Le pantere di Algeri/Capitolo 32 - Nell'harem del bey

Capitolo 32 — Nell'harem del bey

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Capitolo 32 — Nell'harem del bey
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32.

NELL'HAREM DEL BEY


Quantunque deciso a giuocare l'ultima partita con coraggio disperato, avesse dovuto costargli la vita, e benché fosse dotato d'un audacia, a tutta prova, non fu senza una profonda emozione che il barone vide giungere, nel pomeriggio dell'indomani, una lettiga sorretta da due negri della Kasbah, guidati dal mirab.

Il rinnegato, che era stato in altri tempi servo d'una gran dama mora ed a cui i segreti della toletta delle donne barbaresche erano noti, aveva fatto prodigi per fare del giovane gentiluomo una bellissima fanciulla, degna di venire accolta nelle mura della Kasbah. Gli aveva intrecciati con arte ammirabile i lunghi capelli biondi inanellati, adornandoli con perline e con zecchini, gli aveva tinti gli occhi d'antimonio onde risaltassero maggiormente e le gote con un po' di rossetto poi gli aveva fatto indossare i larghi calzoni di seta bianca, ed un giubbetto usato dalle fanciulle, di panno a galloni e ricami d'oro, stretto dalla larga fascia di seta variopinta.

Un ricchissimo fazzoletto, disposto a mo' di benda attorno al capo ed un fitto velo di garza bianca sul viso, avevano completato l'abbigliamento il quale non avrebbe potuto riuscire né più elegante né più seducente. La trasformazione era riuscita così completa, da ingannare perfino gli amici del gentiluomo e lo stesso mirab, il quale era rimasto stupito chiedendosi se aveva dinanzi il giovane valoroso od una vera fanciulla rapita alle montagne del Caucaso.

— Ammirabile! — aveva esclamato, vedendolo. — Farete furore nella Kasbah.

— Credete che nessuno possa accorgersene? — aveva chiesto il barone con un leggero tremito nell'accento.

— No, rassicuratevi, signore. Nessuno potrà mai dubitare di questa trasformazione.

— E la voce?

— Voi non parlerete con chicchessia. Ho detto al capo degli eunuchi che la nuova beslemè è muta; non traditevi.

— Mi guarderò dal lasciarmi sfuggire una sola parola. Potrò questa sera vedere la contessa?

— Forse, nei giardini dell'harem, ma siate prudente. Il pericolo vi è dappertutto nella Kasbah.

— Io non sono facile ad impressionarmi e dell'audacia ne ho, eppure mi sento tremare il cuore, mirab. Temo per la contessa più che per me.

— Vi credo, barone.

— Se potessi farla fuggire prima dell'alba!

— Noi saremo pronti al vostro segnale. La feluca di Michele ha già le vele issate onde prendere subito il largo.

— Ed i miei uomini, eccettuati due, fra poco saranno qui, signore — disse il Normanno.

— Andiamo barone e coraggio — disse il mirab. — Non bisogna fare attendere troppo il capo degli eunuchi.

Il barone strinse la mano ai compagni. Era commosso e un po' impressionato. Non ostante i suoi sforzi, non riusciva a vincere lo sgomento. Uscirono nel cortile, dove i due negri della Kasbah aspettavano la nuova beslemè. Il barone salì nella portantina lasciandosi cadere sui cuscini di seta azzurra, più che sedersi.

— Si direbbe che il coraggio mi manca — mormorò. — Avrei paura?

I negri avevano alzata la ricca portantina, tutta adorna di fregi d'oro e con cortine di seta, poi erano usciti dal cortile, preceduti dal mirab il quale doveva fare personalmente al capo degli eunuchi, la consegna della fanciulla.

Il Normanno ed il rinnegato, anche essi un po' inquieti, li avevano condotti fino sulla porta.

— Ci vuol dell'audacia per arrischiare una simile avventura — disse il fregatario. — Io non mi sentirei l'animo di porre i piedi nella Kasbah.

— Nessuno si accorgerà di nulla — aveva risposto lo spagnolo. — D'altronde il barone non rimarrà a lungo entro le mura della fortezza.

— Hai messo la corda di seta nel suo cofano?

— E anche delle armi.

— Allora tutto andrà bene.

I due schiavi del bey, due negri robustissimi, sempre preceduti dal mirab, fecero il giro della imponente fortezza, sede del califfo, e si fermarono non già dinanzi alla monumentale porta, bensì ad una porticina di ferro onde non esporre la beslemè agli sguardi indiscreti dei giannizzeri di guardia.

Appena bussato si aperse ed i due negri entrarono in una sala col pavimento a mosaico e le finestre coperte da vetri variopinti che mitigavano la luce sfolgorante del sole africano.

Un uomo dalla pelle quasi nera, d'aspetto imponente, vestito con un lungo caffettano di seta bianca e avanzato negli anni, si trovava fermo in mezzo alla sala.

— Salute a te, Sidi Maharrem — disse il mirab, inchinandosi profondamente. — Ecco la fanciulla.

Il capo degli eunuchi, personaggio importantissimo presso le corti mussulmane, quantunque tutti siano di origine negra e di condizione infima, si degnò di rispondere al saluto con un legger cenno della mano.

I due negri avevano deposta la portantina ed il barone era disceso. Non tremava più, aveva ripreso tutto il suo sangue freddo e ritrovato tutto il suo coraggio.

