Le piacevoli notti (1927)/Notte quarta/Favola prima
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FAVOLA I.
Ricardo, re di Tebe, ha quattro figliuole: delle quali una va errando per lo mondo, e di Costanza, Costanzo fassi chiamare, e capita nella corte di Cacco, re della Bettinia; il quale per molte sue prodezze in moglie la prende.
Vaghe e vezzose donne, la favola da Eritrea nella precedente sera raccontata, mi ha sí di vergogna punto il cuore, che quasi me ne sono restata in questa sera di favoleggiare. Ma l’osservanza che io porto alla nostra signora, e la riverenza che io ho a questa orrevole e grata compagnia, mi stringe e inanima a raccontarne una. La quale quantunque cosí bella non sia come quella raccontata da lei, pur la raccontarò; ed intenderete come una poncella, generosa di animo e di alto valore, a cui fu nelle sue opere molto piú favorevole la fortuna che la ragione, volse piú tosto diventar serva, che avilire la sua condizione: e dopo la gran servitú, di re Cacco moglie divenuta, rimase paga e contenta: sí come nel discorso del mio ragionamento comprenderete.
In Tebe, nobilissima cittá dell’Egitto, ornata de publici e privati edifici, ubertosa di biancheggianti biade, copiosa di freschissime acque ed abondevole di tutte quelle cose che ad una gloriosa cittá si convengono, regnava ne’ passati tempi un re, Riccardo per nome chiamato, uomo saputo, di profonda scienza e di alto valore. Costui, desideroso di aver eredi, prese per moglie Valeriana, figliuola di Marliano re di Scozia, donna nel vero compiuta, bella di forma e graziata molto; e di lei generò tre figliuole, ornate di costumi, leggiadre e belle come mattutine rose. L’una delle quali Valenzia, l’altra Doratea, la terza Spinella si nominava. Vedendo Ricardo Valeriana sua moglie esser in termine di non poter avere piú figliuoli, e le tre figliuole esser in etá di dover aver marito, determinò tutta tre onoratissimamente maritare, e dividere il regno suo in tre parti: assegnandone una a ciascheduna delle figliuole e ritenendo per sè tanto quanto fusse bastevole per la sustentazione e di sè e della famiglia e corte sua.
E sí come egli seco deliberato aveva, cosí alla deliberazione seguí l’effetto. Maritate adunque che furono le figliuole in tre potentissimi re di corona: l’una nel re di Scardona, l’altra nel re dei Goti, la terza nel re di Scizia, ed assignata a ciascheduna di loro la terza parte del suo reame per dote, e ritenuta per sè una parte assai piccioletta, la quale al bisogno suo maggiore li prestasse soccorso, viveva il buon re con Valeriana sua diletta moglie onestamente ed in pacifico stato. Avenne che dopo non molti anni, la reina, di cui il re non aspettava piú prole, se ingravidò; e giunta al parto, parturí una bellissima bambina, la quale dal re fu non meno ben veduta ed accarrecciata, che furono le tre prime. Ma dalla reina non molto ben veduta ed accettata: non giá perchè odio le portasse, ma per esser tutto il regno in tre parti diviso, nè vedersi modo alcuno di poterla sofficientemente maritare; nè però la volse trattare da meno di figliuola. Ma datala ad una sofficiente balia, strettamente le impose che di lei somma cura avesse, ammaestrandola e dandole quelli gentili e lodevoli costumi che ad una bella e leggiadretta giovane si convengono. La giovinetta, che per nome Costanza si chiamava, cresceva di dí in dí in bellezze ed in costumi; nè le era dimostrata cosa alcuna dalla savia maestra, che ella ottimamente non apprendesse. Costanza, essendo pervenuta all’etá di dodeci anni, aveva giá imparato ricamare, cantare, sonare, danzare, e