Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori (1568)/Alfonso Lombardi, Michelagnolo da Siena e Girolamo da Santa Croce e Dosso e Battista

Alfonso Lombardi, Michelagnolo da Siena e Girolamo da Santa Croce e Dosso e Battista

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Alfonso Lombardi, Michelagnolo da Siena e Girolamo da Santa Croce e Dosso e Battista
Madonna Properzia de' Rossi Giovanni Antonio Licinio da Pordenone e altri pittori del Friuli
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Vite d’Alfonso Lombardi Ferrarese, di Michelagnolo da Siena e di Girolamo S. Croce Napoletano, Scultori. E di Dosso e Battista Pittori Ferraresi.


Lfonso Ferrarese, lavorando nella sua prima giovanezza di stucchi e di cera, fece infiniti ritratti di naturale in medagliette piccole a molti signori e gentiluomini della sua patria; alcuni de’ quali, che ancora si veggiono di cera e stucco bianchi, fanno fede del buon ingegno e giudizio ch’egli ebbe, come sono quello del principe Doria, d’Alfonso duca di Ferrara, di Clemente Settimo, di Carlo Quinto imperatore, del cardinale Ippolito de’ Medici, del Bembo, dell’Ariosto e d’altri simili personaggi. Costui trovandosi [p. 176 modifica]in Bologna per la incoronazione di Carlo Quinto, dove aveva fatto per quello apparato gl’ornamenti della porta di S. Petronio, fu in tanta considerazione, per essere il primo che introducesse il buon modo di fare ritratti di naturale, in forma di medaglie, come si è detto, che non fu alcun grande uomo in quelle corti per lo quale egli non lavorasse alcuna cosa, con suo molto utile et onore. Ma non si contentando della gloria et utile che gli veniva dal fare opere di terra, di cera e di stucco, si mise a lavorar di marmo et acquistò tanto in alcune cose di non molta importanza che fece, che gli fu dato a lavorare in San Michele in Bosco fuori di Bologna la sepoltura di Ramazzotto, la quale gli acquistò grandissimo onore e fama. Dopo la quale opera, fece nella medesima città alcune storiette di marmo di mezzo rilievo all’arca di San Domenico nella predella dell’altare. Fece similmente per la porta di San Petronio in alcune storiette di marmo a man sinistra, entrando in chiesa, la Resurrezzione di Cristo, molto bella. Ma quello che ai Bolognesi piacque sommamente fu la morte di Nostra Donna in figure tonde di mistura e di stucco molto forte, nello spedale della Vita, nella stanza di sopra. Nella quale opera è fra l’altre cose maraviglioso il giudeo, che lascia appiccate le mani al cataletto della Madonna. Fece anco della medesima mistura nel palazzo publico di quella città, nella sala di sopra del governatore, un Ercole grande che ha sotto l’Idra morta. La quale statua fu fatta a concorrenza di Zacheria da Volterra, il quale fu di molto superato dalla virtù et eccellenza d’Alfonso. Alla Madonna del Baracane fece il medesimo due Angeli di stucco, che tengono un padiglione di mezzo rilievo; et in San Giuseppo nella nave di mezzo fra un arco e l’altro fece di terra in alcuni tondi i dodici Apostoli dal mezzo in su di tondo rilievo. Di terra parimente fece nella medesima città nei cantoni della volta della Madonna del Popolo, quattro figure maggiori del vivo; cioè S. Petronio, San Procolo, San Francesco e San Domenico, che sono figure bellissime e di gran maniera. Di mano del medesimo sono alcune cose pur di stucco a Castel Bolognese, et alcune altre in Cesena nella Compagnia di San Giovanni. Né si maravigli alcuno se in sin qui non si è ragionato che costui lavorasse quasi altro che terra, cera e stucchi e pochissimo di marmo, perché oltre che Alfonso fu sempre in questa maniera di lavori inclinato, passata una certa età, essendo assai