Le rive della Bormida nel 1794/Capitolo II
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CAPITOLO II.
Marta essa sola, se fosse stata vicina a Giuliano, non avrebbe avuto rispetto alla sua meditazione; offesa, stizzita, afflitta, per le cose udite da lui. A quell’ora dava volta nel proprio letto, ora su d’un fianco ora sull’altro; colla mente piena d’Alemanni, col cuore travagliato dalla paura del pievano; il quale aveva predicato e fatto predicare dal capuccino del quaresimale, che guai a chi avesse negato qualcosa a qualcuno di quei soldati. Ora questo pievano non era uomo da farsi pigliare a gabbo; e quel che diceva faceva; e le cose della sua cura le conosceva a puntino; vedendo dentro le case come fossero state senza tetto, o avessero avuto le mura di vetro. Venuto trent’anni prima a quella pievania, la gente del borgo gli era nata più che mezza sotto gli occhi; e quelli che non erano stati battezzati da lui lo temevano, sebbene gli fossero meno reverenti. Rammentavano d’essere andati ad incontrarlo il giorno del suo arrivo, lontano un bel tratto, in processione, a suon di campane; e vivevano ancora quasi tutte le donne, che da giovinette tra le più belle e dei migliori casati, gli avevano fatto la fiorita per la via, vestite di bianco, e cantando lodi come al Nazzareno. Ma in cambio, a cavallo d’una gagliarda giumenta, accompagnato da un mulattiere carico di parecchie casse, e da una donnicciola che pareva venisse a morte su d’un’asina stanca; avevano visto comparire un prete prosperoso e di cera ardita; il quale ricevute le prime accoglienze, aveva subito comandato di dar volta ai maggiorenti che menavano la processione, e alle fanciulle che, dinanzi a lui, s’erano tutte confuse e messe cogli occhi bassi. Entrato al suo posto, era stato poco a mostrare d’aver preso alla lettera i nomi di pastore e di gregge: alcuni che avevano osato di badare alle opere sue, con due o tre esempi gli aveva fatti star zitti; e a poco a poco s’era acconciato in casa, come se fosse stato certo di campare cent’anni. E a dir vero, ai tempi di questa storia, aveva già fatti i funerali a una generazione intera, senza essersi mai lagnato d’un dolor di capo; e faceva conto di logorare un’altra ventina di calendari, prima che un successore fosse venuto a cantargli le esequie. Allora aveva sessant’anni, e a vederlo come vestiva lindo e con panni bene attagliati alla persona, si capiva che da giovane gli era piaciuto di parere un bel prete: ma i suoi occhi grigi, le guancie rubiconde e un tantino cascanti senz’essere flosce, i capelli sciolti e giù bassi sulla fronte; un paio d’orecchie grossissime, infiammate, ciondolanti a guisa di bargiglioni, gli davano piuttosto l’aspetto d’un uomo stato pronto e violento. Forse aveva sbagliato il mestiere, perchè sui fatti suoi, rispetto a certi voti, nessuno osava lodarlo; era avaro salvo che in certi casi che faceva il grande coi grandi; e per desinare da un amico non badava a fare mezza dozzina di miglia. Sebbene fosse di poca coltura, perchè appena uscito di Seminario aveva smesso di leggere; non isdegnava gli ecclesiastici dotti, se gli accadeva di incontrarne qualcuno: ma i laici che sapevano di lettere li teneva d’occhio, e godeva che il volgo li chiamasse stregoni e gli avesse sospetto. Anzi li gridava dal pulpito a dirittura uomini perniciosi, citando esempi, facendo allusioni, dando a capire di chi voleva parlare; e queste erano piccole giunte alle prediche che egli sapeva fare, e che ogni tre o quattro anni tornavano sempre ad essere le stesse; perchè egli le studiava in certi quaderni di carta ingiallita, scarabocchiati sulle copertine con frappe, con date antiche, con nomi diversi di preti, annestati a motti latini. Quei quaderni erano una sorta d’eredità passata per molte mani, e tenuta da lui molto riguardata in una cassetta, che il giorno del suo arrivo era parsa ai curiosi uno scrigno: e le più belle di quelle prediche le recitava dinanzi ai nobili, che dal Monferrato o da altra parte del Piemonte, capitavano la state a pigliare i freschi nei loro poderi di quelle valli. Era conosciuto da tutti costoro, perchè tutti ei visitava lontano sin dove poteva andare e tornare in una giornata; e ne aveva avuto sempre doni e carezze. Diceva spesso d’uno molto potente in corte al Re di Sardegna, che gli aveva dato a capire, di non sapere bene se i preti gli avesse a chiamare prima o seconda milizia dello Stato; e che a sentir suo, nella loro gerarchia, un pievano era pari e forse da più d’un capitano in quella dei soldati di sua Maestà. Del rimanente ogni volta che tornava fuori con questo discorso, finiva sempre dicendo che agli onori non si doveva badare; la massima che l’uomo non deve porre troppo affetto nelle cose terrene, nè in padre, nè in madre, l’aveva sulle labbra sovente, come fosse un suo proverbio; forse non aveva mai pianto, prosperava un anno più dell’altro; nel 1794 faceva quasi la sessantina e il suo nome era don Apollinare.