far tutto quello che ad una matrona onestamente si conviene. Ma non contenta di ciò, tutta si diede agli studi delle buone lettere; le quali con tanta dolcezza e diletto abbracciava, che non pur il giorno, ma anche la notte in quelle consumava: affollandosi sempre di trovar cose che fussero molto isquisite. Appresso questo, non come donna, ma come valente e ben disposto uomo, all’arte militare si diede, domando cavalli, armeggiando e giostrando; ed il piú delle volte rimaneva vincitrice, e portava il trionfo, non altrimenti di quello che fanno i valorosi cavalieri d’ogni gloria degni. Per le quali cose tutte e ciascheduna da per sè, era Costanza dal re e dalla reina e da tutti tanto amata, che non vi era termine al loro amore. Essendo adunque Costanza in etá perfetta, e non avendo il re piú stato nè tesoro di poterla in alcun potente re orrevolmente maritare, molto tra sè si ramaricava; e questa cosa con la reina sovente conferiva. Ma la prudentissima reina, che considerava le virtú della figliuola esser tali e tante che ella non aveva donna che a lei si potesse agguagliare, rimaneva contenta molto, e con dolci ed amorevoli parole confortava il re che stesse cheto e punto non dubitasse; perchè alcuno potente signore, acceso del lei amore per le sue degne virtú, non si disdegnerebbe di prenderla per moglie senza dote. Non passò gran tempo, che la figliuola fu richiesta per moglie da molti valorosi signori: tra i quali vi fu Brunello, figliuolo del gran marchese di Vivien. Laonde il re insieme con la reina chiamò la figliuola; e postisi in una camera a sedere, disse il re: — Costanza, figliuola mia diletta, ora è venuto il tempo di maritarti, e noi ti abbiamo trovato per marito un giovane che sará di tuo contento. Egli è figliuolo del gran marchese di Vivien, nostro molto domestico: il cui nome è Brunello, giovane vago, aveduto e di alto valore, le cui prodezze sono giá divulgate per tutto il mondo. Ed egli a noi altro non richiede se non la buona grazia nostra e la dilicata persona tua, la quale egli stima piú che ogni stato e tesoro. Tu sai, figliuola mia, che per la povertá nostra non ti potiamo piú altamente maritare. E però tu rimarrai contenta di tanto, quanto è il voler nostro. — La figliuola, che savia era e di alto legnaggio vedevasi nata, attentamente ascoltò le parole del padre; e senza porre alcuna distanza di tempo, in tal guisa gli rispose: — Sacra corona, non fa bisogno che io mi distenda in parole in dar risposta alla degna vostra proposta; ma solo dirovvi ciò che la materia ricerca. E prima io vi rendo quelle grazie, che per me si puolono le maggiori, del buon animo ed affezione che voi avete verso di me, cercando di darmi marito da me non richieduto. Dopo, con ogni riverenza e summissione parlando, io non intendo di degenerare alla progenie de’ miei antecessori, che ad ogni tempo sono stati famosi e chiari; nè voglio avilire la corona vostra, prendendo per marito colui che è inferiore a noi. Voi, padre mio diletto, avete generato quattro figliuole: delle quali tre avete onoratissimamente maritate in tre potenti re, dandole grandissimo tesoro e stato; e me, che fui sempre ubidiente a voi ed a gli precetti vostri, volete sí bassamente in matrimonio copulare? Laonde conchiudendo dico che mai io non sono per prender marito, se io, come l’altre tre sorelle, non avrò un re convenevole alla persona mia. — E preso commiato dal re e dalla reina, non senza loro profondissimo sparger di lagrime, e montata sopra uno potente cavallo, sola di Tebe si partí; e prese il cammino verso quella parte, dove la fortuna la guidava.