bello di persona e d’aspetto giovinile, esercitò l’arte più per piacere e per una certa vanagloria, che per voglia di mettersi a scarpellare sassi. Usò sempre di portare alle braccia et al collo e ne’ vestimenti, ornamenti d’oro et altre frascherie, che lo dimostravano più tosto uomo di corte lascivo e vano che artefice desideroso di gloria. E nel vero quanto risplendono cotali ornamenti in coloro ai quali per ricchezze, stati e nobiltà di sangue non disconvengono, tanto sono degni di biasimo negl’artefici et altre persone, che non deono, chi per un rispetto e chi per un altro, agguagliarsi a gl’uomini ricchissimi; perciò che in cambio d’esserne questi cotali lodati, sono dagl’uomini di giudizio meno stimati e molte volte scherniti. Alfonso dunque invaghito di se medesimo et usando termini e lascivie poco convenienti a virtuoso artefice, si levò con sì fatti costumi alcuna volta, tutta quella gloria che gl’aveva acquistato l’affaticarsi nel suo mestiero; perciò che trovandosi una sera [p. 177 modifica]a certe nozze in casa d’un conte in Bologna et avendo buona pezza fatto all’amore con una onoratissima gentildonna, fu per avventura invitato da lei al ballo della torcia: perché aggirandosi con essa, vinto da smania d’amore, disse con un profondissimo sospiro e con voce tremante, guardando la sua donna con occhi pieni di dolcezza:

"S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento?"

Il che udendo la gentildonna, che accortissima era, per mostrargli l’error suo, rispose: "È sarà qualche pidocchio". La qual risposta, essendo udita da molti, fu cagione che s’empiesse di questo motto tutta Bologna e ch’egli ne rimanesse sempre scornato. E veramente se Alfonso avesse dato opera non alle vanità del mondo, ma alle fatiche dell’arte, egli avrebbe senza dubbio fatto cose maravigliose. Perché se ciò faceva in parte, non si essercitando molto, che averebbe fatto se avesse durato fatica? Essendo il detto imperador Carlo Quinto in Bologna e venendo l’eccellentissimo Tiziano da Cadór a ritrarre Sua Maestà, venne in desiderio Alfonso di ritrarre anch’egli quel signore; né avendo altro commodo di potere ciò fare, pregò Tiziano senza scoprirgli quello che aveva in animo di fare, che gli facesse grazia di condurlo, in cambio d’un di coloro che gli portavano i colori, alla presenza di Sua Maestà. Onde Tiziano, che molto l’amava, come cortesissimo che è sempre stato veramente, condusse seco Alfonso nelle stanze dell’imperatore. Alfonso dunque, posto che si fu Tiziano a lavorare, se gl’accommodò dietro in guisa che non poteva da lui, che attentissimo badava al suo lavoro, esser veduto. E messo mano a una sua scatoleta in forma di medaglia, ritrasse in quella di stucco l’istesso imperadore e l’ebbe condotto a fine, quando appunto Tiziano ebbe finito anch’egli il suo ritratto. Nel rizzarsi dunque l’imperatore, Alfonso chiusa la scatola, se l’aveva, acciò Tiziano non la vedesse, già messa nella manica, quando dicendogli Sua Maestà: "Mostra quello che tu hai fatto", fu forzato a dare umilmente quel ritratto in mano dell’imperatore, il quale avendo considerato e molto lodato l’opera, gli disse: "Bastarebbeti l’animo di farla di marmo?". "Sacra Maestà, sì", rispose Alfonso. "Falla dunque", soggiunse l’imperatore, "e portamela a Genova." Quanto paresse nuovo questo fatto a Tiziano, se lo può ciascuno per se stesso imaginare. Io per me credo che gli paresse avere messo la sua virtù in compromesso. Ma quello che più gli dovette parer strano, si fu che mandando Sua Maestà a donare mille scudi a Tiziano, gli commise che ne desse la metà, cioè cinquecento, ad Alfonso, e gl’altri cinquecento si tenesse per sé. Di che è da credere, che