Lettere (Andreini)/Lettera XLVI
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Della Gelosia.
vedere di dove sia venuta per infestarmi. Ella non è al parer mio scesa dal Cielo, perche nel Cielo, non alberga sì crudo, e velenoso mostro. Ella non è uscita dell’Inferno, perch’ella nasce d’amore, e nell’Inferno altro non v’hà che odio. Ella non è uscita da solitaria Tana, o d’alcun’altro solitario orrore, poiche quest’iniqua non s’allontana mai dalla moltitudine delle genti, crederò dunque, che stanca, non dirò satia di tormentar il cuore d’alcun altro sfortunato amante, si sia da lui partita, solo per annidarsi nel mio, poi ch’io non sò vedere, che quest’empia, altrove habbia sua stanza, che nell’animo, e nel cuore de gli infelici amanti. Ohime, che questo mortifer’angue nascostosi trà i fiori delle mie contentezze tutte le ha morte, e tuttavia, non contento di ciò con la mano piena d’acutissimi stimoli, mi và tanto agitando, ch’io invidio lo stato d’ogn’altro per infelice, ch’ei sia, poich’io veggo dall’Hidra della mia miseria, sorger più capi, che rivi da un largo fiume, o faville, da un grandissimo fuoco. O pessima Gelosia com’è possibile, che nelle amorose fiamme possa tanto il tuo ghiaccio? ma (lasso me) benche tu gelata sia, nondimeno teco porti la face, come la porta Amore, e ’n un confondi e mesci e ’l fuoco, e ’l ghiaccio, ond’è, che ardendo, miseramente io tremo. Sì come dunque Megera, per quanto vogliono molti, diede la face ad Amore, così l’Invidia à te la diede, & ancorche l’Invidia stia ne gli animi vili, e tu più tosto ne’ regi, & ella sia figlia dell’odio, e tu dell’amore, nondimeno siete molto simili, poiche siete egualmente gelate, e pessime; e tu sì trista sei, che molte volte uccidi il padre, senza offender giamai la tema tua madre, e l’infelice cura tua nutrice: Sogliono (misero me) le altre creature, subito che hanno aperte le luci alla luce del giorno, nutrirsi di latte, e tu di lagrime ti nutristi, e quel nutrimento ti piacque tanto, che benche tu sij fatta grande a’ nostri mali ti vai tuttavia di quell’istesso cibo mantenendo, tu superi te medesima nel timore, e quanto più temi, tanto hai maggior forza, e tanto ti dispiace il bene quanto il male, tanto il vero quanto il falso. Tu da te stessa ti vai figurando molte pazze chimere; e nel dubbio cuore hai sempre un’infinita schiera di pensieri tra loro diversi, e contrarij, de i quali altri afferma il tuo dire, altri lo nega, onde mettono sempre in forse ogni tuo detto. Tu sei veramente maligna febbre dell’amore, e della speranza, e continuamente t’affliggi, non men di dubbia, che di certa pena, così inquieta, à te stessa noiosa, non che ad altrui passi infelicemente i giorni tuoi lagrimosi, senza poter in alcun tempo à tuoi dolori trovar conforto, poiche in compagnia del sospetto, e del timore, vai continuamente errando, ad ogni respirar, ad ogni voce, ad ogni volger d’occhi, ad ogni moto, & ad ogni motto ti conturbi: ma come vinto da sovverchia passione, volgo i lamenti à costei, che non m’ode; e se pur m’ode, gode (lasso me) delle mie querele, e se le prende in giuoco. Ritornando à voi Signor mio l’incominciato ragionamento, dico haver, colpa di questa amara gelosia, perduto ogni bene: Io come privo affatto di ragione, vorrei poter metter legge, non solo à i passi; ma à i pensier dell’amata mia donna. Io cerco sempre di saper l’animo suo, e s’ella il mi dice, penso tuttavia che m’habbia detto il falso; s’ella stà pensosa, credo, che stia così, per esser fastidita di me, se allegra, m’imagino, ch’ella habbia trovato il modo di liberarsi, se m’accarezza, penso, ch’ell’habbia in mente alcun’altro di me più avventurato, s’io l’abbraccio, s’io la bacio, non è senza dolore, dubitando, ch’altro amante, così habbia fatto, o così debbia fare, e procuro sempre di trovar, e di saper quello, che trovar, e saper non vorrei, et oltre à questo (nè mi vergognerò di dirlo à voi, che tanto amico mi siete) cado in questa leggierezza incredibile di portar invidia allo specchio, dov’ella si mira, e de gli occhi proprij di lei, son divenuto geloso, dubitando, che mentr’essi la scuoprono à lei stessa sì bella, non la facciano innamorar di se medesima. Desidero mille volte, ch’ella sia vecchia, e che sia più brutta d’un Mostro, perche ogn’un l’odij, & io sol l’ami. Vorrei, che fosse in necessità di tutte le cose, e ch’altri, che la mia prontezza non potesse, o non volesse aiutarla. Odio mortalmente, chi dice ben di lei, chi le s’avvicina, chi la mira, oh pensate chi l’ama. Quand’ella esce di casa, vorrei, che ’l giorno si mutasse in oscurissima notte, accioche alcuno non potesse vederla, attesoche mi pare, che non pur gli huomini tutti procurino di mirarla; ma e’ mi pare, che ’l Sol istesso raddoppi i suoi raggi, per poter meglio vagheggiarla. Quell’oro che l’adorna, mi ricorda quel, ch’è scritto di Danae, porto invidia all’aria, che à sua voglia entra, & esce da quella soavissima bocca, odio quell’acqua, che le bagna le mani, e la fronte, le spoglie, che la cuoprono, la camera dov’ella posa, la terra, ch’ella tocca, quel letto, che nuda la tien nel seno. O fortunato per tal peso, ben degno d’esser invidiato; ma più di qual si voglia altra cosa invidio, & odio il sonno, il qual baciando (com’io mi credo) chiude que’ bei lumi; nè di ciò contento, dentro v’alberga, e fatto amante geloso, anch’egli di così chiara luce, perche niun’altro la goda, soavemente chiusa la tiene, e se alcuna volta passando i termini del suo consueto, fa, ch’ella dorma, credo, che per altro nol faccia, che perche si scordi dell’amor mio, e della mia servitù. Quanti veggo passar, per la strada, dov’ella habita, tanti veggo nemici. Se sono vestiti di nero, subito dico, sono vestiti così, per dinotar fermezza nell’amor della mia donna; se di bigio, per farle conoscer gli amorosi lor travagli, se di violato, trà me stesso rodendomi, vò figurando, che sia per dinotar segretezza, se di verde, comprendo la speranza, che hanno di posseder il mio bene, se d’azurro, dico, ecco, che amando sono del mio Sole gelosi, anch’essi, e finalmente cosa non veggo, non m’imagino, e che più? non sogno, che fierissimamente non mi tormenti. Così hò l’animo pieno d’infinite sollecitudini, alle quali nè speranza, nè altro può dar conforto. L’aspetto dunque mio Signore, o dal vostro desiato ritorno, o da una vostra salutifera lettera. Piacciavi per pietà di tosto darmi o l’uno, o l’altro aiuto, se non che disperato di salute dubito di terminar miseramente la vita.