Fece un grazioso inchino dinanzi all'eunuco, poi lasciò cadere lentamente il velo che gli copriva il viso.

Il capo, appena guardatolo, non aveva potuto trattenere un gesto che dinotava una viva sorpresa.

— Ecco un bell'acquisto pel mio signore — disse al mirab. — Poche volte nella mia lunga carriera ho veduto un visino così piacevole. Da dove viene? Chi ha raccolto un così vago fiore?

— È una circassa — rispose l'ex-templario. — È stata acquistata da un capitano maltese in Turchia.

— E la cifra?

— Mille zecchini.

— Da sborsarsi alla principessa Modera?

— È lei che l'ha acquistata per offrirla al bey.

— Ha avuto buon occhio. Questa fanciulla valeva il doppio — disse l'eunuco.

— Le hai destinato il posto?

— Presso la seconda Kadina del mio signore. Ora tu puoi ritirarti.

— Conto sulla tua protezione.

— Sarà beslemè, fra quindici giorni e chissà poi che cosa diverrà... una fanciulla così bella può fare molta via. Peccato che sia muta.

— E dalla nascita.

— Ne faremo una suonatrice di tamburello. Si dice che le circasse riescano meravigliosamente.

Fece al mirab un cenno d'addio, quindi fece togliere dai negri il cofano di mogano contenente le vesti della beslemè e aprì una porta mascherata da una pesante tenda di broccato.

Il barone, rialzato il velo, li aveva seguiti, assumendo un'aria timida. Passarono attraverso a numerose gallerie le une più meravigliose delle altre, colle pareti coperte di drappi preziosi ed il pavimento di tappeti di Rabat sfolgoranti d'oro ed impregnati d'un acuto profumo di aloè, poi scesero una gradinata di marmo bianco che metteva nei giardini dell'harem. Sotto l'ombra dei palmizi, sul margine di bacini d'acqua trasparente, dove nuotavano bianchi cigni e dove si dilettavano, senza timore stuoli di graziose gazzelle, sdraiate indolentemente sui soffici tappeti, ridevano forte e chiacchieravano delle graziose fanciulle dai visetti pieni, gli occhi a mandorla, le braccia rotonde, coi graziosi berrettini adorni di perle, dal largo fiocco rosso ed avvolte in nuvoli di garze a pagliette scintillanti.

Mangiavano dolciumi o sorbivano tazze di caffè che delle negre dalle anche poderose ed i torsi di bronzo, recavano loro senza posa. In mezzo ai boschetti si udivano tamburelli a rullare, tiorbe e voci gaie che cantarellavano in tutti gli idiomi conosciuti, voci senza dubbio di schiave cristiane rapite da quei terribili corsari sulle coste dell'Italia, della Francia, della Grecia e della Spagna.

Il capo degli eunuchi si era accostato ad una giovane donna, che stava coricata all'ombra d'una palma, su un largo tappeto circondata da guanciali di seta e che stava chiacchierando con alcune beslemè.

Con un gesto allontanò le fanciulle e dopo essersi inchinato tre volte dinanzi alla donna, scambiò sottovoce alcune parole.

— Che sia la Kainaì — si chiese il barone. — Dalla ricchezza delle sue vesti e dai suoi gioielli suppongo che sia qualche gran dama.

In quell'istante l'eunuco gli si avvicinò e gli tolse il velo. La giovane donna lo guardò per qualche istante con una viva curiosità, poi fece un cenno affermativo col capo.

— La tua padrona — disse allora l'eunuco al barone. — Lascia la tua timidezza, unisciti alle altre fanciulle e cerca di divertirti.

Quattro o cinque giovani, certo delle beslemè, lo avevano circondato ridendo del suo imbarazzo e che scambiavano per timidezza; poi lo presero per le mani e lo condussero sotto ad un tamarindo dove una vecchia negra stava narrando delle istorie ad un gruppo di ragazze e di schiave bianche e negre. Gli offrirono del caffè e dei pasticcini andando a gara per dimostrargli la loro amicizia e tempestandolo di domande.

Il barone si guardava però bene dal rispondere. D'altronde non conosceva troppo bene la lingua araba e si sarebbe trovato imbarazzato a dire qualche cosa. Si limitava perciò a piegare il capo.

— È muta! — esclamò finalmente una ragazza.

Il giovane che l'aveva compresa, aveva fatto un cenno affermativo.

— Potrai però egualmente divertirti — disse un'altra. — T'insegneremo a danzare ed a suonare la tiorba ed il tamburello e tutte ti saremo amiche.

Lo fecero sedere e poi porsero attenzione alle meravigliose istorie della vecchia che parevano interessassero estremamente l'uditorio. Il barone pur fingendo di prestare attenzione alla narratrice, si era messo a osservare attentamente le giovani che passeggiavano in gran numero nel giardino, formando qua e là gruppi pittoreschi.

Cercava ansiosamente la contessa che forse poteva trovarsi poco lontana. Quasi malediva l'idea del mirab di farlo credere muto, ciò che gli impediva di chiedere, alle sue nuove amiche, in qualche luogo, notizie sulla giovane cristiana.

A poco a poco, approfittando dell'attenzione che prestavano le fanciulle al racconto, si era allontanato dal gruppo. Si trovava già troppo a disagio fra quelle giovani e avrebbe preferito andarsene: ben lontano pei viali ombrosi. