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per tutta la casa. E quando vide la torta nel letto, maravigliossi grandemente. E pensando che fusse stato qualche spirito maligno, chiamò il sacerdote; il quale, cantando salmi ed inni a ventre degiuno, con acqua benedetta benedì la casa; e poi tutti ritornarono a riposare. E così, come io dissi nel principio del mio parlare, l’ipocrisia offese l’anima ed il corpo del prete, il quale, credendo mangiare la torta, rimase contra sua voglia digiuno.
Fecero grandissime risa gli uomini quando intesero che la moglie del contadino soffiava di dietro a guisa di folle, traendo sospiri con l’altra bocca, e che la torta era fredda, nè aveva bisogno che fusse raffreddata; ed acciò che cessassino dalle molte risa, la Signora comandò a Lauretta, che l’enimma seguisse. La quale ancor ridendo così disse.
Alta son come ca’, nè casa sono;
E splendo come speglio d’ogn’intorno.
Dinanzi sto a cui chiedi perdono,
E perchè mi consumo notte e giorno.
A’ trionfanti tetti mi do in dono,
Ed ogni glorioso tempio adorno.
Ma troppo è frale la mia vita e corta,
Perchè cadendo in terra resto morta.
Dotto veramente fu l’enimma dalla vaga Lauretta recitato, nè fu veruno, che a pieno no ’l commendasse, pregandola, che interpretare lo dovesse. Ed ella, ch’altro non desiderava, in tal modo l’espose: Altro non dinota il mio enimma, se non la lampade, che d’ogni parte nella chiesa luce dinanzi al sacramento, e giorno e notte si consuma, ed adorna il tempio, ed è frale per esser di vetro. Finita la interpretazione dell’enimma, il signor Antonio Molino, a cui toccava la volta del dire, così incominciò.