Cavalcando adunque Costanza alla ventura, mutossi il nome, e di Costanza, Costanzo si fece chiamare; e passati diversi monti, laghi e stagni, vide molti paesi, ed udí vari linguaggi, e considerò le loro maniere ed i costumi de’ popoli, li quali la loro vita non come uomini, ma come bestie guidavano. E finalmente un giorno nell’ora del tramontar del sole giunse ad una celebre e famosa cittá, chiamata Costanza, la quale allora signoreggiava Cacco re della Bettinia, ed era capo della provinzia1. Ed entratovi dentro, cominciò contemplare gli superbi palazzi, le dritte e spaziose strade, i correnti e larghi fiumi, i limpidi e chiari fonti; ed approssimatosi alla piazza, vide l’ampio ed alto palazzo del re, le cui colonne erano di finissimi marmi, porfidi e serpentini: ed alzati gli occhi alquanto in su, vide il re che stava sopra un verone che tutta la piazza signoreggiava; e trattosi il cappello di capo, riverentemente lo salutò. Il re, vedendo il giovanetto sí leggiadro e vago, il fece chiamare, e venire alla presenza sua. Giunto che egli fu dinanzi al re, addimandollo donde egli veniva e che nome era il suo. Il giovane con allegra faccia rispose che egli veniva da Tebe, persequitato dalla invidiosa ed instabile fortuna, e che Costanzo era il nome suo: e desiderava volentieri accordarsi con alcuno gentiluomo da bene, servendolo con quella fede ed amore che servire si dee. Il re, a cui molto piaceva l’aspetto del giovanetto, disse: — Giá che tu porti il nome della mia cittá, io voglio che tu stie nella mia corte, niun’altra cosa facendo che attendere alla persona mia. — Il giovane, che altra cosa non desiderava maggiore, primieramente ringraziò il re; e dopo accettollo per signore, offerendosi in tutto quello, che per lui si potesse, parato.
Essendo adunque Costanzo in forma d’uomo a gli servigi del re, con tanta leggiadria lo serviva, che ogn’uno, che lo vedeva, attonito e stupefatto rimaneva. La reina, che di Costanzo gli elegantissimi gesti, le laudevoli maniere e prudentissimi costumi veniva considerando, piú attentamente cominciò riguardarlo: e del suo amore sí caldamente s’accese, che ad altro che a lui dí e notte non pensava; e con dolci ed amorosi sguardi sí fieramente lo balestrava, che non che lui, ma ogni dura pietra e saldo diamante intenerito avrebbe. In cotal guisa adunque amando la reina Costanzo, niuna altra cosa tanto desiderava, quanto di ritrovarsi con esso lui. E venuto un giorno il convenevole tempo di ragionar seco, l’addimandò se a lei servire gli fusse a grado; perciò che, servendola, oltre il guidardone ch’egli riceverebbe, non solamente da tutta la corte ben veduto sarebbe, ma anche appreciato e sommamente riverito. Costanzo, avedutosi che le parole che uscivano dalla bocca della reina procedevano non da buon zelo ch’ella avesse, ma da affezione amorosa, e considerando che per esser donna non poteva saziare la sua sfrenata ed ingorda voglia, con chiaro viso umilmente cosí rispose: — Madama, tanta è la servitú che io ho col signor mio e marito vostro, che mi parrebbe far a lui grandissima villania, quando io mi scostassi dalla ubidienza e voler suo. Però per iscusato voi, signora, mi avrete, se a’ vostri servigi pronto e apparato non mi trovarete; perciò che al mio signore fino alla morte di servire intendo, pur che gli aggradisca il mio servire; e presa licenza, si partí. La reina, che ben sapeva che la dura querce con un solo colpo non si atterra, piú e piú volte con molta astuzia ed arte s’ingegnò di tirar il giovane a gli servigi suoi. Ma egli, costante e forte come alta torre da impetuosi venti battuta, nulla si muoveva. Il che vedendo, la reina l’ardente e caldo amore in sí acerbo e mortal odio converse, che piú non lo poteva guatare. E desiderosa della morte sua, giorno e