Lettere (Andreini)/Dedica
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AL SERENISSIMO
D. CARLO EMANUEL
DUCA DI SAVOIA, &c.
A Natura (Serenissimo Signore) quella nostra madre ottima, e massima vedendo di non poter perpetuar ciascun di noi stessi, come quella, che non hà altro fine, che di perpetuarci in modo che non habbiam mai fine, procurò studiosamente per altro mezo di conseguir il desiderio suo in quanto poteva; onde saviamente destò in alcuno ardentissima voglia di figliuoli, nipoti, e pronipoti, nella vita de i quali, i Padri, gli Avi, & i Proavi, benche morti, felicemente immortali si vivono. Alcun’altro, perche godesse del privilegio della vita dopò la vita, chiamò quelle a nobilissime arti, così di essa Natura imitatrici, che molte volte hanno ardire di gareggiar mirabilmente seco; e che sia vero, ecco
le vive dipinte, che ingannano gli uccelli, & ecco la statua scolpita, che innamora un giovane: ma giudicando, anzi chiaramente conoscendo questa grande, e prudente madre, che frà tutte le cose atte à render l’huomo immortale, attissimo era il sapere, con la sua mirabil forza il fè à lui tanto commune, ch’egli è in lui desiderio innato. Chiamasi l’huomo mercè del sapere, Signor delle cose inferiori, famigliar delle superiori, terreno Dio, animale celeste, e finalmente pompa, e miracolo della medesima Natura. Dimandato Anassagora, perch’era nato, disse. Per contemplar le stelle, laqual cosa non potendosi fare, se non per mezo del sapere ci fa conoscer, che ogn’uno che nasce, nasce con desiderio di sapere; hor essend’io stata dalla bontà del Sommo Fattore mandata ad esser Cittadina del Mondo, & essendo per avventura questo desiderio di sapere nato in me più ardente, che in molt’altre Donne dell’età nostra, lequali come che scuoprano in virtù de gli studi molte, e molte esser divenute celebri, & immortali, nondimeno vogliono solamente attender (e ciò sia detto con pace di quelle che à più alti, & à più gloriosi pensieri hanno la mente rivolta) all’ago, alla conocchia, & all’arcolaio; essendo dico in me nato ardentissimo il desiderio di sapere, hò voluto à tutta mia possanza alimentarlo; e benche nel mio nascimento la Fortuna mi sia stata avara di quelle commodità, che si convenivano per ciò fare, e benche sempre i’ sia stata lontanissima da ogni quiete, onde non hò potuto dir con Scipione, che mai non mi son veduta men’otiosa, che quando era otiosa; tuttavia per non far torto à quel talento, che Iddio, e la Natura mi diedero, e perche ’l viver mio non si potesse chiamar un continuo dormire, sapend’io, che ogni buon Cittadino è tenuto per quanto può à beneficar la sua Patria, à pena sapea leggere (per dir così) che io il meglio, ch’i’ seppi mi diedi à comporre la mia Mirtilla favola boschereccia, che se n’uscì per le porte della stampa, e si fece vedere nel Teatro del Mondo molto male in affetto, per colpa di proprio sapere (io non lo nego) ma per mancamento ancora d’altrui cortesia (e non v’ha dubbio.) Dopò sudai nella fatica delle mie Rime, e di ciò non contenta procurai di rubbar al Tempo, & alla necessità del mio faticoso essercitio alcun breve spatio d’hora, per dar opera a queste lettere, che di mandar alla luce presso gli altri miei scritti ardisco, più, perche mi confido nella benignità del Mondo, che, perch’i’ creda, ch’esse vagliano; e se alcuno dicesse, che fu sempre intentione di chi mandò lettere alle stampe d’insegnar il vero modo di scriverle, sappia quel tale, ch’io non hebbi mai così temerario pensiero, sapendo, ch’è solamente dato a gli huomini più intendenti l’havere, e ’l conseguir simil fine. Intention mia dunque fu di schermirmi quanto più i’ poteva dalla morte: ammaestrata così dalla Natura; per ciò non doverà parere strano ad alcuno s’io ho mandato, e se tuttavia mando nelle mani de gli huomini gli scritti miei, poiche ogn’uno desidera naturalmente d’haver in se stesso, e ne’ suoi parti, se non perpetua, almeno lunghissima vita: e per conseguirla più facilmente hò eletto di dedicar questa forse non ultima fatica à V. A. S. e benche à Principe tanto perfetto cosa men che perfetta donar non si dovesse, e benche i’ m’avvegga, che queste lettere mancano tanto di perfettione quant’ella n’abbonda, nondimeno hò voluto seguir il mio proponimento, assicurandomi, che non perderò tanto per gli infiniti mancamenti d’esse, quanto acquisterò per gli innumerabili meriti suoi. Sà V. A. S. che quelli, che dedicano le fatiche loro hanno tutti diverso fine; percioche altri conoscendo, ò stimando i lor componimenti di tanta perfettione, che ’l Tempo con le sue rapine, e con le sue violenze non possa punto lor nuocere si persuadono di raccomandar all’immortalità con le opere i nomi di quelli à cui hanno voluto dedicarle. Altri nella dedicatione ad altro non intendono, che ad ubbidir alla consuetudine, poiche hoggidì non si mandano fuori quattro righe, che non habbiano con esse la dedication loro. Altri ciò fanno, perche le genti sappiano sotto qual protettione essi vivono, et altri per altre mondane occasioni mandano fuora i lor libri così dedicati. Hora se dimandasse alcuno a me, perch’io mandi fuori le presenti mie Lettere sotto ’l chiarissimo nome di V. A. S. che dovrei, o che potrei rispondere? certo non altro che la sopradetta ragione, cioè per conseguir più facilmente ò perpetua, ò almeno lunghissima vita: ma perpetua senza dubbio, poich’ella perpetuamente nelle sue Heroiche attioni, viverà: aggiungendo, ch’io non sapeva in qual altro modo far conoscer ad altrui, ch’io son vera, et humilissima serva, che nel sacrarle i frutti (benche senza sapore) colti ne i campi delle mie lunghe vigilie; i quali se per avventura le saran grati, reputerò d’haver non picciola parte di quella felicità, allaquale s’ingegnano tanto i mortali d’arrivare. Ricevagli dunque V. A. S. e si ricordi, ch’è non minor segno d’animo generoso il ricever con benignità i doni piccioli, che ’l donar con magnificenza i grandi, ancorche si possa con ragion dire, ch’ella più tosto doni, che riceva: essendoche queste opere mie non più mie: ma sue saranno per lei sola tenute in pregio: onde vien’a donarmi quello, che con tanta ansieta, e con sì lunga fatica è stato da me procurato; & humilissimamente inchinandomi la prego con quel più vivo affetto, ch’io sò, e posso a tener tanto me per sua serva, quant’io tengo V. A. S. per mio Signore.
Di Venetia adì 14. Marzo 1607.
- Di V. A. Sereniss.
- Humilissima, e divotissima serva:
Isabella Andreini.