seco medesimo si dolesse Tiziano. Alfonso dunque messosi con quel maggiore studio che gli fu possibile a lavorare, condusse con tanta diligenza a fine la testa di marmo, che fu giudicata cosa rarissima. Onde meritò, portandola all’imperatore, che Sua Maestà gli facesse donare altri trecento scudi. Venuto Alfonso per i doni e per le lodi dategli da Cesare in riputazione, Ippolito cardinal de’ Medici lo condusse a Roma, dove aveva appresso di sé, oltre agl’altri infiniti virtuosi, molti scultori e pittori; e gli fece da una testa antica molto lodata ritrarre in marmo Vitellio imperatore. Nella quale opera, avendo confirmata l’openione che di lui aveva il cardinale e tutta Roma, gli fu dato a fare dal medesimo in una testa di marmo il ritratto naturale di papa Clemente Settimo; [p. 178 modifica]e poco appresso quello di Giuliano de’ Medici padre di detto cardinale; ma questa non restò del tutto finita. Le quali teste furono poi vendute in Roma e da me comperate a requisizione del Magnifico Ottaviano de’ Medici, con alcune pitture. Et oggi dal signor duca Cosimo de’ Medici sono state poste nelle stanze nuove del suo palazzo, nella sala dove sono state fatte da me nel palco e nelle facciate, di pittura, tutte le storie di papa Leone Decimo; sono state poste dico in detta sala sopra le porte fatte di quel mischio rosso che si truova vicino a Fiorenza, in compagnia d’altre teste d’uomini illustri della casa de’ Medici. Ma tornando ad Alfonso, egli seguitò poi di fare di scultura al detto cardinale molte cose, che per essere state piccole si sono smarrite. Venendo poi la morte di Clemente e dovendosi fare la sepoltura di lui e di Leone, fu ad Alfonso allogata quell’opera dal cardinale de’ Medici. Per che avendo egli fatto sopra alcuni schizzi di Michelagnolo Buonarroti un modello con figure di cera, che fu tenuta cosa bellissima, se n’andò con danari a Carrara per cavare i marmi. Ma essendo non molto dopo morto il cardinale a Itri, essendo partito di Roma per andar in Africa, uscì di mano ad Alfonso quell’opera, perché da’ cardinali Salviati, Ridolfi, Pucci, Cibò e Gaddi commessarii di quella, fu ributtato. E dal favore di Madonna Lucrezia Salviati, figliuola del gran Lorenzo Vecchio de’ Medici e sorella di Leone, allogata a Baccio Bandinelli scultor fiorentino, che ne aveva, vivendo Clemente, fatto i modelli; per la qual cosa Alfonso mezzo fuor di sé, posta giù l’alterezza, deliberò tornarsene a Bologna, et arrivato a Fiorenza, donò al duca Alessandro una bellissima testa di marmo d’un Carlo Quinto imperatore, la quale è oggi in Carrara, dove fu mandata dal cardinale Cibò, che la cavò alla morte del duca Alessandro della guardaroba di quel signore. Era in umore il detto Duca, quando arrivò Alfonso in Fiorenza, di farsi ritrarre: perché, avendolo fatto Domenico di Polo, intagliatore di ruote, e Francesco di Girolamo dal Prato in medaglia, Benvenuto Cellini per le monete, e di pittura Giorgio Vasari aretino e Iacopo da Puntormo, volle che anco Alfonso lo ritraesse; perché, avendone egli fatto uno di rilievo molto bello e miglior assai di quello che avea fatto il Danese da Carrara, gli fu dato commodità, poiché ad ogni modo voleva andar a Bologna, di farne là un di marmo simile al modello. Avendo dunque Alfonso ricevuto molti doni e cortesie dal duca Alessandro, se ne tornò a Bologna; dove, essendo anco per la morte del cardinale poco contento e per la perdita delle sepolture molto dolente, gli venne una rogna pestifera et incurabile, che a poco a poco l’andò consumando fin che, condottosi a 49 anni della sua età, passò a miglior vita, continuamente dolendosi della fortuna che gl’avesse tolto un signore dal quale poteva sperare