notte pensava, come da gli occhi se lo potesse rimovere; ma temeva fortemente il re, che sommamente l’amava e caro lo teneva. Regnava nella provincia della Bettinia una spezie di uomini, i quali dal mezzo in su tenevano la forma di creatura umana, ancor che le loro orecchie e corna di animale fusseno. Ma dal mezzo in giú avevano le membra di pelosa capra, con un poco di coda torta a guisa di coda di porco, e nominavansi satiri: i quali sconciamente danneggiavano i villaggi, i poderi e gli uomini del paese, ed il re desiderava molto di averne uno vivo in sua balía; ma non vi era alcuno a cui bastasse il cuore di prenderne uno ed al re appresentarlo. Laonde la reina col mezzo loro s’imaginò di dar a Costanzo la morte; ma non le venne fatto: perciò che l’ingannatore sovente rimane sotto a’ piedi dell’ingannato, cosí permettendo la divina provvidenza e la somma giustizia. La falsa reina, che chiaramente sapeva il desiderio del re, ragionando un giorno con esso lui di varie cose, tra l’altre disse: — Signor mio, non sapete voi che Costanzo, vostro fidelissimo servitore, è sí potente e sí forte, che gli basta l’animo senza l’altrui aiuto prendere un Satiro ed a voi appresentarlo vivo? Il che, essendo cosí sí come io intendo, voi poterete agevolmente isperimentare, e ad un’ora adempire il voler vostro: ed egli, come potente e forte cavaliere, conseguire un trionfo che gli sará di perpetua fama. —
Piacquero molto le parole dell’astuta reina al re: il quale subito fece chiamare Costanzo, e tai parole li disse: — Costanzo, se tu mi ami, sí come tu dimostri e ciascuno il crede, intieramente adempirai i miei desiri, e tu la vera gloria ne porterai. Tu dèi sapere che non è cosa in questo mondo ch’io piú brami e desideri, che avere uno satiro in mia balía. Onde, essendo tu potente e gagliardo, non è uomo in questo regno che meglio mi possa contentare che tu. Però, amandomi come mi ami, non mi negherai questa dimanda. — Il giovane, che conosceva la cosa altrove procedere che dal re, non volse contristarlo; ma con piacevole e lieto viso disse: Signor mio, questo ed altro mi potete comandare. E quantunque le forze mie siano deboli, non però resterò di sodisfare al desiderio vostro, ancora che nella morte io dovessi incappare. Ma prima che io mi ponga alla pericolosa impresa, voi, signor mio, ordinarete che al bosco, dove abitano i Satiri, sia condotto uno vaso grande con la bocca larga, e che non sia minor di quello in cui le serventi con il liscio nettano le camiscie ed altri panni di lino. Appresso questo vi si porterá una botte non picciola di buona vernaccia, della migliore e della piú potente che si possi trovare, con doi sacconi di bianchissimo pane. — Il re incontamente essequí tutto quello che Costanzo aveva divisato. Ed andatosene Costanzo al bosco, prese uno secchio di rame, ed incominciò attingere fuori della botte la vernaccia, ponendola nel doglio ivi vicino; e preso il pane, e fattolo in pezzi, parimenti nel doglio di vernaccia pieno lo pose. Indi salí sopra una ben frondata arbore, aspettando quello che ne poteva avenire. Appena che ’l giovane Costanzo era asceso sopra de l’albero, che gli satiri, che giá avevano sentito l’odore del fumoso vino, cominciorono appresentarsi al doglio, e ne tolsero una corpacciata, non altrimenti che fanno i famelici lupi nelle mandre delle pecorelle venuti; e poscia che ebbero empiuto la loro ventraglia, e furono a bastanza satolli, si misero a dormire: e sí alta e profondamente dormivano, che tutti gli streppiti del mondo non gli arebbono allora destati. Il che vedendo, Costanzo scese giú dell’albero; ed accostatosi ad uno, lo legò per le mani e per li piedi con una fune che seco recata aveva: e senza esser d’alcuno sentito, lo pose sopra il cavallo, e via lo condusse.
