Pagina:Vasari - Le vite de’ piu eccellenti pittori, scultori, et architettori, 3-1, 1568.djvu/219

a certe nozze in casa d’un conte in Bologna et avendo buona pezza fatto all’amore con una onoratissima gentildonna, fu per avventura invitato da lei al ballo della torcia: perché aggirandosi con essa, vinto da smania d’amore, disse con un profondissimo sospiro e con voce tremante, guardando la sua donna con occhi pieni di dolcezza:

"S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento?"

Il che udendo la gentildonna, che accortissima era, per mostrargli l’error suo, rispose: "È sarà qualche pidocchio". La qual risposta, essendo udita da molti, fu cagione che s’empiesse di questo motto tutta Bologna e ch’egli ne rimanesse sempre scornato. E veramente se Alfonso avesse dato opera non alle vanità del mondo, ma alle fatiche dell’arte, egli avrebbe senza dubbio fatto cose maravigliose. Perché se ciò faceva in parte, non si essercitando molto, che averebbe fatto se avesse durato fatica? Essendo il detto imperador Carlo Quinto in Bologna e venendo l’eccellentissimo Tiziano da Cadór a ritrarre Sua Maestà, venne in desiderio Alfonso di ritrarre anch’egli quel signore; né avendo altro commodo di potere ciò fare, pregò Tiziano senza scoprirgli quello che aveva in animo di fare, che gli facesse grazia di condurlo, in cambio d’un di coloro che gli portavano i colori, alla presenza di Sua Maestà. Onde Tiziano, che molto l’amava, come cortesissimo che è sempre stato veramente, condusse seco Alfonso nelle stanze dell’imperatore. Alfonso dunque, posto che si fu Tiziano a lavorare, se gl’accommodò dietro in guisa che non poteva da lui, che attentissimo badava al suo lavoro, esser veduto. E messo mano a una sua scatoleta in forma di medaglia, ritrasse in quella di stucco l’istesso imperadore e l’ebbe condotto a fine, quando appunto Tiziano ebbe finito anch’egli il suo ritratto. Nel rizzarsi dunque l’imperatore, Alfonso chiusa la scatola, se l’aveva, acciò Tiziano non la vedesse, già messa nella manica, quando dicendogli Sua Maestà: "Mostra quello che tu hai fatto", fu forzato a dare umilmente quel ritratto in mano dell’imperatore, il quale avendo considerato e molto lodato l’opera, gli disse: "Bastarebbeti l’animo di farla di marmo?". "Sacra Maestà, sì", rispose Alfonso. "Falla dunque", soggiunse l’imperatore, "e portamela a Genova." Quanto paresse nuovo questo fatto a Tiziano, se lo può ciascuno per se stesso imaginare. Io per me credo che gli paresse avere messo la sua virtù in compromesso. Ma quello che più gli dovette parer strano, si fu che mandando Sua Maestà a donare mille scudi a Tiziano, gli commise che ne desse la metà, cioè cinquecento, ad Alfonso, e gl’altri cinquecento si tenesse per sé. Di che è da credere, che seco medesimo si dolesse Tiziano. Alfonso dunque messosi con quel maggiore studio che gli fu possibile a lavorare, condusse con tanta diligenza a fine la testa di marmo, che fu giudicata cosa rarissima. Onde meritò, portandola all’imperatore, che Sua Maestà gli facesse donare altri trecento scudi. Venuto Alfonso per i doni e per le lodi dategli da Cesare in riputazione, Ippolito cardinal de’ Medici lo condusse a Roma, dove aveva appresso di sé, oltre agl’altri infiniti virtuosi, molti scultori e pittori; e gli fece da una testa antica molto lodata ritrarre in marmo Vitellio imperatore. Nella quale opera, avendo confirmata l’openione che di lui aveva il cardinale e tutta Roma, gli fu dato a fare dal medesimo in una testa di marmo il ritratto naturale di papa Clemente Settimo;