tutto quel bene che poteva farlo in questa vita felice; e che ella doveva pur prima chiuder gl’occhi a lui condottosi a tanta miseria, che al cardinale Ippolito de’ Medici. Morì Alfonso l’anno 1536. Michelagnolo scultore sanese, poi che ebbe consumato i suoi migliori anni in Schiavonia con altri eccellenti scultori, si condusse a Roma con questa occasione. Morto papa Adriano, il cardinale Hincfort, il quale era stato dimestico e creato di quel Pontefice, non ingrato de’ benefizii da lui ricevuti deliberò di [p. 179 modifica]fargli una sepoltura di marmo e ne diede cura a Baldassarre Petrucci pittor sanese, il quale fattone il modello, volle che Michelagnolo scultore suo amico e compatriota ne pigliasse carico sopra di sé. Michelagnolo dunque fece in detta sepoltura esso papa Adriano grande quanto il vivo, disteso in sulla cassa e ritratto di naturale, e sotto a quello in una storia pur di marmo, la sua venuta a Roma et il popolo romano, che va a incontrarlo e l’adora. Intorno poi sono in quattro nicchie, quattro Virtù di marmo: la Giustizia, la Fortezza, la Pace e la Prudenza, tutte condotte con molta diligenza dalla mano di Michelagnolo e dal consiglio di Baldassarre; bene è vero che alcune delle cose che sono in quell’opera, furono lavorate dal Tribolo scultore fiorentino allora giovanetto, e queste fra tutte furono stimate le migliori. E perché Michelagnolo con sottilissima diligenza lavorò le cose minori di quell’opera, le figure piccole che vi sono meritano di essere più che tutte l’altre lodate. Ma fra l’altre cose vi sono alcuni mischi con molta pulitezza lavorati e commessi tanto bene, che più non si può desiderare. Per le quali fatiche fu a Michelagnolo dal detto cardinale donato giusto et onorato premio e poi sempre carezzato mentre che visse; e nel vero a gran ragione, perciò che questa sepoltura e gratitudine non ha dato minor fama al cardinale che a Michelagnolo si facesse nome in vita e fama dopo la morte. La quale opera finita non andò molto che Michelagnolo passò da questa all’altra vita d’anni cinquanta in circa. Girolamo Santa Croce napolitano, ancor che nel più bel corso della sua vita, e quando di lui maggior cose si speravano, ci fusse dalla morte rapito, mostrò nell’opere di scultura, che in que’ pochi anni fece in Napoli, quello che arebbe fatto se fusse più lungamente vivuto. L’opere, adunque, che costui lavorò di scultura in Napoli, furono con quell’amore condotte e finite, che maggiore si può desiderare in un giovane che voglia di gran lunga avanzar gl’altri che abbiano inanzi a lui tenuto in qualche nobile esercizio molti anni il principato. Lavorò costui in San Giovanni Carbonaro di Napoli la capella del marchese di Vico, la quale è un tempio tondo, partito in colonne e nicchie, con alcune sepolture intagliate con molta diligenza. E perché la tavola di questa capella, nella quale sono di mezzo rilievo in marmo i Magi che offeriscono a Cristo, è di mano d’uno Spagnuolo, Girolamo fece a concorrenza di quella un San Giovanni di tondo rilievo in una nicchia così bello che mostrò non esser inferiore allo Spagnuolo né d’animo, né di giudizio; onde si acquistò tanto nome, che ancor che in Napoli fusse tenuto scultore maraviglioso, e di tutti migliore Giovanni da Nola, egli nondimeno lavorò mentre Giovanni visse a sua concorrenza, ancor che Giovanni fusse già vecchio et avesse in quella città, dove molto si costuma fare le capelle e le tavole di marmo, lavorato moltissime cose. Prese dunque Girolamo per concorrenza di Giovanni a fare una capella in Monte Oliveto di Napoli dentro la porta della chiesa a man manca, dirimpetto alla quale ne fece un’altra dall’altra banda Giovanni del medesimo