Cavalcando adunque il giovane Costanzo con il satiro strettamente legato, all’ora del vespro aggiunse ad una villa non molto lontano dalla cittá; ed avendo il bestione giá padita la ebbriezza, si risvegliò: e come se dal letto si levasse, cominciò sbadagliare; e guatandosi d’intorno, vide un padre di famiglia che con molta turba accompagnava un fanciulletto morto alla sepoltura. Egli piangeva, e messere lo prete, che le essequie faceva, cantava. Di che lo satiro se ne sorrise alquanto. Poscia entrato nella cittá, ed aggiunto nella piazza, vide il popolo che attentamente mirava un povero giovane ch’era sopra la forca per esser dal carnefice impiccato. Di che lo satiro maggiormente se ne rise. E giunto che fu al palazzo, ogn’un cominciò far segno di allegrezza, e gridare: — Costanzo! Costanzo! — Il che vedendo, l’animale vie piú fortemente mandò fuori le risa. E pervenuto Costanzo al cospetto del re e della reina e delle sue damigelle, appresentoli lo satiro; il quale, se per a dietro rise, ora furono sí grandi le risa sue, che tutti, che ivi erano presenti, ne presero non picciola maraviglia.
Vedendo il re che Costanzo aveva adempiuto il desiderio suo, tanta affezione li pose, quanta mai ebbe patrone a servitore alcuno; ma ben doglia sopra doglia alla reina crebbe, la quale, con sue parole credendo distruggere Costanzo, il puose in stato maggiore. E non potendo la scelerata sofferire il tanto bene che di lui ne vedeva riuscire, s’imaginò un nuovo inganno: il qual fu questo; perciò che ella sapeva che ’l re era consueto andarsene ogni mattina alla pregione dove il satiro dimorava, e per suo trastullo il tentava che egli parlasse; ma il re non ebbe mai tanta forza di farlo parlare. Onde, andatasene al re, disse: — Monsignor lo re, piú e piú volte siete andato all’albergo del satiro, e vi siete affaticato per farlo ragionare con esso voi per prenderne trastullo; nè mai la bestia ha voluto favellare. Che volete piú star a rompervi il cervello? Sapiate, se Costanzo vorrá, tenete per certo che gli è sofficiente a farlo ragionare e rispondere, sí come meglio li parerá. — Il che intendendo, il re immantinente fece Costanzo a sè venire; ed appresentatosi, gli disse: — Costanzo, io mi rendo certo che tu sai quanto piacere ne prenda del satiro da te preso; ma mi doglio che egli mutolo sia e non vogli alle dimande mie in modo alcuno rispondere. Se tu vorrai, sí come io intendo, fare il debito tuo, non dubito che egli parlerá. — Signor mio, — rispose Costanzo, se lo Satiro è mutolo, che ne posso io? Darli la loquela, non è ufficio umano, ma divino. Ma se l’impedimento della lingua procedesse non da vizio naturale overo accidentale, ma da dura ostinazione di non voler rispondere, io mi sforzerò a piú potere di far sí che egli parli. — Ed andatosi insieme col re alla prigione del satiro, gli recò ben da mangiare e meglio da bere; e dissegli: — Mangia, Chiappino — perciò che cosí gli aveva imposto nome; — ed egli lo guatava, e non rispondeva. — Deh, parla, Chiappino, ti prego; e dimmi se quel cappone ti piace, e quel vino ti diletta. — Ed egli pur taceva. Vedendo Costanzo l’ostinata voglia, disse: — Tu non mi vuoi rispondere, Chiappino; tu veramente fai il tuo peggio, perciò che io ti farò morire in prigione da fame e da sete. — Egli lo guatava con occhio torto. Disse allora Costanzo: — Rispondemi, Chiappino; che se tu, come spero, meco parlerai, io ti prometto di cotesto luoco liberarti. —Chiappino, che attentamente ascoltava il tutto, intesa la liberazione, disse: — E che vuoi tu da me? — Hai tu ben mangiato, e