Lettere (Andreini)/Lettera III
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Dello Splendor della Luna.
tanta chiarezza? non son’io dunque così meritevole de’ tuoi favori, come son gli altri? chi merita più di me per lealtà? spietatissima notte, congiurata à miei danni, io t’hò dunque con tanta ansietà bramata, e nel passato giorno ti chiamai tanto, perch’esser tu mi dovessi sfavorevole? misero me, io pensai, ch’al tuo venire la Terra, e ’l Cielo si coprissero di velo oscurissimo; ma veggo la Terra in ogni parte chiara, e veggo il Cielo, che svelato con mille occhi mi guarda; e tu mutabile, e vagabonda sorella del Sole, mostri così i tuoi raggi, perch’io sia da ciascheduno scoperto? Havevi tu perfida Luna tanto splendore quando accompagnata dal silentio scendesti dal Cielo per vagheggiare l’amato Endemione? Deh amorosa Luna, io ti prego per quella dolcezza, che tu provasti nel vagheggiarlo, à perdonar alla ragion della doglia, & à nasconder trà le nubi il tuo bel lume, affine ch’io possa la mia bella donna vagheggiando provar l’istesso piacere, che tu provasti. Può esser, che tu habbi amato, e non vogli haver pietà di chi ama? non sai tu per esperienza, che i furti d’amore vogliono esser celati? perche dunque col tuo lume discopri i miei? ma mostra quanto à te pare l’argento della tua fronte, che non per ciò potrai fare, ch’altri sappia quei segreti, che passano trà Madonna, e me: e non contento d’haver con simili parole sfogato in parte l’animo mio, presi da scrivere, e scrissi queste righe, le quali vi piacerà di considerare, che considerandole comprenderete quant’io sia stato travagliato, poiche in vece d’haver la più allegra notte, ch’io potessi col pensiero formarmi, hò havuta la più lagrimosa, che potesse per accidente avvenirmi, e la sua luce m’è stata tenebrosissima, onde non meno l’hò pregata à sparire, che la pregassi à venire: e mentre pieno di lagrime di lei mi doleva, ecco l’Aurora aprir le porte del Cielo, perche se n’esca il giorno; e voglia Amore, ch’egli in parte restori i dispiaceri della passata notte, concedendomi, ch’i possa raccontar in voce con qual angoscia me l’habbia passata, e com’ella mi sia stata cagione non men di noia, che d’infelicità.