componimento. Fece Girolamo nella sua una Nostra Donna quanto il vivo tutta tonda, che è tenuta bellissima figura. E perché misse infinita diligenza nel fare i panni, le mani e spiccare con straforamenti il marmo, la condusse a tanta perfezzione che fu openione che [p. 180 modifica]egli avesse passato tutti coloro che in Napoli avevano adoperato al suo tempo ferri per lavorare di marmo. La qual Madonna pose in mezzo a un S. Giovanni et un San Piero, figure molto bene intese e con bella maniera lavorate e finite, come sono anco alcuni fanciulli che sono sopra queste collocati. Fece oltre ciò nella chiesa di Capella, luogo de’ monaci di Monte Oliveto, due statue grandi di tutto rilievo, bellissime. Dopo cominciò una statua di Carlo Quinto imperatore, quando tornò da Tunisi, e quella abbozzata e subbiata in alcuni luoghi, rimase gradinata; perché la fortuna e la morte invidiando al mondo tanto bene, ce lo tolsero d’anni trentacinque. E certo se Girolamo vivea, si sperava che sì come aveva nella sua professione avanzati tutti quelli della sua patria, così avesse a superare tutti gl’artefici del tempo suo. Onde dolse a’ Napoletani infinitamente la morte di lui e tanto più, quanto egli era stato dalla natura dotato, non pure di bellissimo ingegno, ma di tanta modestia, umanità e gentilezza, quanto più non si può in uomo desiderare; per che non è maraviglia, se tutti coloro che lo conobbono quando di lui ragionano non possono tenere le lacrime. L’ultime sue sculture furono l’anno 1537, nel quale anno fu sotterrato in Napoli con onoratissime essequie, rimanendo anco vivo il detto Giovanni da Nola vecchio et assai pratico scultore, come si vede in molte opere fatte in Napoli con buona pratica, ma con non molto disegno. A costui fece lavorare don Petro di Tolledo marchese di Villafranca et allora vece re di Napoli, una sepoltura di marmo per sé e per la sua donna; nella quale opera fece Giovanni una infinità di storie delle vittorie ottenute da quel signore contra i Turchi, con molte statue, che sono in quell’opera tutta isolata, e condotta con molta diligenza. Doveva questo sepolcro esser portato in Ispagna, ma non avendo ciò fatto mentre visse quel signore, si rimase in Napoli. Morì Giovanni d’anni settanta e fu sotterrato in Napoli l’anno 1558. Quasi ne’ medesimi tempi che il cielo fece dono a Ferrara, anzi al mondo, del divino Lodovico Ariosto, nacque il Dosso pittore nella medesima città, il quale, se bene non fu così raro tra i pittori come l’Ariosto tra i poeti, si portò non di meno per sì fatta maniera nell’arte, che oltre all’essere state in gran pregio le sue opere in Ferrara, meritò anco che il dotto poeta amico e dimestico suo facesse di lui onorata memoria ne’ suoi celebratissimi scritti. Onde al nome del Dosso ha dato maggior fama la penna di Messer Lodovico, che non fecero tutti i pennelli e colori che consumò in tutta sua vita. Onde io per me confesso che grandissima ventura è quella di coloro che sono da così grandi uomini celebrati; perché il valor della penna sforza infiniti a dar credenza alle lodi di quelli, ancor che interamente non le meritino. Fu il Dosso molto amato dal duca Alfonso di Ferrara, prima per le sue qualità nell’arte della pittura e poi per essere uomo affabile molto e piacevole, della quale maniera d’uomini molto si dilettava quel Duca. Ebbe in Lombardia nome il Dosso di far meglio i paesi che alcun altro che di quella pratica operasse, o in muro o a olio o a guazzo; massimamente da poi che si è veduta la maniera tedesca. Fece in Ferrara nella chiesa catedrale una tavola con figure a olio, [p. 181 modifica]tenuta assai bella, e lavorò nel palazzo del Duca molte stanze in compagnia d’un