La donna arrivata con lui il giorno ch’egli chiamava del suo avvento, era una sua sorella più vecchia che ei si teneva in casa; creatura spersonita ed infermiccia, che proprio reggeva l’anima coi denti. Era così asciutta e grinzosa, che un parente tornato a vederla dopo mezzo secolo, non avrebbe osato abbracciarla, dalla tema di sentirsela scricchiolare tra le mani. Sotto la cuffia che colle guarnizioni faceva alla faccia scarna una cornice disadatta, mostrava corti capelli color di cenere, che forse erano una parrucca: un’aria soave di purità, spirava da tutta la sua esile persona; aveva di bello gli occhi, neri, grandi, pieni d’una profonda bontà. E buona la era davvero, sebbene la natura e la fortuna se la fossero presa in fra due; e la prima n’avesse formato una di quelle creature che stanno sulla terra lunghissimi anni, e paiono sempre vicino a morire; l’altra l’avesse posta tra quelle donne, costrette a rimanersi zitelle e ad invecchiare in casa a qualche congiunto, non care, non respinte, sofferte quasi da serve. La poveretta bisognosa di consolazioni più che d’aria per vivere; dopo la sua venuta a D.... non ne aveva avuto che di due maniere, quasi da celia. Ed una era questa che se la quaresima capitava al presbiterio qualcuno, recando uova e salati, e chiedendo licenza di mangiar latticini e di non digiunare, per sè o per un ammalato; essa con aria mistica e solenne mandava il supplicante, sciolto dalle discipline del magro e del digiuno; e non dimenticava mai di dire, che a concedere quelle licenze, il vescovo ci aveva messo il pievano, e il pievano ci aveva messo lei. L’altra delle sue allegrezze la provava ammanendo il caffè pel suo fratello ogni giorno, e le feste solenni per i sette od otto preti del borgo, che venivano a pigliarlo con lui dopo il desinare. Godeva a udirli sorbire quella bevanda, di cui allora si cominciava appena a parlare, come di cosa dell’altro mondo; ma essa non ne assaggiava, perchè la sua bocca non era da tanto. Si innebriava aspirandone il fumo, si teneva onorata d’avere in casa quella delicatura, che anco i più ricchi del borgo non avevano ancora; e se conversando dinanzi la porta, colle donne del vicinato, le riusciva di far cadere il discorso su tanta grazia di Dio; ne diceva da far venire l’acquolina a tutte; poi con certo suo piglio orgoglioso e cortese, saliva di sopra, e poco dopo s’affacciava con in mano un bricco lucente, donato al fratello da non so che marchesana di quelle parti. E porgendolo a vedere imitava, senza volerlo, l’atto che soleva fare il pievano, nell’alzare il reliquiario più venerato della chiesa, a scongiurare il mal tempo. I fanciulli, che non sapevano del celibato dei preti, sino a una certa età non la chiamavano altrimenti che la moglie del pievano; al suo nome di Placidia, si soleva aggiungere dai più il titolo nobilesco di donna; derisione inconsapevole a una povera creatura, che nulla aveva della donna salvo che i guai; nessuno avendola mai chiesta sposa, nessuno amata, e potendosi dire di lei, che la si aveva lasciata vivere per non commettere un peccato mortale.
Don Apollinare non aveva dato guari segni di voler bene a questa sua sorella, nei tempi quieti; ma in quelli torbidi che s’erano messi verso il 1790, la teneva come persona nudrita a posta, per poter darle in casa i resti delle invettive, che scagliava in chiesa e fuori contro le cose di Francia. Le quali in sul cominciare non gli erano parse di gran momento; e a chi glie n’aveva chiesto, s’era contentato di rispondere che erano follie di popolaglia, e che o pane o bastone, avrebbero finito in nulla. Ma il 1791 gli era cascato addosso come fosse stato la volta del Sancta Sanctorum, sfasciatasi mentre egli era all’altare; e d’allora in poi aveva tenuto l’orecchio alzato a tutte le novelle che poteva avere da quel paese. Ad ogni corriere, che capitava ogni mese una volta, si faceva sempre più pensoso; i notabili del borgo gli si raccoglievano intorno spauriti della sua cera: egli parlava loro un linguaggio pieno di misteri: e se qualcuno osava annunziare di suo, cosa che avesse inteso da gente d’altri borghi, o dai mulattieri, che pei loro traffichi praticavano verso la Provenza; quello agli occhi di lui, era pecora vicina a sbrancare, e cominciava a tenerlo d’occhio. