Lettere (Andreini)/Lettera CXLVII

CXLVII. Dell’astutia delle donne.

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CXLVII. Dell’astutia delle donne.
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Dell’astutia delle donne.


A
Che sostener tante fattiche, à che formar del cuore un’albergo à gli affanni, à che nudrir nella mente tanti noiosi pensieri portando mesto le ciglia, pallido la guancia, e ’ncenerito la fronte: A che haver per dolorosa compagnia, non meno il giorno, che la notte sospiri, tormenti, lagrime, singulti, querele, e strida. A che finalmente desiderar la morte per disperato rimedio d’intolerabil male, quando voi altre crudelissime donne d’altro non godete, che delle nostre avversità, pigliandovi piacere di rider delle nostre pene, e di burlarvi non meno delle parole, che delle attioni di chi vi serve, e di chi v’ama: e che sia vero. S’altri

[p. 149v modifica]con parole ordinate procura di meglio che sà di significarvi l’insopportabil sua doglia subito dite. Oh ecco l’oratore. So, ch’egli non lascia addietro i colori dell’arte io, vuol, che ne’ suoi ragionamenti si scuopra l’ordine, l’inventione, le locutione, la memoria, e la pronuntia. Manca sol, ch’egli dica, se la causa è in genere demostrativo, deliberativo, o giuditiale. S’è vero, che quel dolor, che ben si sente mal si narra, certo costui non sente dolore, poiche sì ben ne parla, e s’egli non sente dolore, parimente non ama, poiche amore non è mai senza dolore; e s’egli non ama, e finge d’amare, ben merita d’esser burlato. S’avvien, che un’altro vinto da soverchio amore, incominciando à ragionar delle sue pene si perda, subbito gli vien’addosso una ruinosa pioggia d’ignorante, dicendo. Oh che balordo. Egli è pur vero, che non hà saputo incatenar quattro parole, si conosce bene, ch’egli non sà perche le lettere sieno chiamate elementi, orsù diamogli la merenduccia, e mandiamolo à scuola, e quando non saprà dire quali sono le vocali, le semivocali, le consonanti, le mute, le liquide, e perche così dette, stafiliamolo ben bene. Se in atto supplichevole, & humile si chiede lagrimando soccorso, incontinente s’ode darsi per lo capo d’un vile, d’un codardo, d’una gallina bagnata, e d’un’indegno di ricever gratia alcuna dalla sua donna, poiche voi altre vi formate un argomento à vostro modo, e dite, che ’l timore nasce dall’indegnità, e l’ardir dal merito; s’egli meritasse [p. 150r modifica](dite voi) havrebbe parlato arditamente, dunque non meritando escludiamolo dal nostro amore. S’alcun’altro pigliando baldanza da quegli sguardi fintamente pietosi, da quegli atti piacevoli, da quelle parolette melate, che solete usare, perche un cuore d’amorosa speranza trabocchi ardito: ma però modesto, procura di farvi conoscer la sua leal servitù, sò, che bisogna, ch’ei s’armi d’una buona pacienza, e che si contenti d’esser proverbiato à torto, come vi pare. Infine si vede bene (pur dite voi ) che costui ha sbandita ogni vergogna e ch’egli hà la prosuntione in cambio di virtù, ò che bel modo d’acquistar la gratia della Dama. M’avveggo ben’io, che bisogna fargli conoscere, che l’insolenza è un male, che si medica col bastone. S’altri con alcuna sentenza, con alcun’essempio nobile, e con alcuna accorta comparatione, procura di far veder alla sua Donna, che la sua fede avanza quella d’ogn’altro amante, e ch’ella è tenuta à ricompensarlo, non manca il dirgli. O ecco l’Aristarco il qual non sà parlare, se non allega sentenze di Platone, o d’Aristotele, dov’ha egli appreso questo modo di dire, vada à legger nelle scuole à fanciulli, e non à ragionar nelle camere con le donne; vuol egli forse per mezo de’ suoi Sofismi farci vedere, e credere, che siamo obligate ad amarlo? benche donne inesperte, sappiamo ancor noi, che ’l dover non si trova in amore, e che non v’ha Giudice, che punisca quelle, che amate non riamano. S’un’altro con semplici detti, affatto lontani dalle [p. 150v modifica]sentenze, da gli essempi, e dalle figure retoriche vuol manifestar il suo puro, e sincero affetto, Monna accorta subito dice, ò che parole insipide. Invero, se colui non merita d’esser ascoltato, che parla senza autorità, costui è del tutto indegno d’esser udito. Non sà egli, che non dipingerà mai bene alcun Pittore, se volendo far un corpo, à caso guiderà la mano, e ’l pennello, e senz’ordine disegnerà le linee? e che non potremo similmente spiegar con lode i concetti nostri, se con proprie, & illustri parole non li vestiamo, usando un’ordine giusto di sentenze nobili? perche sì come i corpi coi colori, così i concetti con le parole si figurano; non comparisca mai più in luogo dov’io mi sia, che non voglio, che trà l’altre si dica, ch’i’ hò un’amante troppo triviale. Chi procura d’adornarsi vien da voi chiamato un Ganimede, una Ninfa, & un Narciso. Chi và positivo porta nome di spilorcio; se in conservatione altri dirà alcun leggiadro avvenimento, il novellaio non gli manca; se starà cheto, il Dio del silentio è subito in campo; se riderà, lo chiamarete Democrito: se piangerà, Eraclito; se starà allegro, ecco il buffone; se mesto il dispiacere; se canterà la Cicala, se non dona, si dice, o che non ama, o ch’egli è un Mida, e se finalmente dona, si stima il dono, e si disprezza il donatore, ridendovi, ch’egli habbia voluto far del Mecenate; ond’io mi risolvo di non voler esser più segno delle vostre avvelenate saette, cioè delle vostre pungenti parole. Non voglio più che la Rocca della mia [p. 151r modifica]costanza sostenga gli ingiusti assalti di tante avversità: nò, nò. Confesso, che la mia lunga pacienza s’è fatta impaciente. Viva à così cruda tirannide chi vuole, ch’io per me voglio viver à me stesso, & alla mia ragione.