Lettere (Sarpi)/Vol. I/41

XLI. — Al signor De l’Isle Groslot

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XLI. — Al signor De l’Isle Groslot
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XLI. — Al signor De l’Isle Groslot.1


Ho ricevuto insieme le due di V.S. delli 17 e delli 30 ottobre, siccome ella ha previsto che doveva succedere. Alle quali rispondendo a passo a passo, dirò prima quanto al libro De studiis Jesuitarum, ch’essendo essi sottilissimi maestri in mal fare, è cosa credibile che le arti loro siino varie, come varie le regioni dove trattano: per il che, se bene rispetto alla loro conversazione in Italia si possi credere che non passino tanto oltre in mal fare, tuttavia li tengo per uomini che, se il loro bisogno porterà, siino atti a far cose peggiori ancora. Ma se l’autore del libretto confermerà quanto dice con riscontri che faranno apparire la verità manifesta, sarà beneficio universale.

Ho ricevuto Les Plaidoyers di Dolé, Chesnil e Arnauld, che mi sono stati gratissimi, non avendoli più veduti. Le franc et libre discours l’ho veduto, e l’ho appresso di me di già; siccome anco le [p. 143 modifica]suppliche delli Gesuiti fatte al re, e l’Apologia di Richeome,2 che mi pare appunto una risposta dell’oracolo per la sua ambiguità; e altre loro difese.

Resto molto obbligato a V.S. per tante fatiche fatte a mio beneficio, e spero mi darà il modo per ricompensarne qualche particella. Credo che il libro di Elia Assemullero,3 per quanto intendo, sii assai grande, e pertanto difficile da passar qua. Non vorrei che V.S. se ne pigliasse troppo fatica. Quello dell’Inglese è ben degno (come io giudico) per quale si usi qualche diligenza. L’apologia per Castel bisogna bene che sii una impertinenza. So che di là non si può imparar cosa buona; nè io dimandava se difende il fatto ovvero il diritto, salvo che per sapere sin dove gionge la temerità di questi nuovi santi. Mi piace di saper l’autore,4 se bene non dubito, che dalli Gesuiti venga il principio del moto di monsieur Aleaume.

Non vorrei il favore con tanto suo incomodo, come il copiar l’Astronomicon celeste. So che sarebbe fatica di molto tempo e di molta noia, essendo opera dove intervengono numeri e figure. Non mi conviene in modo alcuno, che per mia causa quel signore faccia così grande e noiosa fatica e consumi tanto tempo, che so per le occupazioni sue esserli prezioso. Io ricevo il favore per cómpito, vedendo sola la volontà; chè sarei assai impertinente quando accettassi l’effetto con tanto incomodo di persona qual debbo riverire, e alla quale vorrei dare parte [p. 144 modifica]del mio tempo, che so sarebbe meglio usato che da me, non che levarli il suo. Prego V.S. ringraziarlo affettuosamente per mio nome, e pregarlo insieme a farmi grazia solo di quello che può far copiare per mano d’altrui, e restar di occupare sè stesso nel rimanente.

L’assemblea tenuta costì ha operato molto col conservare le cose senza deterioramento. Non si può in questo tempo far cosa di meglio. L’elezione delli duoi deputati mostra che delli sei siino stati accaparrati li migliori; purchè ciò non sii fatto a studio per questa volta, acciò riesca più facile altrimenti un’altra. Ma frattanto passerano li due anni, e forse lo stato delle cose sarà migliore.

Dopo la partita di V.S. ho ricevuto sempre lettere di monsieur Castrino,5 il quale mostra nello scriver suo esser persona di sapere e giudicio esquisito; e io tengo molto obbligo a V.S., oltre tanti, per avermi fatto conoscere un tal gentiluomo.

Delle cose nostre e vostre, dirò, in una parola, che quel che succede tutto a favore dell’empietà, non ci debbe dar gran maraviglia, perchè è predetto dallo Spirito divino, e si effettua per adempire quella santa provvidenza. Dobbiamo compatire a chi è cieco, sebbene per sua colpa accecato. [p. 145 modifica]Ho osservato in tutte le cose mondane, che nessuna cosa più precipita nel pericolo, quanto la troppo gran sete di allontanarsi da quello. Credo, che il nostro male sii questo, e ne temo qualche sinistro successo. La troppa prudenza riscontra in uno con l’imprudenza stessa. Odo V.S. dire che ciò tocchi a noi, e lo confesso: dico nondimeno, che noi questa cosa fa restar dal bene, ma non induce al male: bensì più opera in voi, quali spinge alla rovina propria e degli amici: onde succede che facciate anco questo anno altrettanto male, quanto faceste già duoi. Io resterò attonito; ma confido in Dio, che non succederà.

Le cose di qui non vanno molto male, perchè li avversari ci tengono svegliati alquanto, e meglioreremo di sanità, se continueremo facendo così. Nel mio particolare, molto son occupato in una vanità, che è di guardarmi, e ne ho poca colpa; imperocchè io rimetterei facilmente il tutto in Dio, quando le prediche fattemi dagli altri non mi sforzassero a pensare. Ma è cosa grande, che venghi tentato fino di penetrarmi in camera.6 Stupisco la diligenza e l’accuratezza.

Già quindici giorni, in Roma, la corte andò nel palazzo delli Colonna a prendere il Poma; qual si difese, e ne succedè la morte d’un sbirro e ferite d’altri; e insieme fu esso Poma ferito nel ventre, e un suo figlio nella coscia. Stanno ora prigioni, parlandosi variamente.7 Io non posso intendere questi [p. 146 modifica]misteri: è necessario che qui sii occulta qualche arte, nè so vedere quale.