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo, avuta per via dei suoi superiori, due anni dopo che se n’era udito parlare, gli aveva fatto passare il giorno più nero di tutto quel tempo. Letta, riletta, meditata a lungo quella scrittura; chiesto a sè stesso mille cose circa quei diritti, aveva finito col capire nulla di nulla; ma in cuor suo rese grazie a Dio d’aver fatto morire un tale cui quel foglio sarebbe giunto per certe vie ch’egli sospettava; un tale che avrebbe fatto le capriole dall’allegrezza solo a leggere quelle sciocche parole, e a dirne qualcosa fra il popolo della pieve! Dio non aveva concesso che in tempi di pericolo, il lupo stesse a rondinare intorno all’ovile, ed aveva fatto benissimo. Quel morto che da vivo gli era stato in ira, aveva lasciato dietro di sè un figliuolo ricco, giovane, non di buon ramo; ma egli sperava di poterlo raddurre; e ad ogni modo gli tornava meno molesto del padre, e confidava nell’opera della madre, che appunto era la signora Maddalena. Con questa si era lagnato parecchie volte, accusandola d’aver troppo allentato il freno al figliuolo; aveva predetto che le sarebbe stato cagione di grandi scontenti; e s’era lasciato andare sino a farle la confidenza, che Giuliano era la più acuta spina che avesse nella sua pieve. Pensava tuttavia che coll’aiuto del Signore, passati i bollori dell’età giovanile, arrivato ch’ei fosse in sui trenta, si sarebbe messo a vivere più assegnato, più da senno, più da buon cristiano; e su avesse voluto dire tutta la verità, non gli spiaceva che egli in quei tempi torbidi se ne stesse a Torino. Perchè i suoi superiori gli scrivevano sempre d’aprir gli occhi, di star sulle guardie; e senza che si aggiungesse la briga di dover badare a un giovane ricco fatto di sua testa, e che se la sentiva di disputare anche con un monsignore, a lui da fare gli pareva di averne già troppo. In fatti s’era messo a spiare più attento, a capitare improvviso nelle case altrui, a scrutare le donne chiacchierone; e come le cose di D.... stavano nei limiti egli credeva di molto operare per la salvezza del mondo. Ma un giorno, mentre che stava desinando, gli fu portato uno scritto del suo vescovo, che parlava di Re Luigi stato giudicato ed ucciso. «Non può essere! — esclamò egli dando il pugno sulla mensa, per modo che il bicchiere si rovesciò — questa è una celia che mi si vuol fare, guai all’autore, se lo scopro!» A queste grida donna Placidia che veniva recando un piatto, si fermò sulla soglia guardando il fratello, e le parve ammattito. Egli intanto, tenendo il pugno chiuso e teso verso di lei, rilesse la lettera, e vide ai bolli che non v’era da dubitare. «Portate via ogni cosa: — continuò allora con voce dimessa — i popoli ammazzano i re, e questi sono tempi da fare penitenza!» — A donna Placidia la novella non fece nè caldo nè freddo; tanto più che il vino versato sulla tovaglia e grondante dalla mensa sul pavimento, non era segno di disgrazia vicina. Ma egli credè d’udire i cardini del mondo stridere per uscire di posto; la pace da lui serbata in D.... non aveva giovato nulla e se ne doleva: prese il libro dell’Apocalisse, ora in capo, ora in fondo, lo lesse; lo rilesse, lo predicò dal pulpito; spaventando i fedeli che non l’avevano mai inteso parlare a quel modo. Tenne con sè quel libro giorno e notte quasi sperasse di poterne trarre qualche aiuto nell’ora dell’imminente ruina; dopo dieci, venti, trenta giorni, vedendo che il sole continuava ad alzarsi dallo stesso lato, si quetò su quel fatto del regicidio; ma gli rimase una gran paura dei Francesi nemici di Dio, uccisori di nobili e di preti, belve che non più frenate da nessuno, avrebbero invasa la terra, e forse anche il borgo di D.... A rimettergli il cuore in corpo, non vi vollero meno di quelle migliaia d’Alemanni, venuti di Lombardia e passati per D.... nell’andarsi a porre a campo vicino a C.... borgo tenuto in conto di capitale dell’alte Langhe. La vista di quelle genti, di quelle assise, che ridestavano i ricordi di Marta, levarono a speranza l’animo del pievano; il quale fu il primo ad ossequiare il capitano dell’impero, annoiandolo con certa orazione latina, che diceva come i popoli delle trentasette terre delle Langhe, rammentassero d’essere stati sudditi di sua Maestà Imperiale, sino a cinquant’anni addietro; e che bramavano d’essere tenuti dai signori Alemanni come cosa loro. Offerse agli ufficiali la sua casa, la sua cantina, tutto sè stesso: e se d’una cosa si dolse, fu d’aver udito che i più grossi eserciti d’Alemagna, si travagliassero in sul Reno, di cui egli non sapeva nè dove nè che cosa fosse. Quella, a sentir lui, era gente sciupata; quattro e quattro otto l’avrebbe voluta tutta lì in val di Bormida; tutta, da poterla vedere, affacciandosi al balcone; e allora si sarebbe messo a ridere dei Francesi. Tuttavia rifatto un po’ più tranquillo, tornò a mangiare gagliardamente, a dormire sonni quieti, a dire ogni mattina alla punta del giorno la sua messa; alla quale s’affollavano i contadini, prima d’andare a far giornata nei campi, e vi venivano le serve e le donicciuole più divote del borgo, tra le quali Marta non mancava mai.
