Lezioni accademiche/Lezione ottava

Della Fama.
Lezione ottava

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DELLA FAMA

LEZIONE OTTAVA.

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Acco l’inventor delle Corone, e come vogliono Plinio, e Diodoro, ritrovator della Medicina, e dell’arte mercantile, Capitano prudentissimo, e insaziabile di gloria; Bacco il primo trionfatore del Mondo vinto, che trascorsa con passaggio trionfale l’Europa in parte, e l’Asia tutta, non finiva le glorie, se non gli mancava la terra; l’uccisore de’ Tiranni, il domatore dell’Oriente, il severissimo Legislatore, e punitore dell’ebrietà, vien tradito oggi, e assassinato dalla Fama.

E per qual causa un Eroe così valoroso non sa dipingersi [p. 54 modifica]in altra maniera, che con modello Carnovalesco, il forma di un grassaccio rubicondo, con ampia tazza in mano, con occhi gonfi, e colla pancia arcata? Appunto come se il fulmine delle guerre, fosse stato un professore di brindisi, e d’ubriachezza. E quelche è peggio, allora stimano d’aver fatta la più bella di tutte l’invenzioni, i Carri delle Mascherate, e l’Insegne dell’Osterie, quando con testa grossa, e vacillante, abbiano finto sostenuto da Satiri, a cavallo d’una gran botte, un Bacco imbriaco.

Questo tradimento di fama ingiusta, m’ha fatto in questi giorni applicar la mente con qualche curiosità alla considerazione rigorosa della fama. Ed essendomi sovvenuto qualche pensiero frivolo, ma stravagante, ho stimato mio debito proporlo con umiltà, al purgatissimo giudizio di questa dotta Accademia, come a pietosa madre, e nutrice del mio ingegno, senza la di cui approvazione, non porgerò mai l’assenso ad alcuna, benche probabilissima, mia opinione.

E qual più degna opportunità poteva giammai rappresentarsi, per discorrer dell’applauso, e della fama, mentre siamo in una Adunanza dove per l’eternità si lavora, sotto ’l patrocinio, e gli auspici dell’Altezza Vostra Serenissimo Principe, il cui nome già prende un nobil possesso, degli applausi di tutta la futura posterità? Se altri, o per la sola potenza, o col semplice patrocinio delle lettere, è stato fatto degno dell’immortalità del nome, che trionfi di gloria dovranno sperarsi per un Grande di nascita Reale, nutrito nel grembo della potenza, benemerito della fama, che onora le virtù, e le scienze, non solo col patrocinio, ma ancor col possesso? Qual altro ragionamento poteva in questi giorni venir più a proposito, che il trattar della fama? Mentre la commozione de i Popoli d’Italia nel riverir l’Eroe della Toscana venuto dal Settentrione, ha dimostrato quanto possa negli animi umani, quel sublime concetto, che si forma dell’altrui valore. E che avete, o Popoli curiosi, che con sì frettolosa avidità trincierando le strade, e preoccupando le piazze, accorrete per conoscere presenzialmente, un viso non più veduto? Quale attrattiva tanto efficace vi muove, a porgere ossequi cordiali, ed a sparger benedizioni tanto affettuose, sopra una testa, che forse appresso di voi, non ha sorta alcuna [p. 55 modifica]di benemerito? Certo null’altra, fuor che la fama d’un nome trionfale, e il concetto d’un valor grande, quale per tanti anni abbiamo sentito dalla marzial Germania, e dall’Europa tutta, nella persona dell’invitto Piccolomini celebrarsi.

