Lettere (Sarpi)/Vol. I/45
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XLV. — Al signor De l’Isle Groslot.1
Li discorsi che V. S. fa nella sua delli 13 novembre circa il Giubbileo, siccome procedono dall’ottimo suo affetto verso il bene di questa Repubblica, così sono verissimi. Non ha dubbio alcuno, il fine essere stato per dare una conferma alli loro aderenti, e per acquistarne; e appresso, per procurare di acquistare quanto si può le scritture e libri che non piacciono loro. Non vi è dubbio che alcuna di queste cose non sia ad essi venuta fatta. Li confessori conspiranti con Gesuiti hanno ottenuto da qualche persona leggiera le cose scritte a favore della Repubblica nelle occorrenze passate, qualche Bibbie volgari e altri libri perseguitati da loro. Il male però non è stato tanto grande, quanto le persone prudenti dubitavano.
Occorse questo particolare: che un senatore assai semplice, il quale teneva grand’amicizia con Antonio Quirino, fu ributtato dal confessore, per ricusar d’abbruciare il suo libro. Il Consiglio de’ Dieci comandò che il frate immediate partisse da Venezia, e fra due giorni dallo Stato; come partì, e ridotto in Mantova, supplicò di voler mostrare la sua innocenza: li fu concesso salvocondotto di presentarsi alle prigioni; si presentò, e fu rimesso, dopo essere stato udito, in carcere del suo monasterio, dove sta ancora. Occorrono qualche cose contrarie, ma anco alcune prospere. Dopo la composizione, sono stati imprigionati più di trentasei ecclesiastici; de’ quali alcuni vi restano ancora, altri sono posti in galera, altri sbanditi. Non si fa quanto si dovrebbe e potrebbe, ma si fa bene molto più di quello che comporta la presente debolezza del nostro corpo. Non vede V. S. quello ch’è avvenuto alli Stati, quando hanno ammessa trattazione? A quelli che sono savi e ben intenzionati, conviene procedere con molta destrezza, nè guardare solo che medicina ricerca il male, ma più tosto qual può sopportare la debile complessione dell’infermo. A me pare che si facciano miracoli.
Del mal animo del papa ogn’uno è chiaro; ma non tutti hanno in sospetto le cose di Spagna, e molti anco la sostengono occupata altrove.
Quanto al mio particolare, a cui alcuno mi esorta, non manco (quanto però si può), senza superflua sollecitudine. Quella segreta prigionia del Poma mi fa pensare che qualche occulta macchina sia maneggiata. Tentano questi romaneschi con tutte le arti di acquistare li nostri ecclesiastici che si sono mostrati servitori del principe. Non sono esente, so bene. Io ho di buon luogo che non sperano d’avermi, salvo che con li pugnali. Hanno acquistato l’arcidiacono, il quale era vicario patriarcale nel tempo delle controversie. Altemps di presente se n’è partito fuggitivo per Roma. Quanto alla persona, l’acquisto è leggerissimo; ma per riputazione pubblica molto dispiace. A Fra Fulgenzio non fu troppo pensato, perchè egli non era ministro pubblico nè stipendiato. A quello2 nelle occasioni passate fu comunicato qualche cosa pubblica, e fu condotto al servizio. Certo è che, per sovvertirlo, sono state adoperate minacce e promesse, e più quelle che queste. Il buon vecchio ama la vita, di perdere la quale l’hanno accertato col mio esempio. Ma egli aveva in questa città, tra la provvisione pubblica e altri guadagni che li somministravano alcuni offici, ducati settecento: vedremo che cosa averà in Roma. Sino al presente li fuggitivi sono stati frati, che in Roma sono trattenuti nelli monasteri: questo non so come sarà trattato. Dio faccia che prosperi, se bene l’azione fatta da lui è molto infame.
L’avviso che il re d’Inghilterra sia per aiutar li Stati non si verificherà, anzi tutto in contrario è risoluto egli di abbandonargli affatto. Quella maestà è molto diligente nelle materie di lettere: s’intende che venga fatta risposta al libro che, sotto nome di Matteo Torti, è stato scritto da Bellarmino e altri Gesuiti, con quello che uscì d’Inghilterra Triplici nodo;3 e nelle cose sostanziali credo sarà ben difeso il primo trattato, non però in tutto, essendovi delle cose contrarie alla verità dell’istoria. Ma questi Gesuiti la vogliono... Hanno stampato un libro intitolato: Catalogus illustrium virorum Societatis Jesu; mettono il nome di tutte le loro case e collegi, e anco di quelli che avevano nello stato di Venezia; e questi li hanno segnati con l’asterisco, e scritto sotto l’asterisco: notata nondum recuperata sunt. Se dicono ciò nel voto che vogliano tornarci, sono molto arditi: ma forse Dio farà per noi, e io lo spero.