La povera vecchia soleva alzarsi prima che fosse l’alba, e queta queta, si metteva in capo il mesero stampato ad augelli e ad alberi; poi camminando in punta di piedi, e frenando la sua tosse mattutina, usciva di casa e saliva in castello. Per l’età sua ogni onesto le avrebbe consigliato di astenersi da quel disagio; ma essa faceva quell’erta come a bersi un bicchier d’acqua. Sentita la messa tornava che di solito la padrona era ancora in camera; e s’accingeva alle sue faccende, talvolta cantarellando, talvolta brontolando, ma sempre festosa come una cuffia nuova sul capo d’una bella dama.
L’indomani di quella sera, in cui Giuliano ne aveva detto di così grosse; sebbene non avesse quasi dormito, la campana di castello cominciava appena a suonare l’avemaria, e Marta era bell’e vestita e pronta ad uscire. Pensiamo un po’ che stupore dovette essere il suo, quando giunta alla porta, o tesa la mano, per agguantare la chiave, non la trovò nella toppa! Subito si rammentò che la sera innanzi la padrona aveva voluto chiudere da sè; pensò che la chiave se l’era portata di sopra, e indovinò anche la cagione di quella novità; ma le parve che non fosse l’ora da andarla a disturbare. Però l’idea di mancare quel mattino alla messa, le fece avvampare il vecchio sangue, che già le impaludava nel cuore; e fattasi animo, salì dalla signora, la trovò desta, chiese perdono; e avuta la chiave s’affrettò a rimettere il tempo perso. Nell’aria si udiva tuttavia la romba della campana, ed essa già entrata in chiesa; si rannicchiò nel banco dei padroni, si segnò, guardò, e tra due moccoli accesi allora, vide il signor pievano che saliva all’altare. Lieta d’essere giunta a tempo, pur non potè difendersi dalla stizza della sera innanzi; e quella storia delle chiavi custodite dalla signora; i certi dubbi e paure che non sapeva donde venissero, le ingombrarono la mente, con i pensieri che non erano d’orazione, tornarono ad assalirla; si raccomandò al santi, alla Madonna, si morse le labbra, invano: la sua testa andava in volta, e la messa fu finita senza che, povera donna, le fosse riuscito di recitare un intero pater. Allora delle sue distrazioni ne fece un’offerta al Signore, e il pievano non era più all’altare da un quarto d’ora, quando essa, malcontenta di sè, si levò per tornare ai fatti suoi. Ed ecco don Apollinare che, l’aspettasse o no, le si fece incontro sul piazzale della chiesa, colla tabacchiera aperta, dicendo:
«Ebbene, nostra Marta, come state?
«Eh signor pievano, da vecchia bene anche troppo!
«Oh! vecchi non si è mai, finchè l’appetito ci serve! — e qui il prete porgeva alla donna la tabacchiera, che vi facesse dentro una pizzicata.
«L’appetito — rispondeva Marta sfregando le dita contro la veste, quasi per nettarle prima d’accostarle alla tabacchiera; — l’appetito come Dio vuole c’è, sebbene del mio pane n’abbia mangiato le nove parti.....
«Mangiate anche la decima, e vi rimarrà quello del paradiso: — disse il pievano — intanto a conti fatti avete visto nascere molti che sono già all’altro mondo; e molti vi passeranno innanzi, che credono di non morire mai perchè sono giovani.... A proposito di giovani, ho inteso che il signor Giuliano è qui in D....?»
Al modo altezzoso con cui don Apollinare dava del signore a Giuliano, Marta si sentì gelare il cuore, e a mala pena rispose:
«C’è venuto a fare la pasqua....
«La pasqua! E dove la fa la pasqua? A tavola, o forse a C...., dove è già andato tre o quattro volte, a trovare i giacobini che appestano quel borgo? Ah l’ha fatta pur grossa la vostra padrona, quando lasciò ch’egli andasse a studiare a Torino! Voleva farsi medico? Ebbene, non poteva fare come tanti altri? impratichirsi da qualcuno dei vecchi, che hanno sempre fatto il mestiere, senz’essere mai usciti da questi monti? Io l’avrei raccomandato al marchese di C..... al conte di P....., e quando fosse stato tempo, questi delle licenze di curare i malati, gliene avrebbero dato, per amor mio, non una ma dieci....! Ma egli, superbo, no....! questi dei nobili, che danno licenza ai medici, sono privilegi di medioevo; io non ci vado a trottare sulla mula tre o quattro anni pei monti, per essere poi ammesso al cospetto del marchese, a disputare dell’arte mia col prete di casa....! io non ci vado a farmi compatire dal nobiluomo, che colla parrucca in capo e colla pergamena già pronta, accennerà cortese o farà rabbuffi, se il pranzo non gli avrà fatto pro: io non ci anderò a tribolare l’umanità mandato da questi signori.... no....! ha detto così il superbo, e andò a Torino.... Almeno ci stesse per sempre laggiù! ma vedete come egli è ritornato pieno di religione? Voi dite che egli è venuto a fare la pasqua.....; tutti i galantuomini a quest’ora l’hanno già fatta, ma lui, lui chi l’ha veduto?
«Ma! sospirò Marta facendo spallucce, in guisa che parve una chiocciola che ritraesse le corna nel guscio.