Ma io temo, Degnissimo Arciconsolo, Virtuosissimi Accademici, che nel progresso poi del discorso questo mio ragionamento sia piuttosto per dimostrarvisi, con apparenza d’invettiva satirica, che sotto specie d’encomio onorato, e favorevole per la fama. Certo è ch’io mi sforzerò di provare la fama dopo morte esser nulla, e per tutti i rispetti umani inappetibile. Insieme pretenderò, che dopo l’ultime esequie, tutti gli uomini sieno per divenir egualmente famosi. Sospendete di grazia le vostre giustissime riprensioni. Non è già vero, che simil proposizione debba atterire quelli, i quali lodevolmente operando, sono incamminati per la strada della virtù verso la gloria, anzi confido piuttosto sia per inanimirgli, e per affrettargli, acciò con isforzo anco maggiore, proccurino di conseguir i frutti della fama, mentre vivono, se però sarà vero, che la fama sia viva a i vivi, e morta a i morti.

Primieramente porterò l’argomento comune del volgo. Non è dubbio, che le cose, le quali non si sentono, e non si sanno, non possono immediatamente apportare, ne danno, ne giovamento alcuno. E che giovano adesso a me negli ardori della state, i freschi dell’aeree montagne di Norcia mentre per tante miglia remoto da esse mi ritrovo? Quanto mi furono giovevoli, già in tempo, ch’io dimorai su quell’Alpi col vostro dottissimo, e famosissimo Ciampoli, altrettanto mi sono disutili adesso, quand’io non ne partecipo più effetto, o porzione alcuna.

Credo pure, che questo punto sia per esser ammesso senza controversia, cioè, che molto meno altri debba curarsi in vita delle cose, che seguiranno dopo la sua morte, in tempi remoti, che di quelle, le quali vivente lui si fanno in paesi lontani. Mi par dunque, che colui il quale s’affatica per la fama futura, faccia l’istesso, che farei io, se con faccende, e vigilie indiscrete stando in Firenze, procurassi, o l’inondazione del Nilo in Egitto, o la serenità del Cielo nella China; cose che per esser sommamente remote da me, quand’ancora io le conse[p. 56 modifica]guissi, non mi possono apportar danno, ne giovamento. Così la fama ancorche egregia, la quale fusse per restar di me dopo la mia sepoltura, io non sò intendere per qual cagione, debba aver efficacia adesso di muover l’animo mio, mentre son vivo, ad allegrezza, o travaglio, a speranza, o a fatiche, o ad altre simili afflizioni di corpo, e di mente. Questo è l’argomento imparato veramente dalla plebe, ed appresso di me non ha molta forza.

Io mi dichiaro prima di passar più oltre, che non tratterò di quel compiacimento, che nel secolo dell’eternità sentiremo, per aver lasciata nel Mondo a’ posteri lodevol memoria di vita santamente spesa; imperoche io suppongo di parlar solamente di quella fama, la quale acquistandosi con azioni indifferenti, merito, o demerito non apporta, e per la quale par che la maggior parte degli uomini pecchi in eccesso di cupidità: tale sarebbe, per esempio la fama d’uno immortalato per sublimità di potenza, per lode di virtù, o militare, o morale, per possesso di scienze, o per gloria d’invenzioni.

Passiamo ora ad altri argomenti. Se io provassi, che la fama fosse nulla, anco ad un vivente, ma ignoto, tanto più poi sarebbe nulla per uno già sepolto; io non veggio, che l’effetto, e il frutto derivante dalla fama, sia altro, che quell’applauso de’ popoli nel riverir la persona famosa, mentre la vedono presente, o come presente se la concepiscono nel pensiero, quel mostrarla a dito con ammirazione, nominarla con lode, vederla con una certa specie di benevolenza non proccurata, ma quasi per ispontanea necessità dovuta a persone di gran merito, e di gran valore. Questa io per me credo, che sia la vera gloria, alla quale ciascuno dovrebbe infaticabilmente proccurar di pervenire in vita, senza punto curarsi di quella, che sia per rimanere dopo la morte. Ma quando poi si tratta di persone lontane, e non conosciute, si può piuttosto dire esser famoso il nome, che la persona.

