita,
Se le gioie del mondo e i giorni allegri
100Par ch’abbian del mio cor la via smarrita?
Qui passan gli anni miei romiti e negri,
E m’è la speme del morir gradita;
Chè sol di là da quest’oscuro esiglio
Vede l’anima un porto e un astro il ciglio. —
105Tal parla, e in verginale atto la faccia
Volge, e il respinge, e move gli occhi in giro,
E minacciar volea, ma la minaccia
Le morì su le labbra in un sospiro.
Ebbro, anelante, con aperte braccia,
110— Ah! no, risponde il Pellegrin deliro,
Tu, che sì bella e sì pietosa sei,
Senza luce d’amor viver non déi.
No, non fia ver, che senz’amore al mondo
Volga tua vita abbandonata e sola,
115Qual pèrsa gemma ai neri flutti in fondo,
Qual bianco giglio in solitaria aiuola:
Quant’alto è il cielo, e quanto il mar profondo,
La forte ala d’amor penetra e vola;
Nè tu vorrai, leggiadra e debil tanto,
120Chiuderle il petto, e dar la vita al pianto.
Mira intorno, o fanciulla: ombra ed albore,
Raggio di sole e manto irto di neve,
Vol di farfalla e profumo di fiore,
Tutto passa così rapido e lieve;
125Tutto è breve quaggiù, fuor che il dolore,
E l’istante d’amor forse è il più breve;
Oh! la vita e l’amor, cara fanciulla,
Il tutto è un’ora, oltre quell’ora è nulla.
Amiam, fanciulla, amiam: sia piano o monte,
130Sia valle o mar, vivrem l’un l’altro appresso;
Non v’è serto miglior d’un bacio in fronte,
Non v’è laccio miglior d’un primo amplesso;
Ci specchierem dentro alla stessa fonte,
Sognar potrem sovra il guanciale istesso;
135Come ad olmo consorte edera o vite
L’alme unirem sovra a le bocche unite! —
Disse, e acceso negli occhi e in atto strano
Chiuse le aperte braccia, e i labbri porse;
E un’armonia suonò per l’aer vano,
140Ch’armonia parve, e baci erano forse.
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(pag. 85)
Sorto era il sole intanto, e dal sovrano
Balzo a schiarar quelle due fronti accorse;
E negli occhi dell’un, qual fior in lago,
Specchiar l’altro mirò la propria immago.
145V’è una pianta gentil, ch’alma e giuliva
Di bei fiori non è, non è di foglie,
Ma al tocco sol, come se fosse viva,
Tutta in sè si restringe, e si raccoglie;
Nome il volgo le dà di sensitiva,
150E senso di pudor certo essa accoglie,
Chè tutto, che del Sol si scalda al raggio,
Ha virtude d’amor, senso e linguaggio.
Tal divien la fanciulla; e il ciel sereno
Erra co’l guardo, e incerta pende, e geme;
155Ed agli urti del cor le ondeggia il seno,
E il cor le fugge alla risposta insieme:
— Stranier, caro stranier, per questa almeno
Secreta ambascia, che m’affanna e preme,
Deh! per questa ti prego alma soletta,
160L’onore, il pianto, i sogni miei rispetta.
Deh! se fido è il tuo dir, la mente fida,
Se all’ardito voler tua possa è uguale,
Fa’ che scorra da’ regni aurei dell’Ida,
Nuova di giovinezza onda immortale;
165Fa’ che amico alle Muse il ver sorrida;
Che men funesto a noi vibri il suo strale;
Che a questa vecchia gente infastidita
Riedan le Grazie a rifiorir la vita!
E se tanto non puoi, dammi che a questa
170Terra, che non m’intende, alfin m’invole;
Ch’io mi scevri da tanta orda molesta,
Che sepolta nel ver l’anima vuole.
Oh! ch’io torni de’ miei sogni alla festa,
Ch’io mi confonda in un raggio di sole,
175Ch’io naufraghi coi miei poveri numi
In un mare di luce e di profumi! —
― Oh! no, vieni, amor mio, vieni, ei rispose,
Co’l Sol nascente e i rugiadosi fiori,
E alle fole, che il reo mito compose,
180I nostri involíam superbi cori:
Il trono dell’amor son queste rose:
Tutti son nella vita i suoi splendori;
È qui sovra la terra il ciel che agogni,
Qui nelle braccia mie tutti i tuoi sogni!