«Basta! — soggiunse risoluto il pievano — vedremo che intenzione ha: ditegli che stamattina l’aspetto.»
E diede di volta, piantando la povera vecchia; la quale stata un poco, come non sapesse più ritrovare la via, partì, un passo innanzi l’altro, colla mente a quelle parole, che le suonavano col sordo rumore d’un temporale vicino. Discese di castello, con una gran guerra di pensieri nel capo; e giunta a casa, buttato il mesero su d’una sedia, si mise a rassettare e a spolverare gli arredi, senza badare a non far rumore; parendole che la padrona non avesse a rimproverarla d’averla sturbata, dacchè pel figliuolo di lei, le era toccato dal pievano quella mortificazione. A un tratto rimasta colla mano in alto, guardando il soffitto, stette a udire certe pedate nel corridoio di sopra, che le parvero di Giuliano; gioì al pensiero di potersi alfine sfogare, e smesso il suo lavoro, se lo vide comparire dinanzi.
Calzava gli stivali a ginocchiello, e aveva in gamba le brache di nanchino giallognole, che i signori di quei tempi tiravano fuori dagli armadi il giorno di pasqua, fosse questa alta o bassa, ossia nella stagione ancor fredda, o già nella dolce. A vederlo vestito proprio come la sera innanzi, quand’era tornato da C...., Marta credette che egli fosse in punto di ripartire e gli disse:
«Che tornate a C....? No? O allora toglietevi di gamba coteste brache che paiono di ghiaccio! Che si mettano la festa di pasqua per santificarla, sta bene..... ma.... e la pasqua starebbe anche meglio santificarla in un’altra maniera!
«State buona, nonna, — disse accarezzandola il giovane — stanotte non mi sono spogliato.....
«Già! vizi che si pigliano in città....! Nelle città se ne pigliano tanti dei vizi.... ma il più brutto.... il più.... Uno squillo di campanello troncò a Marta la parola, che di quel passo sarebbe forse finita coll’ambasciata di don Apollinare. Essa dovè correre di sopra a vedere la padrona; e Giuliano rammentando i discorsi che aveva tenuti a sua madre, e pensando che era sul punto di doversi presentare a lei; fu colto da un gran batticuore.
Marta, molto meravigliata, per aver trovata la padrona già vestita, e acconciata i cappelli, da parere più giovane di qualche anno; tornò giù a dire al signorino che sua madre lo voleva: ed allora fattosi animo, egli salì quella scala, ma lento come su per un monte.
«Vieni oltre — gli disse la signora Maddalena, incontrandolo sulla soglia e fissandolo negli occhi: — prima di sera, sapremo se Bianca verrà a farci felici.....
«Oh sì verrà — sclamò Giuliano stringendo fra le sue le mani della madre.
«Va, e chiama Anselmo che venga a pigliarmi, col calesse...
«Ma che vuole andare lei, colle vie che vi sono....
«Va.»
Giuliano obbedì; ed essa col cuore alla gola, levò le mani in alto e disse singhiozzando:
«Giuliano, Giuliano, se tu sapessi che dolore mi dai....!»
S’asciugò gli occhi, e si mise dinanzi all’immagine di suo marito, stata dipinta colla sua, quando si erano sposati. Stette un tratto a contemplare quella tela, come se tra lei e l’immagine fossero misteriose corrispondenze; quindi avvicinatasi a un cantarono antico, tirò una delle cassette, cavò di là dentro una veste di seta color di rosa, e la distese sul letto, dove apparve fatta alla foggia di molti anni addietro, stretta nelle maniche, rigonfia alle ascelle, accollata e lunga la gonna, quanto poteva bastare a far un po’ di strasico avendola indosso. Di quella vesta ne teneva di conto; e la tirava fuori ogni anno ricorrendo il giorno delle sue nozze: trasse ancora una scatola in cui erano alcuni vezzi d’oro, collane, maniglie, anella di vario lavoro; e la pose aperta vicina alla veste. Del suo corredo di sposa, non le sopravanzavano più che quelle cose; perchè le più le aveva date, un po’ alla volta a povere fanciulle del borgo, andate a marito; e dopo averle toccate e ritoccate, col pensiero ad altri tempi, uscì sommessa in queste parole: «S’ha un bel affligersi, ma nel giro di trent’anni si rinnovellano nelle case, feste e dolori! ora tocca a lui!»
Lasciò quella veste e quei vezzi così come gli aveva messi, forse desiderando che Giuliano li vedesse, mentre sarebbe stata lontana; poi sempre pensosa discese. A vedere Marta trasecolata come era, le parve di doverle dire qualcosa di quel che andava a fare, ma si rattenne senza sapere il perchè; e chiesto che le porgesse una tazza di latte, si pose a berne, mangiucchiando d’un pane casalingo, affettato lì per lì dalla vecchia, la quale dal rimescolamento e dalla rapina di non sapere qual aria volesse tirare, per poco non si tagliava le dita.