Chi è stato quello, il quale in questo secolo avventuroso fin quì, per merito di saper molto, e per iscoprimento d’invenzioni grandi, abbia acquistato nell’Europa industriosa maggior fama, che il famosissimo Galileo? Niuno. Abbiamo ancor relazioni, che con maggior applauso di gloria si sentiva il ce[p. 57 modifica]lebratissimo nome di Galileo Galilei, nelle città oltramontane, ed in particolare d’Olanda, che in quelle della sua nutrice Toscana, e delle Provincie circonvicine. Ora se vogliamo conoscere quanto sia giovevole la fama de i viventi, ma incogniti, non vi dispiaccia investigarlo con una curiosa astrazione. Partasi il sapientissimo vecchio dalle Ville d’Arcetri, e comparisca improvviso nel popolato Amsterdam. Non occorre già aspettare, che alle porte della Città, o per le vie pubbliche, gli sia fatto un minimo segno d’onore, ne con invito cortese, ne con un guardo d’ammirazione, ne con un saluto, o altr’atto di civiltà, in testimonio d’onoranza.

Fin quì non è maraviglia, si tratta d’una Città, che è ripiena di varie Nazioni, e di negozianti occupati. Conduchiamolo alle porte dell’Accademia, dove si stà trattando dell’Arte importantissima del navigare. Si sa con quanti offici, e con quante promesse quei dotti Settentrionali, abbiano proccurato dall’acutissimo Mattematico le sue invenzioni, circa la Marinaresca, ed in particolare sopra le Longitudini. Entra il Galileo alla presenza di quelli, che ivi sono adunati, ciascun de’ quali nell’intimo del cuore ammira, e riverisce il gloriosissimo suo nome. Par che dovessero tutti innalzarsi, e con offici di prontissime accoglienze essergli attorno ad accarezzarlo, ed abbracciarlo come un Iride d’allegrezza, e un’Aurora di consolazione. Ma io m’immagino tutto il contrario. Mi par di vederli turbati, e alzati alcuni de’ più vicini, farsegli avanti con viso acerbo, e con linguaggio da lui non inteso addimandargli, che cosa voglia, e chi l’abbia fatto ardito d’entrar là dentro, appunto come s’egli non fusse quel famoso, ch’egli è, ma un vecchierello ordinario, incolto di corpo, e d’animo, com’egli appariva nel sembiante esteriore. Eccovi dunque provato, che la fama non serve a nulla. Odo subito una prontissima risposta la qual dice; perche non lo conoscono. Ed io soggiungo. Se quelli, i quali lo vedono presenzialmente, non lo conoscono, come faranno poi a conoscerlo quelli, che son per nascere di quì a mill’anni? sento replicarmi l’onoreranno senza conoscerlo. O questo sì, ch’io affermo esser veramente impossibile. Dimostriamolo manifestamente nel caso immaginato dell’Accademia Olandese. Mi dite voi, che ciascuno di [p. 58 modifica]quegli colà adunati, onora il Galileo, e non lo conosce. Ed io vi provo, che niuno di quegli onora il Galileo; perche quando comparisce egli stesso alla presenza di tutti, nessuno lo riverisce. Adunque è necessario, che ciascuno avesse in testa sua qualche fantasma figurato pel Galileo (siccome l’abbiamo tutti delle persone famose antiche) al quale concedeva quelle lodi, e quelle onoranze, che al vero, e reale Galileo si convenivano. Così in cambio d’esser onorato il famosissimo vecchio, veniva ingiustamente ad onorarsi un simulacro, che di lui non aveva ne anco la simiglianza.

Non vorrei che si prendesse un equivoco, anzi un errore pur troppo manifesto, e nondimeno molto usitato. La fama, siccome io diceva, per mio credere, non dee esser del nome chimerico, ma della persona reale, o almeno d’un concetto nella nostra apprensione, il quale alla vera, e real persona si conformi, e s’assomigli. Chi non sa, che il nome degli uomini è accidentale, posto ad arbitrio, che può levarsi, mutarsi, alterarsi in molti modi, senza mutar punto l’identità della persona, che da esso vien significata. Io goderei sommamente quand’io fussi tra una comitiva di cent’uomini onorati, e che il popolo mostrando me solo a dito, dicesse ecco là quel valentuomo, che ha fatto tante belle statue, o che ha riportato sì gloriose vittorie. Queste sono le vere, e pregiabili onoranze, che appartengono alla persona. Ma dopo morte io non mi curo punto, che sieno celebrati, e volin per le bocche degli uomini coll’applauso delle Nazioni quei caratteri, che compongono il nome piuttosto del Torricelli, che d’Atabalippa. Avrei per caro (per dir un impossibile), che i secoli avvenire formassero concetto aggiustato del mio corpo, del mio genio, e di tutto me stesso, e concedessero piuttosto la venerazione nel lor pensiero a un Mattematico di Firenze, che ad un Re dell’America.