suo fratello detto Battista, i quali sempre furono nimici l’uno dell’altro, ancor che per voler del Duca lavorassero insieme. Fecero di chiaro scuro nel cortile di detto palazzo istorie d’Ercole et una infinità di nudi per quelle mura. Similmente per tutta Ferrara lavorarono molte cose in tavola et in fresco. E di lor mano è una tavola del Duomo di Modena. Et in Trento nel palazzo del cardinale in compagnia d’altri pittori fecero molte cose di lor mano. Ne’ medesimi tempi, facendo Girolamo Genga pittore et architettore, per il duca Francesco Maria d’Urbino sopra Pesero al palazzo dell’imperiale molti ornamenti, come al suo luogo si dirà, fra molti pittori, che a quell’opera furono condotti per ordine del detto signor Francesco Maria, vi furono chiamati Dosso e Battista ferraresi, massimamente per far paesi, avendo molto innanzi fatto in quel palazzo molte pitture Francesco di Mirozzo da Forlì, Raffaello dal Colle del Borgo a Sansepolcro e molti altri. Arrivati dunque il Dosso e Battista all’imperiale, come è usanza di certi uomini così fatti, biasimarono la maggior parte di quelle cose che videro e promessero a quel signore di voler essi fare cose molto migliori; per che il Genga, che era persona accorta, vedendo dove la cosa doveva riuscire, diede loro a dipignere una camera da per loro. Onde essi messesi a lavorare si sforzarono con ogni fatica e studio di mostrare la virtù loro. Ma qualunque si fusse di ciò la cagione, non fecero mai in tutto il tempo di lor vita alcuna cosa meno lodevole, anzi peggio di quella. E pare che spesso avvenga che gl’uomini nei maggior bisogni e quando sono in maggior aspettazione, abagliandosi et acecandosi il giudizio, facciano peggio che mai: il che può forse avvenire dalla loro malignità e cattiva natura di biasimare sempre le cose altrui o dal troppo volere sforzare l’ingegno; essendo che nell’andar di passo e come porge la natura, senza mancar però di studio e diligenza, pare che sia miglior modo che il voler cavar le cose quasi per forza dell’ingegno, dove non sono; donde è vero che anco nell’altre arti e massimamente negli scritti, troppo bene si conosce l’affettazione e per dir così il troppo studio in ogni cosa. Scopertasi dunque l’opera dei Dossi, ella fu di maniera ridicola che si partirono con vergogna da quel signore; il quale fu forzato a buttar in terra tutto quello che avevano lavorato e farlo da altri ridipignere con il disegno del Genga. In ultimo fecero costoro nel duomo di Faenza per Messer Giovambattista cavaliere de’ Buosi una molto bella tavola d’un Cristo che disputa nel tempio, nella quale opera vinsero se stessi, per la nuova maniera che vi usarono e massimamente nel ritratto di detto cavaliere e d’altri. La qual tavola fu posta in quel luogo l’anno 1536. Finalmente divenuto Dosso già vecchio, consumò gl’ultimi anni senza lavorare, essendo insino all’ultimo della vita provisionato dal duca Alfonso. Finalmente dopo lui rimase Battista, che lavorò molte cose da per sé, mantenendosi in buono stato. E Dosso fu sepellito in Ferrara sua patria. Visse ne’ tempi medesimi il Bernazzano Milanese, eccellentissimo per far paesi, erbe, animali et altre cose terrestri, volatili et acquatici. E perché non diede molta opera alle figure, come quello che si conosceva imperfetto, fece compagnia con Cesare da Sesto, che le faceva molto bene e di bella maniera. Dicesi che il Bernazzano fece in un cortile a fresco certi paesi molto [p. 182 modifica]belli e tanto bene imitati, che essendovi dipinto un fragoleto pieno di fragole mature, acerbe e fiorite, alcuni pavoni ingannati dalla falsa apparenza di quelle, tanto spesso tornarono a beccarle che bucarono la calcina dell’intonaco.