In questo mezzo Giuliano era venuto col calesse, sino all’arco, per cui s’entrava nel piazzale; e lasciato là Anselmo ad aspettare, Anselmo che aveva fatto le maraviglie per quell’andata della signora; corse a farne avvisata sua madre. Essa era pronta: nè avendo a far altro che mettersi in capo la cuffia, se l’acconciò da sè, salutò Marta, fu al calesse accompagnata da Giuliano; e senza volgersi addietro si mise dentro e partì.
Marta rimasta in forse a guardare dalla finestra della sala, colle braccia al seno, sentiva qualcosa crescere dentro, venir su a far groppo: e come la frusta d’Anselmo schioccò nell’aria, gli occhi le si empierono di lagrime, e corse verso l’uscio per andar fuori. Di certo all’abbrivo che aveva preso, avrebbe raggiunto il calesse; ma s’abbattè in Giuliano nell’atrio, e colla punta del grembiale, asciugandosi il viso lavato di lagrime, si piantò di faccia a lui e sclamò risoluta:
«Fate come volete, ma se a voi e a vostra madre piace ch’io scoppi, ho sempre obbedito! Che faccenda è questa che mi capita la prima volta, dacchè sono qua dentro? Sì, se io sono stimata un coraccio che non sente nulla, ditelo; e io faccio un fagotto della mia roba, e un cantuccio da morirvi lo troverò....
«Ma Marta.... — disse Giuliano — o che adesso impazzate....? Badate invece a star sana, che avremo fra poco bisogno di voi come del pane...! Ma non vi sgomentate; piglieremo una giovane che v’ajuti..., e la farete buona come voi...; qua l’orecchio..., mi sposo...
«Dio lodato! — proruppe allora la vecchia traendo lunga la voce, mutata in faccia che non pareva più quella: — ora so in che acque mi trovo...! Vi pareva? lasciare al bujo me, che posso dire d’aver visto fondare la casa; e ho portato vostro padre in collo, e fui sola a governargli la roba fin quando si sposò....?
«Giusto! ben rammentato! quando si sposò...! Io voglio fare ogni cosa come fece mio padre; animo, che feste avete fatto quando egli condusse la sposa?
«Eh! miracolo se si è mai visto altrettanto! — sclamò Marta levando le mani in alto, come a significare che le erano state cose da non poterle rifare: — le feste durarono mesi, e se le racconto vi paiono favole da narrarsi a canto al fuoco. State a sentire. In una sua gita a M.... nella valle di là, sapete dov’è, vostro padre ebbe una sfida al pallone. Egli non sapeva altro gioco, ma al pallone, capperi, era conosciuto sino in capo al mondo! In quella sua gita s’innamorò di vostra mamma, la quale stava con parecchie zitelle di colà a vedere i giocatori....; vostro padre, non faccio per dire, ma era un bellissimo giovane.... Tornò da quella gita pensoso, melanconico, crucciato, come voi ieri sera...: ed io che, non per vantarmi, gli faceva da madre, sin dall’anno quarantacinque, che i suoi erano morti della pestilenza.... anche quello fu un bell’anno..., basta..! io credei che egli, chi sa come, avesse perduto qualche gran somma, e volli sapere che cosa lo tribolasse a quel modo. Egli mi disse, così e così....; oh! sclamai io, tutto codesto? E gli consigliai quello che avrei consigliato a voi ieri sera, se avessi saputo che cosa vi frullava pel capo. V’era casa, v’era stato; non gli mancava nulla, appunto come ora a voi; forse che avete bisogno d’esser medico, di cavar sangue, per campare ammogliato, voi? Sposate quella ragazza, gli dissi, e che Dio vi benedica! Faremo festa per un anno e un giorno, come in casa i principi...! Mi diede retta, tornò due o tre volte a M...., parlò; e di là a due settimane, vostra madre veniva qui da padrona. E mi disse poi che anch’essa s’era innamorata di vostro padre sin dal primo giorno che l’aveva veduto. Erano due bei sposi ve’, e che accompagnatura! Vennero attraverso ai monti e in tanti, che non s’era mai visto una simile cosa a ricordo di vecchi. Signori, signore; a cavallo, in lettiga; musici che suonarono tutta la via; canti, schiopettate, sparate di pistole, una battaglia! E quando il corteo fu scoperto da qui a quel varco dei monti lassù, le campane di castello cominciarono a suonare a gloria, come venisse monsignor Vescovo a dare la cresima. Io era qui, in questo luogo, e un’occhiata dava al corteo che discendeva per quelle svolte come una processione; un’altra correva a darne in casa dove aveva un mondo di donne ad ammanire il pranzo: un pranzo di cento convitati, mica pochi, no; e che convitati! La sera poi un festino, che manco vi saprei dire se fossi un avvocato...; e la storia durò settimane... Chi mi avrebbe detto, tu Marta starai tanto al mondo, che queste cose le rivedrai una seconda volta? Pure una differenza v’è....; quegli erano tempi di gran pace e di gran gioia; la gioventù non s’immischiava di nulla..., al comando chi v’era vi stesse, e vostro padre era un uomo dabbene....
«Ed io...? — chiese Giuliano, che avrebbe dato il fiato alla vecchia perchè ricominciasse.