Che diremo adesso dell’infamia? Guai a noi, o Accademici, degnissimi di lode sempiterna, guai a noi se negli annali della memoria si registrassero altrettanti nomi macchiati d’ignominia, quanti son quelli coronati di gloria. Volle, cred’io, la provvidenza della Natura suggerire al costume degli uomini, che nel catalogo della fama non si arruolassero i nomi de[p. 59 modifica]gli scelerati, se non rarissimi, non già perche colle colpe non abbiano dal canto loro meritata l’eternità dell’infamia, ma sì bene per provvedere all’innocenza de’ buoni. Venghiamo all’esplicazione. Certo è, che nel corso di pochissimi anni paghiamo tutti il debito naturale della mortalità; dopo l’esequie nostre, e di coloro, che vivi ci averanno conosciuti, se ne va quel concetto, o vogliam dir, quella specie ideale di ciascuno, nella gran massa, e confusa, di tutte le creature, che sono state, che non sono state, e che anche non saranno giammai. Col progresso poi degli anni s’appresenta in un popolo un’opportunità di flagellare con implacabil Filippica uno scelerato antico, per esempio, Catilina. All’udir quel nome, il concetto degli ascoltanti, non vorrà già fermarsi in quei pochi caratteri, che lo descrivono; ma subito vola coll’immaginazione, ed estrae dall’immensa massa de’ modelli umani un fantasma, che paja a proposito per figurare quel traditore della patria; e si forma un Catilina ne’ ripostigli della testa, quale si pensa, che già fosse quello nella Città di Roma. Crediamo noi Accademici, che mai nessuno se lo immaginerà per appunto tale, qual’egli veramente fu? Io per me difficilmente lo credo. Può ben essere (e siamo sottoposti tutti a quest’obbrobrio) che nel formarsi tanti, e sì diversi concetti, intervenga molte volte, che altri in cambio d’un Catilina concepisca un Curzio, in cambio d’un Nerone s’immagini un Augusto; per un empio, vizioso, e traditore, un buono, un virtuoso, un fedele.

Non sia di grazia alcuno, che si prenda maraviglia di così stravagante argomento in questo giorno, poiche confesso liberamente, che parlo in causa propria, ed ecco l’altro punto proposto. Che tutti gli uomini dopo morte sieno per divenire egualmente famosi. Io fo conto d’andarmene da questa vita senza lasciarci [per colpa del poco talento della mia inabilità] vestigio alcuno durabile di esserci mai passato. Non già per questo diffido punto di dover esser anch’io famoso al par d’ogni altro, per celebre, ch’egli si sia. Si loderà dalla fama decrepita degli anni futuri, Achille, Alessandro, Annibale, Cesare, si dirà d’Omero, di Virgilio, di Platone, d’Aristotile, e di tanti altri uomini celebrati, ed illustri. Gran disgrazia [p. 60 modifica]per certo sarebbe la mia, se nella formazione del concetto fortuito, fosse più fortunato, circa il venir nelle fantasie umane, il simolacro d’Achille, che il mio. Non vale il dire, tu non hai quel nome, tu non hai fatto quelle prodezze mirabili, quelle azioni virtuose, quell’opere degne d’eternità. Perche io vi confesso di non aver quel nome, ne quei meriti, e di non aver fatto quell’opere, ma pretendo, che la mia persona dopo la morte sia per correre nelle teste degli uomini la medesima fortuna con gli Eroi, e co’ Semidei; e dico, che dalla posterità vivente saranno sempre attribuite a caso, per non dire a rovescio, la lode, ed il biasimo, a persone, che forse ogni altra cosa avranno meritato, fuor che quella, che gli sarà conceduta. In somma parmi di vedere nelle teste degli uomini, apprensioni, che con errore non volontario, ma inevitabile, esaltano Marrani, scherniscono Grifoni, onorano le Taidi, vilipendono le Lucrezie. Povero Alessandro. Parvi forse, Accademici, ch’egli abbia conseguito quel fine, per il quale si mosse ad intraprender così perigliose, e malagevoli imprese? Vediamo qual fosse il suo fine. Io mi pensava una volta, che l’intenzione del fiero giovine, fusse d’accrescer l’Imperio con dilatare i confini del Regno al pari di quei del mondo: o pure d’accumular tesori, saccheggiando gli erarj della Persia, e di tutto l’Oriente; ovvero di sfogar il genio della gioventù instabile, con pellegrinaggi lontani; o gli incentivi dell’età focosa colle Regine fatte prigioniere. Ma i tesori erano da lui sparsi con prodigalità; de i Regni erano alle volte maggiori i donati da lui, che i tolti.