bevuto secondo il voler tuo? — disse Costanzo. — Sí, — rispose Chiappino. — Ma dimmi, ti prego per cortesia, — disse Costanzo; — che avevi tu, che ridevi quando noi eravamo per strada e vedevamo un fanciullo morto alla sepoltura portare? A cui rispose Chiappino: Io me ne risi, non del morto fanciullo, ma del padre, di cui il morto non era figliuolo, che piangeva, e del prete, di cui egli era figliuolo, che cantava. Il che significò che la madre del morto fanciullo era adultera del prete. — Piú oltre io vorrei intendere da te, Chiappino mio, qual cagione ti mosse a maggior riso, quando noi ci giungessimo alla piazza? — Io mi mossi al riso, — rispose Chiappino, — che mille ladroni, che hanno rubbato migliaia di fiorini al publico e meritano mille forche, si stavano a guatare in piazza un miserello che era alla forca condotto, ed aveva solamente involato dieci fiorini per sostentamento forse e di sè e della famiglia sua. — Appresso questo, dimmi, di grazia, — disse Costanzo: — quando aggiungemmo al palazzo, per che piú fortemente ridesti? — Deh, non mi astringer piú a ragionare ora, ti prego, disse Chiappino; ma va, e ritorna dimani, che io ti risponderò, e dirotti cose che tu forse non pensi. — Il che udendo, Costanzo disse al re: — Partiansi, che dimane faremo ritorno, ed intenderemo ciò che egli voglia dire. — Partitisi adunque, il re e Costanzo ordinarono che fusse dato a Chiappino ben da mangiare e da bere, acciò che meglio potesse ciarlare.
Venuto il giorno sequente, ambe duo ritornorono a Chiappino, ed il trovorono che come un grasso porco soffiava e roncheggiava. Accostatosi Costanzo appresso a lui, piú volte ad alta voce lo chiamò. Ma Chiappino, che era ben pasciuto, dormiva, e nulla rispondeva. Costanzo, perlungato un dardo che in mano teneva, tanto lo punse, che egli si risentí; e destato che egli fu, l’addimandò: — Orsú, dí, Chiappino, quello che heri ne promettesti. Perchè, giunti che noi fummo al palazzo, sí forte ridesti? — A cui rispose Chiappino: — Tu lo sai molto meglio che io; perciò che tutti gridavano: Costanzo! Costanzo! e nondimeno sei Costanza. — Il che il re in quel punto non intese quello che Chiappino volesse inferire. Ma Costanzo, che al tutto aveva compreso, acciò che Chiappino piú oltre non procedesse, gli troncò la strada, dicendo: — Ma quando innanzi al re ed alla reina fosti, che causa ti mosse a dover oltre misura ridere? — A cui rispose Chiappino: — Io fieramente me ne ridei, perchè il re ed ancor tu credete che le damigelle, che alla reina serveno, siano damigelle: e nondimeno la maggior parte loro damigelli sono; — e poi si tacque. Il re, questo intendendo, stette alquanto sopra di sè, nulla però dicendo; e partitosi dal silvestre satiro, con il suo Costanzo del tutto chiarirsi si volse. E fatta la isperienza, trovò Costanzo esser femina e non uomo, e le damigelle bellissimi giovani, sí come Chiappino raccontato gli aveva. Ed in quello instante il re fece accendere un grandissimo fuoco in mezzo della piazza; e presente tutto il popolo, fece la reina con tutti li damigelli arrostire. E considerata la lodevole lealtá e franca fede di Costanza, e vedendola belissima, in presenza de tutti i baroni e cavalieri la sposò. Ed inteso di cui era figliuola, molto si rallegrò; e mandati gli ambasciatori a Ricardo re ed a Valeriana sua moglie ed alle tre sorelle, come ancor Costanza era maritata in un re, tutti ne sentirono quella letizia che sentire si debbe. E cosí Costanza nobile e generosa in guidardone del ben servire reina rimase, e con Cacco re lungamente visse. —