Le terze rime/Inferno
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Purgatorio | ► |
Nel mezzo del camin di nostra vita
Mi ritrovai per una selva oscura;
Che la diritta via era smarrita:
Et quanto a dir qual era, è cosa dura
Esta selva selvaggia et aspra et forte;
Che nel pensier rinuova la paura.
Tant’è amara; che poco è più morte.
Ma per trattar del ben, ch’i’ vi trovai;
Dirò de l’altre cose, ch’i’ v’ho scorte.
I non so ben ridir, com’i’ v’entrai;
Tant’era pien di sonno in su quel punto,
Che la verace via abbandonai.
Ma po ch’i fui al pie d’un colle giunto
La, dove terminava quella valle,
Che m’avea di paura il cor compunto;
Guarda' in alto; et vidi le sue spalle
vestite gia d’e raggi del pianeta
che mena dritt'altrui per ogni calle.
Allhor fu la paura un poco queta;
che nel lago del cor mera durata
La notte ch’i passai con tanta piéta.
Et come quei; che con lena affannata
uscito fuor del pelago alla riva
Si volge a l’acqua perigliosa, et guata;
Cosí l'animo mio, ch’anchor fuggiva,
Si vols’a retro a rimirar lo passo;
che non lascio giammai persona viva.
Po c'hei posat’un poco’l corpo lasso;
Ripresi via per la piaggia diserta,
Si ch'l pie fermo sempr'era'l più basso.
A le qua poi se tu vorrai salire;
Anima fia a ciò di me più degna:
Con lei ti lascerò nel mi' partire:
Che quello imperador, che la su regna;
Per ch’i' fu' ribellante a la sua legge;
Non vuol, che 'n sua città per me si vegna,
In tutte parti impera, et quivi regge:
Quivi è la sua città, et l’alto seggio:
O felice colui, cu’ ivi elegge.
Et io a lui; Poeta i' ti richeggo
Per quello Dio, che tu non conoscesti
Acciò ch'i' fugga questo male et peggio;
Che tu mi meni la, dov'hor dicesti;
Si ch’i' vegga la porta di san Pietro,
Et color, cu' tu fai cotanto mesti.
Allhor si mose; et io li tenni dietro.
CANTO II
Lo gorno se n'andava; et l'aer bruno
Toglieva glianima, che sono in terra,
Da le fatiche loro: et io sol uno
M’appdrecchiava a sostener la guerra
Si del camino, et si de la pietate;
che ritrarra la mente, che non erra.
O Muse, o alto ’ngegno hor m'aiutate:
O mente; che scrivesti, ciò ch’i' vidi;
Qui si parrà la tua nobilitate.
I' comincia; Poeta, che mi guidi,
Guarda la mia virtù, s'ell'è possente,
Anzi ch’a lalto passo tu mi fidi.
I premerei di mi concetto il suco
Piu pienamente: ma perch’i non l’habbo,
Non senza tema a dicer mi conduco:
Che non è impresa da pigliar a gabbo
Descriver fondo a tutto l’universo;
Ne da lingua, che chiami mamma, o babbo.
Ma quelle donne aiutino ’l mio verso,
ch’aiutar Amphion a chiuder Thebe;
Sì che dal fatto il dir non sia diverso.
O sovra tutte mal creata plebe;
che stai nel loco, onde parlare è duro
Me foste state qui pecore, o zebe.
Come noi fummo giù nel pozzo scuro
Sotto i pie del gigante assai più bassi,
Et io guardav’anchor all’alto muro;
Dicer udimi, guarda, come passi:
Fa sì, che tu non calchi con le piante
Le teste de fratei miseri lassi:
Perch’i mi volsi, et vidimi davante
Et sotto piedi un lago; che per gelo
Havea di vetro, et non d’acqua sembiante.
Non fece al corso suo sì grosso velo
Di verno la Danoia in Austericch
Ne ’l Tanai la sotto ’l freddo cielo;
Com’era quivi: che se Tabernicch
vi fosse su caduto, o Pietrapana;
Non havria pur da l’orlo fatto cricch.
Et com’a gracidar si sta la rana
Col muso fuor de lacqua, quando sogna
Di spigolar sovente la villana;