E le Regine schiave, a si bel cuore,
Fur materia di gloria, e non d’Amore.

Ritrovai finalmente detta da lui medesimo la cagione del suo gran movimento. Alza una volta la voce in Quinto Curzio contro quel suo prigione di Licia, il quale esagerava la difficoltà delle strade alpestri, che passar doveva per esequir un’impresa. Pensi tu forse, che per quei sassi dirupati, dove hai potuto gir tu per causa d’armenti, Alessandro per la gloria, e per l’eternità della lode, non possa andare? Questa lode, e questa gloria immortale per cui tanto s’affaticò il celebrato Re della Macedonia, a chi vien ora per vostra fe attribuita da [p. 61 modifica]i posteri del secolo lontano? al nome d’Alessandro? No, perche il nome essendo un semplice accozzamento di caratteri, o al più una tal formazione di voce, si rende totalmente indegno di lode, ed incapace di biasimo. Al concetto della persona immaginata? O questo sì. Ed io, quanto a me, mi figuro un giovane di genio reale, ma feroce, di statura piuttosto piccola, d’aspetto mediocramente maestoso; e quello dentro me stesso ammiro pel grande Alessandro, ogni volta che leggo le storie. Se poi così fusse Alessandro, o piuttosto Efestione, ovvero un altro giovane di cento anni fa, ovvero che anche abbia da essere, io non lo sò.

Il sapientissimo della Grecia Platone, nella seconda lettera al Tiranno Dionisio, par contrario a queste mie speculazioni, ed in effetto è favorevole. Dice il gran Filosofo, che non dobbiamo in alcun modo trascurar la fama, che di noi è per restar nel Mondo dopo la vita, ma con ogni studio, e diligenza dobbiamo proccurare di lasciarla grande, e buona. L’istesso hanno detto tutti gli altri antichi, e moderni, che hanno avuto chiarezza nell’intelletto, ed onore nel cuore. Io non dissi, che la fama non debba lasciarsi dopo morte; ma asserisco, che essendo inutile, e incerta quella, che dopo morte nel Mondo rimane, si dovrebbe con ogni fervore proccurar di goder la gloria anticipatamente in vita; che così conseguirà a’ frutti dell’onorate fatiche, non un simulacro suppositizio, ed indegno, ma la vera, e real persona, che l’ha meritato: e poi anco resterà dopo la morte quella fama postuma nel Mondo, per chi la desidera. S’io ragionassi ora in altro luogo, che in questo, venendo all’applicazione del discorso, esorterei gli ascoltatori, ad affrettar con ogni studio possibile l’acquisto della gloria. Ma ritrovandomi in una udienza, dove con assiduità d’azioni virtuose, la gloria non s’acquista, ma s’assicura, e s’accresce, posso con legittima scusa risparmiarmi la fatica della perorazione.