In quello che mi dice dell’instituzione del Delfino, delli quattro nominati, non dirò delli duoi intermedii, de’ quali non ho informazione; ma il primo credo che sappia poco, il quarto troppo; nè credo mai che li Gesuiti, senza quali non si verrà a tanta deliberazione, siino per consentire. Pare che troppo si tardi, mentre che il tempo scorre ad una cosa di tanto momento, quale è dar forma a chi doverà portar una tanta mole.

Non so se V.S. sappia che a Roma hanno deliberato e scritto a tutti li inquisitori per Italia, che siino avvertiti se capiti cosa alcuna scritta fuori contra Baronio, e attendino che in Italia non sii [p. 147 modifica]scritto: anzi, così religiosamente vogliono sostentare la riputazione di questo scrittore, che non permettono divulgarsi certi discorsi fatti in Spagna per difendere che san Giacomo abbia predicato in quelle regioni. Sarà quell’autore difeso con griffe e con denti; e dove non valerà l’arte, impiegheranno in difesa la forza, anzi la rabbia. Non consiglierei alcuno a trattar tale argomento, ma più tosto a dire le cose istesse sopra altro soggetto, per instruire quelli che sanno; essendo vano lo scrivere per li sedutti. Conviene più attendere al modo di insinuarsi a farli leggere, che ad altre cose. Ma in tutte le cose l’occasione è il principale, e fuori di quella tutto ci fa non solo infruttuosamente, ma anco con perdita. Quando Dio ci mostra l’opportunità, dobbiamo credere esser la sua volontà che ci adoperiamo: quando no, che stiamo aspettando con silenzio il tempo del suo beneplacito.

Quel registro delli Gesuiti è stato tanto desiderato, che prima di poter tornar in mano del padrone ha camminato per molte altre. Come egli lo ricupera, io lo averò, e V.S. ne riceverà parte. La prego scusare la tardanza.

Ho inteso l’indicibil danno che cotesto fiume ha causato, e insieme ho saputo che se bene V.S. non è stata esente, però non l’ha sentito grande. Ne ringrazio la Maestà divina, che se ci flagella, non ci mortifica. Spero che donerà a V.S. anco maggior grazie, sì come la prego continuamente.

Li avvisi che di Ungaria ci vengono, portano nuove non molto a proposito per la grandezza di Matthias; il quale se averà quel regno, ciò sarà più di nome che altrimenti. Già sono risoluti di [p. 148 modifica]eleggere il Palatino: prima vogliono che le fortezze abbino capitaneo e presidio ungaro; che li ecclesiastici siino esclusi dal governo politico; che li Gesuiti escano del regno; e quello che più che tutto importa, essere protettori dell’Austria.

Bisogna ben dire che quantunque delli moti eccitati da queste furie alcuno riesce a loro, molti ancora li tornano tutti in capo. Se la cosa di Donawert sarà vera, chè qua per ancora non ci è questo avviso, essa ancora susciterà qualche altro inconveniente.

Non m’avvedeva che passo li termini dell’onesto in occuparla: però farò fine, e le bacio la mano; il che fa ancora il nostro Fulgenzio.

Di Venezia, il 25 novembre 1608.




Note

  1. Edita nella raccolta di Ginevra ec., pag. 94.
  2. Gesuita, che scrisse più cose a difesa del suo Ordine e delle dottrine da esso professate.
  3. Vedi la nota 2 a pag. 101.
  4. Vedi la Lettera XXXIV, a pag. 115, e la nota relativa.
  5. Non si conoscono le risposte fatte da Fra Paolo a questo signor Castrino, calvinista francese; di cui, d’altra parte, ci scarseggiano le notizie. Il Pallavini, nella introduzione alla sua Storia del Concilio di Trento, dice a lui indirizzate le Lettere che il Bianchi-Giovini pubblicò sotto i numeri XX e XXIV delle date in luce da lui medesimo; ed egli (il Giovini) suppone dirette al Castrino anche molte fra quelle che, nella stampa di Ginevra, vanno sotto il nome del Groslot.
  6. I tentativi fatti contro la vita di Fra Paolo durarono per molti anni; e, a giudicarne dagli atti stessi della Repubblica, sembra si continuassero sino al settembre del 1612.
  7. Rodolfo Poma (mercante veneziano e fallito) fu uno, anzi il principale degli assassini che si erano sforzati di uccidere il Sarpi, la sera dei 5 ottobre 1607. Ecco come la costui cattura ci viene descritta dal Bianchi-Giovini, il quale racconta a dilungo i casi vari e infelici di codesti malfattori nella sua Prefazione istorica alle Lettere scelte del nostro Autore: “Ai primi di novembre 1608, per ordine del pontefice fu intimato al Poma che dovesse sgombrare lo stato ecclesiastico. Egli si era lagnato più volte dell’abbandono in cui lo lasciavano... Ora rinnovò le sue querele, e disse che non sarebbe partito se non lo soccorrevano. Gli furono offerti dugento ducati, e di mettere Ruffino, suo figliuolo di 17 anni, in un seminario di Roma. Non si contentò, gridò, si lasciò sfuggire parole indiscrete, e minacciò perfino (dicono) la persona del pontefice. Il bargello lo andò a trovare; la sbirrería di Roma circondò il palazzo Colonna, dove aveva sempre alloggiato, ed entrò dentro senza cerimonie. Poma e i suoi fecero resistenza: si venne alle archibugiate: suo figlio Giovambatista e un suo nipote restarono gravemente feriti: tutti furono presi, messi in carrozza e portati in carcere. Il figlio e il nipote di lì a qualche tempo furono lasciati andare; ed egli, condotto nella fortezza di Civitavecchia, finì arrabbiatamente i suoi giorni.„ (Pag. 71-2)