Le piacevoli notti/Notte XIII/Favola VIII
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FAVOLA VIII.
Grande è il peccato della gola, ma maggiore è quello dell’ipocresia, perciò che il goloso inganna se stesso, ma l’ipocrita con la sua simulazione cerca d’ingannare altrui, volendo parere quel che non è, e far quel che non fa; sì come avvenne ad uno prete di villa, il quale con la sua ipocresia offese l’anima ed il corpo suo, come ora brevemente intenderete.
Appresso la città di Padova trovasi una villa chiamata Noventa, nella quale abitava un contadino molto ricco e divoto. Costui per divozione sua, e per scarico dei peccati suoi e della moglie, fabricò una chiesiola, e dotatala di sofficiente dote, e intitolata di santo Onorato, presentò un sacerdote in rettore e governatore di quella, il quale era assai dotto in ragione canonica. Un giorno, che era certa vigilia di un santo, non però comandata dalla santa madre chiesa, il detto rettore, chiamato il diacono, andò a visitare ser Gasparo, ciò e il villano che l’aveva posto in governatore di essa chiesa, o per sue facende o per qual altra ragion si voglia. Il villano, volendo onorarlo, fece una sontuosa cena con arrosti, torte ed altre cose, e volle che restasse appresso a lui quella notte. Il sacerdote disse, che non mangiava carne quel giorno per esser vigilia, e fingendo i costumi da i quali era tutto alieno, mostrava di digiunare, negando la cena al famelico ventre. Il contadino, per non rimuoverlo dalla sua divozione, comandò alla moglie che conservasse le cose, che erano avanzate, in certo armario per lo giorno seguente. Ispedita la cena ed il ragionamento doppo quella, se n’andarono a dormire nella medesima casa: il contadino con la moglie, ed il sacerdote col diacono. Ed era una camera dirimpetto all’altra. Il prete circa la mezza notte, eccitando dal sonno il diacono, gli addimandò bellamente, dove la patrona avesse riposta la torta che era avanzata, dicendogli che, se non cibava il suo corpo, ei si morrebbe da fame. Il diacono, ubidiente, levossi di letto, e pian piano n’andò leggermente al luogo dove erano le reliquie della cena, e tolse un buon pezzo di torta; e credendo venire alla camera del suo maestro, andò per sorte nella camera del villano. E perchè era di estate ed il sole era in leone, la moglie del contadino pel gran caldo era nuda e dormiva scoperta, e colla bocca di dietro soffiava a guisa d’un folle. Allora il diacono, pensando di parlare col prete, disse: Prendete, maestro, la torta ch’avete dimandata. Ed ella pur traendo sospiri con l’altra bocca, disse il diacono, ch’era ben fredda, e non era bisogno di raffreddarla. Ed ella pur di continuo soffiando, sdegnatosi il diacono, quella trasse sopra il volto posterior de la donna, credendo trarla nella faccia del prete. La quale, sentendosi quella cosa fredda sul viso di sotto, subito risvegliatasi, cominciò a gridare ad alta voce. Onde eccitato il marito dal sonno, la moglie gli narrò ciò che l’era intravenuto. Il diacono, vedendo ch’aveva fallato la stanza, pian piano ritornò alla camera del prete. Il villano, levatosi di letto ed accesa la lucerna, cercò per tutta la casa. E quando vide la torta nel letto, maravigliossi grandemente. E pensando che fusse stato qualche spirito maligno, chiamò il sacerdote; il quale, cantando salmi ed inni a ventre degiuno, con acqua benedetta benedì la casa; e poi tutti ritornarono a riposare. E così, come io dissi nel principio del mio parlare, l’ipocrisia offese l’anima ed il corpo del prete, il quale, credendo mangiare la torta, rimase contra sua voglia digiuno.
Fecero grandissime risa gli uomini quando intesero che la moglie del contadino soffiava di dietro a guisa di folle, traendo sospiri con l’altra bocca, e che la torta era fredda, nè aveva bisogno che fusse raffreddata; ed acciò che cessassino dalle molte risa, la Signora comandò a Lauretta, che l’enimma seguisse. La quale ancor ridendo così disse.
Alta son come ca’, nè casa sono;
E splendo come speglio d’ogn’intorno.
Dinanzi sto a cui chiedi perdono,
E perchè mi consumo notte e giorno.
A’ trionfanti tetti mi do in dono,
Ed ogni glorioso tempio adorno.
Ma troppo è frale la mia vita e corta,
Perchè cadendo in terra resto morta.
Dotto veramente fu l’enimma dalla vaga Lauretta recitato, nè fu veruno, che a pieno no ’l commendasse, pregandola, che interpretare lo dovesse. Ed ella, ch’altro non desiderava, in tal modo l’espose: Altro non dinota il mio enimma, se non la lampade, che d’ogni parte nella chiesa luce dinanzi al sacramento, e giorno e notte si consuma, ed adorna il tempio, ed è frale per esser di vetro. Finita la interpretazione dell’enimma, il signor Antonio Molino, a cui toccava la volta del dire, così incominciò.