Ho ricevuto dall’Haia l’istruzione scordata a studio da Richardot, in stampa; e siccome credo e tengo sia stata lasciata a questo effetto proprio acciò essi la pubblicassero, così vorrei che non l’avessero fatto. Si dovrebbe aver in sospetto ogni atto del nemico; e sebbene non si veda ragione, operare contro quello che da lui è disegnato.
Ricevei dal signor Castrino, come credo aver scritto a V. S., li Playdoyers, ma non il Franc et libre discours; e giuro che il signor Castrino l’avrà ritenuto, perchè alcuni spacci innanzi con certa occasione gli scrissi d’averlo.
Le cose occorse tra Basilea e Lucerna sono cattivi semi, e potrebbono pullulare in qualche dissensione tra quella nazione: il che Dio non voglia.
La materia da trattare imposta al signor di Vigniers, mi pare che consista tutta in esposizione della Scrittura divina e osservazione dell’istoria: e in questo particolare ho veduto de’ buoni libri, onde credo di non saper cosa che quel signore non sappia. Particolarmente credo avrà veduto una esposizione dell’Apocalisse, fatta da un inglese o scozzese e tradotta in Francia; assai buona, per moderna. Io ricorderei a quel signore di mettere la correzione della scrittura divina fatta da Sisto V; opera ch’esso stesso faceva dopo il desinare. Il ritratto ancora del presente papa, del quale ebbe una copia il baron di Dona. Potrebbe essere che il signor de Vigniers avesse bisogno di qualche informazione d’alcun particolare. Qui in Italia a V. S. offerisco quello che io posso, quando degnerà valersi di me. Quando io avessi cosa che solo potessi dubitare non esser noiosa a quel signore, la manderei senza differir punto; perchè le cose di qui non sono in stato, che possiamo pensar nella vita nostra poter mai scrivere sopra questo soggetto. Ma io non saprei dire salvo che cose communi e meglio note a quel signore: il quale io consiglierei che, per fare il suo libro più leggibile da ogni sorte di persone, trattasse il solo argomento suo, mischiando quanto meno sia possibile le altre cose controverse, acciò qualche parola che si potesse tralasciare, non fosse causa di distornare dalla lezione alcuno che non restasse per l’argomento principale. Avrò carissimo che per V. S. sia fatto noto a quel signore, che se li parrà aver bisogno d’informazione di qualche fatto occorso ovver occorrente qui in Italia, di altra cosa in che possiamo servire, vogli comandare liberamente.
Mi pare che V. S. usi troppo sollecitudine per me intorno i libri delli Gesuiti. Io la prego bene del suo favore, ma non voglio sollecitudine: solo quello che li occorre fare comodamente.
Nella Relazione, io non faceva se non superficial menzione delle cose passate ne’ Grigioni, che è uno delli particolari di maggior varietà e curiosità che sia passato. Ha voluto il signor Domenico4 ch’io lo particolarizzassi; e dubito di farlo tanto, che il corpo riesca troppo mostruoso, con questa parte troppo grande. È ben vero che importa grandemente al tutto, perchè l’impedimento posto in quel passo leva l’anima a molti: e io considerando il tutto insieme senza passione, non posso se non dire esser stato quello che diede il colpo per far l’accomodamento.
Questi ecclesiastici empiono l’Italia di scritture false; però avvantaggiando quanto possono il suo partito: il quale avendo l’evidenza del fatto contraria, quanto più è innalzato, tanto più s’abbassa. Non debbo esser più lungamente noioso a V. S.; per il che faccio fine, e li bacio le mani insieme col padre maestro Fulgenzio.
- Di Venezia, il 9 decembre 1608.
Note
- ↑ Fra le pubblicate in Ginevra (Verona), pag. 103.
- ↑ Cioè, al vicario. Vedi la nota 2, a pag. 154.
- ↑ Vedasi la Lettera XIX, e la nota 1, a pag. 59.
- ↑ La prima stampa ha Dominico; ma è chiaro parlarsi del patrizio Domenico Molino, deputato dalla Repubblica ad esaminare la Relazione composta, per ordine pubblico, dal Sarpi; e della quale, appunto per siffatto esame, ritardavasi allora la pubblicazione.