«Eh... voi... non siete cattivo...; ma alle volte.... per esempio ieri sera, che cosa vi facevano gli Alemanni....? E poi... sì... ve n’ho a dir una; — e dando un’occhiata all’arco in capo al piazzale, se spuntasse qualcuno, si fece più vicina a lui e continuò con dimestichezza; — stamane il signor pievano mi ha parlato di voi, e vi vorrebbe a fare la pasqua.»
Giuliano che, solo udendo menzionare gli Alemanni, già aveva perduto la rallegratura del viso; a quella novella del pievano divenne annuvolato del tutto; e disse a Marta severo:
«Domani, tornate lassù: e se vi chiede di me, ditegli che lasci in pace i cristiani.
«Che mi fate celia! — sclamò la vecchia indietreggiando: — manco se mi faceste diventare ricca come il mare! Il pievano vuole il vostro bene. E che credete di farne dell’anima? Questo è un altro grillo come quello di maledire quei poveri Alemanni.
«Non mi tornate a parlar di costoro! — gridò Giuliano avvampando: e Marta concedendo il poco pel molto:
«Bene....! ma il pievano, la pasqua almeno... Dio ha le braccia lunghe, e quando gli pare ci arriva! Date retta a me.... andate, o sarà tutt’una, il pievano verrà qua....
«E venga! — proruppe allora il giovane — venga!» E assettandosi su d’un sedile di pietra fuori dell’atrio, parve proprio risoluto ad aspettarvi il pievano.
Marta pregava, badasse a non guastare la sua e la pace della famiglia; ricordasse che anche la sera innanzi aveva promesso a sua madre di non darle mai dispiaceri; pensasse che stava per farsi sposo, e che quello non era tempo di cozzare coi preti; e che ad ogni modo senza che si fosse accostato ai sacramenti, la fanciulla amata non l’avrebbe potuto sposare.... Ma egli non le dava retta, e facendo a sè stesso col pensare, quello che il leone, sferzandosi colla coda; levatosi ritto come per andar incontro a qualcuno, diceva:
«Mi vuole...! E quando m’avrà avuto lassù a forza, bella religione la sua e la mia! O perchè non lasciano che l’anime si volgano a Dio, ciascuna su quell’ali che egli le diede? No...; essi le vogliono spingere in su ajutati da questi altri servi della spada, che ci tengono col capo nel fango. E intanto si fa il male da loro, da noi, da tutti; carne, carne, carne, null’altro che carne. O vento che soffi dalla Provenza.... o Francia insanguinata come vergine nel circo, tu sei la scolta di Dio! Vieni colle tue legioni, e facciamola finita una volta!»
Il petto di Giuliano pareva si fosse fatto più ampio, e l’occhio scintillante, come d’uomo rapito nel leggere una pagina dei profeti, gli era rimasto fisso nell’orizzonte, proprio verso quella parte, dove Marta aveva inteso dire che vi era la Francia. Le prime parole del giovane l’avevano sbigottita; tutto quello che potè capire delle ultime fu che egli le aveva dette, e con amore, ad una nazione, la quale empieva il mondo di terribili novelle, sicchè se ne parlava sino dai pulpiti nelle chiese; e, povera vecchia, non avea membro che tenesse fermo. Allora sì, che le balenò sul serio il pensiero d’andarsene da quella casa, dove sotto le spoglie del suo Giuliano d’un tempo, era venuto ad abitare chi sa che gran peccatore! E fu a un pelo di dirglielo lì per lì. Ma la grande passione di lui, le fece temere di udirlo prorompere in altre eresie; di che fattasi forza, con un martellamento di cuore che si sarebbe inteso discosto tre passi, si ricoverò in casa. Là pregò Dio caldamente, che pel bene della signora Maddalena e del pievano, rattenesse questo dal discendere di castello; perchè non sapeva neanch’essa che cosa avrebbe potuto seguire. Intanto colla fantasia si figurò di essere in volta col suo fardelletto sulle spalle, alla cerca d’una famiglia, da potervi servire buoni cristiani, gli altri pochi anni che le rimanevano di vita: e non vedeva l’ora che la padrona tornasse, per dirle ogni cosa e licenziarsi.
Giuliano quetatosi un poco, e rimessosi a sedere su quella pietra di poco prima, fissò lontano il calesse di sua madre, che s’andava dilungando, fin che gli fu uscito di vista. Poi l’accompagnò col desiderio e coi voti verso la meta, oltre la quale vedeva e pregustava la sua e la parte di paradiso d’un’altra persona. Sposarsi a Bianca, condursela in casa, dirle: «qua dentro ogni cosa è tua; sii l’angelo del mio focolare; ringiovanisci della tua giovinezza mia madre; e viviamo d’amore essa, tu, io» era per lui qualcosa più che aver l’ali da volare in capo al mondo, girarlo tutto, e salire sino alle stelle. E già la vedeva venuta, già aver fatto l’uso alla nuova casa; marito gli pareva d’aver acquistato in essa una seconda coscienza; medico si sentiva tratto per la campagna a far il bene, ispirato dal desiderio di poterlo dire, tornando stanco, «ho fatto questo, ho fatto quest’altro....» padre, (questo poi era pensiero in cui si sprofondava col diletto preso da giovane a tuffarsi nei pelaghetti della sua Bormida, in tempo di gran caldura, mentre il suo genitore stava a vederlo;) padre gli pareva che avrebbe educati figli, degni di dar gloria fra gli uomini a quel Dio, nella cui bilancia dovrà pesare più una goccia d’acqua data ad un assetato, che una intera vita passata a star ginocchioni dinanzi a lui; ah! i figli, i figli! quel calesse arrivasse a C.... col buon’augurio, Giuliano v’era già col cuore!