185Vivi alla terra e a me: vivi al governo
Di questo amor, che fiamma è del pensiero,
Di questo universal giovane eterno,
Ch’è lume sol fra l’intelletto e il vero;
Egli ombra e luce, ei paradiso e inferno,
190Tempo ed eternità, verbo e mistero,
Principio e fine del mortal cammino,
Fede, legge, virtù, vita, destino.
Vieni con me; per l’infinita via
L’ozio non poltre, e non sbadiglia imene;
195L’opra e l’amor son la ricchezza mia,
Mio cibo il ver, la libertà il mio bene:
Aquila altera per l’aria natia
Al Sol va incontro, e schiva è di catene;
I nembi sfida, i turbini sovrasta,
200Libera muor; la libertà le basta.
Noi liberi così, per vario corso,
Correrem, cimbe audaci, il mar crudele,
E il dio, che non indarno ha l’ali al dorso,
De l’ali sue ne rifarà le vele.
205A lui, che sdegna, e sia pur d’oro il morso,
Piega, o dolce fanciulla, il cor fedele;
Chè, finchè l’occhio ha un guardo e il cielo un riso,
Ei solo è il Dio, la terra è il paradiso! —
Ed Ebe amò. Fatto più forte e puro
210Gioì l’eroe, che ben conobbe il segno;
Lampeggiò tutto al suo sguardo il futuro;
Splender mirò della Ragione il regno;
Vacillò dell’error l’idolo impuro;
Svelto il Nume dal sonno arse di sdegno,
215E, vòlto il ciglio a quella parte e a questa,
Empio ognun trova, e a fulminar si appresta.
Sconosciuta fra tanto alla ventura
L’innamorata coppia oltre cammina,
E or d’un còlto villaggio entran le mura,
220Or cercano la valle, or la collina;
Posan or su la sponda, or nell’oscura
Selva, e pronubi han gli astri e il ciel cortina:
La vita, il mondo, il ciel tutto è un accento
Per essi: amor; l’eternità un momento.
225Ma poi che sovra a lor dieci albe e sei
Le nitide versâr perle dal crine,
Fra il saronico golfo e i flutti egei
Il sacro attico suol videro alfine;
E, i beozj varcati e i monti onèi,
230Le cecropie toccâr mura divine,
Che avean, benchè or le copra oblio profondo,
Sfidato il cielo ed abbracciato il mondo.
Siede Atene nel mezzo, e a lei nel grembo
L’urne riversa il vigile Cefiso,
235Ove, caro alle Dee, su ’l doppio lembo
Crescea corone un dì l’aureo narciso.
Qui al Sol torreggia acuta, e sfida il nembo
La pelasgica rupe appo l’Illiso,
Or rupe incolta, ma d’illustre prove
240Già campo alla fatal figlia di Giove.
Di pentelici marmi, in su la cima,
L’inconcusso delubro alto sorgea,
E d’opre egregie e sagrificj opima
Ivi ebbe l’ara la terribil dea:
245Fra l’argive falangi inclita e prima
Sovente essa l’invitta asta scotea;
E al lampo sol del venerando aspetto
Venía prode ogni vil, rupe ogni petto.
Ma, se scevra dell’armi, ond’era onusta,
250Temprate in Lemno a le celesti incudi,
E libera dell’irto elmo l’augusta
Fronte splendea fuor dei funesti ludi,
Nell’alta d’Erettèo sede vetusta
Spirava il riso di men ferrei studi;
255E a l’ombra del vocal delfico alloro
Venían le Muse, e s’assidea fra loro.
Tra i ruderi famosi e le dirute
Moli anch’ei venne un giorno il mio titano;
Pensieroso guardò l’are cadute
260E dell’abbandonata àgora il piano
E il monte del tremato Are e le mute
Stoe d’Academo e l’Erettèo sovrano;
E d’un dio su la testa infranta e nera
Umor versò, che nèttare non era.
265Sorge la notte; ei là, presso al Pecile,
S’asside; Ebe è con lui. Sparuta e scema
Pende la luna, e sovra a la gentile
Bionda testa di lei sorride e trema.
Pensoso egli è più dell’usato stile;
270È in lei mestizia, oltre ogni dir, suprema;
Chè nuotando le vanno incerte e scure
Cento memorie in cor, cento paure.
Sovra i ginocchi ei se l’asside, e cuna
Del sen le fa con le protese braccia;
275E ad ogni aura ei la bacia, e per ognuna
De le stelle del cielo essa l’abbraccia.
Velò la fronte ipocrita la luna,
Chè tanta voluttà par che le spiaccia,
Come vecchia pinzochera far suole
280Al caro suon di lubriche parole.
Disse alfin la fanciulla: — Oh! se sapessi
Che paure ho nel core! Ai giorni miei
Ricchezza altra io non ho che i nostri amplessi,
E amore e vita ed avvenir mi sei.
285Se un giorno abbandonar tu mi dovessi,
Come rondin deserta io mi morrei,
Io mi morrei così! — Tacque, e gli avvolse
Le braccia al collo, e il freno al pianto sciolse.
Poi riprendea piangendo: — Era fatale
290Quest’amor, più di te, più di me forte;
Pria mi concesse e poi mi bruciò l’ale,
E infranse e ribadì le mie ritorte.
Sento che tu non sei cosa mortale,
Ma nelle braccia tue sento la morte;
295Nel foco dei tuoi baci il cor si strugge,
L’alma s’eterna, e il viver mio sen fugge. —
Non risponde colui: torbido, immoto
Per le tenebre lunghe il guardo intende;
Chè un agitar di strane ombre e un ignoto
300Di larve brulicar l’aria comprende:
Rizzansi i sassi, i marmi, e van pe ’l vuoto,
E incerta su di lor la luna splende;
E a lui d’intorno in apparenze strane
Prendon fogge e sembianze e voci umane.
305Parla un’ombra così: — Socrate fui,
E tra’ mortali un’altra volta io vegno,
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(pag. 92)
Chè contro a questi nebulosi e bui,
Che mal di saggi han nome, arde il mio sdegno.
Solo del vero io parlerò, di lui,
310Ch’unico iddio su la natura ha regno;
E, perchè al fronte suo l’ombra sia tolta,
Beverò la cicuta un’altra volta! —
Dice un altro fantasma: — Al vulgo iniquo,
Che tanto omai del suo poter presume,
315Tal esempio darò, che da l’obliquo
Calle il ritragga d’ogni rio costume;
Chè ove manca a virtù l’ossequio antiquo,
Splender non può di Libertade il lume;
E ognun, che insorga al patrio onor rubello,
320Sappia ch’io vivo, e Focíon m’appello. —
— O voi, dice una terza ombra, ch’eletti
Siete in terra a portar le regie some,
Al patrio ben primi volgete i petti,
E le stranie falangi allor fien dòme.
325Codro son io; dei popoli soggetti
Fui padre, e l’aureo serto ebbi a le chiome;
Ma la Grecia a salvar, gittai con forte
Animo il serto, ed abbracciai la morte. —
S’avanzarono altr’ombre. A la fanciulla
330Su le stanche pupille il sonno scese,
Mentre la luna a la campagna brulla
Un ultimo piovea raggio cortese.
Vigile, con inqueto animo sulla
Terra le membra il pellegrin distese:
335E al dileguar de le notturne larve
Novo prodigio in su ’l mattin gli apparve.
Mostro ei mirò, che lungo e macilento
Viengli incontro per tòrto aspro sentiere:
Come punta di falce adunco ha il mento,
340D’asin le orecchie e il naso ha di sparviere;
Due ali smisurate agita al vento,
Intrecciate di scope aride e nere;
Gambe ha di ragno e membra irsute e viete,
E su la testa un gran cappel da prete.
345Qual trampolier, che dalla ripa a un tratto
Dentro al placido rio salta e gavazza,
Tale intorno al giacente agile in atto
Balla quel mostro, e per l’aria svolazza;
Gracchia qual corvo, miagola qual gatto,
350Sbuffa, ride, saltella, urla, schiamazza;
Or tentenna, or sgambetta, or gira e aleggia,
E così lo deride e lo sbeffeggia:
— Questo dunque è l’ardir, questa la possa,
Di cui tremar dovean l’alme e le stelle?
355Così la fede dei mortali hai scossa?
Così fatta hai la terra al ciel rubelle?
Oh! lotte, oh! pugne, onde ogni zolla è rossa!
Oh! il gran trofeo d’una fanciulla imbelle!
O eroe della ragione, o re dei forti,
360Torna meglio a regnar fra l’ombre e i morti! —
Si sdegnò, balzò in piedi, al dir beffardo,
Lucifero, e fremendo il pugno strinse,
Minaccioso rotò d’intorno il guardo,
Vide Ebe, e di pallor muto si tinse.
365Poi chinò il mento al petto, e mesto e tardo
Mosse, e il destin più che il suo cor lo spinse,
Mentre avvolta nei suoi sogni fallaci
Nuovi amplessi ella sogna e nuovi baci.