E il calesse andava, e tacerne sarebbe come voler nascondere al lettore, che di quei tempi gli abitanti di val di Bormida, non avevano mai veduto quattro ruote di quella fatta a girare. Eppure era un vecchio e gramo arnese, che ai giorni nostri farebbe sgomento al più modesto viaggiatore che se n’avesse a servire. Anselmo lo aveva comperato dagli eredi di non si sapeva che baroni del Monferrato; ed essendo uomo molto arricchito nei contrabbandi tra le terre della repubblica di Genova e del re di Sardegna, per quell’acquisto era così cresciuto di reputazione, che a D...., quasi più nessuno osava chiamarlo col vecchio nome di mulattiere. Ma egli punto insuperbito, se gli capitava di guadagnare s’alzava anche a mezzanotte. E sebbene pel suo far costare il nolo del calesse un occhio del capo, si durasse fatica a mettersi d’accordo con lui; la signora Maddalena non era stata quel giorno a parlare di danaro, ed egli la portava verso C..., certo di toccare una grassa mercede e un buon beveraggio.
La via correva a tratti sulle vestigia di quel ramo dell’Emilia, che per val di Bormida menava i Romani da Tortona all’antica Sabazia. I dotti, quando ne parlano, rammentano la tavola Pentingeriana, e l’itinerario di Antonino. Romana o no quella via era un macereto, e dava così gran disagio a farla in calesse, che camminare a piedi, sarebbe stata per la povera signora minor fatica. Ad ogni passo il legno pigliava tali scosse, che essa era sempre lì colle mani per toccare Anselmo che si fermasse: ma egli da uomo rotto a ben altre molestie, la confortava a non vi badare, e starsi sicura; e tirava innanzi per la terricciola di R.... alla volta del borgo di C.... Il quale a chi vi giunge da quelle parti apparisce amenissimo, sebbene schiacciato com’è fra il torrente ed una rupe alta e malinconica, parrebbe star meglio in mezzo alla pianura, che gli si apre dinanzi. Questa non è ampia molto, ma quanto basta per dare aspetto magnifico ad un anfiteatro di colli, sormontati su su da dossi più alti di monti selvosi, che col verde cupo dei loro fianchi, fanno bel contrasto coi sottoposti vigneti, colle piagge ridenti, coi prati e coi campi, dove si lavora in dolcissima pace. Sulla rupe che soggioga il borgo, sorse un castello che fu dei Del Carretto, ed era degli Scarampi quando Vittorio Amedeo, generale degli eserciti di Francia e di Savoia, guerreggiando gli Spagnuoli in quella vallata, lo trovò difeso da dugento di costoro, e ne gli scovò con centoquarantaquattro cannonate giuste. Era l’anno 1625, e di là a poco il Conte di Verrua tornato a combatterlo lo atterrava del tutto. Ai tempi della mia storia quel castello era già quale è ai nostri, roba di donnole e di volpi, nè dà alla gente del borgo niuna noia, salvo che quella di toglierle una bell’ora di sole in sul tramonto, e di minacciarla colle sue pericolanti rovine. Macchie di castagni, da lasciare in desiderio il più valente paesista, s’aggruppano su per il pendio sino a quelle; e ai segni dei secoli che hanno nei tronchi ispidi e muschiosi, mostrano d’aver fatto ombra alle castellane, se nelle ore calde saranno uscite a sedere sull’erba a piè delle mura. L’edera inviluppa le macerie; e le muraglie che stanno ancora irte di comignoli smisurati, spiccano tra quel verde, come dossi di giganti costretti a mordere la polvere, colle braccia poderose levate in alto a imprecare. La Bormida lenta in quel suo passaggio, per i molti pelaghetti che forma, pare vaga di riposarsi un tratto a far più bello il paese. Riverbera gaiamente il castello, le case del borgo, i bucati distesi sulle sue rive le donnicciuole che vi s’affaccendano intorno, e quelle che vi stanno a lavare; e a chi conosce di quali piene talvolta si gonfi, pare angusto quel letto in cui scorre poca e tranquilla. Laggiù laggiù, dalla parte donde tirano i venti di mezzogiorno, menando sovente a furia sulla selve e sulla pianura, le vette di San Giacomo e del Settepani fanno l’orizzonte sempre leggiadro: ma a vedere l’azzurro oltremarino di cui si tingono a sera, paiono in certa guisa sfumare nei colori del cielo. Allora lasciando varco alla fantasia di chi le guarda, e trova oltr’esse, i borghi, le terre e il mare di cui ha inteso a dire le meraviglie; chiudono malinconicamente la bellissima scena.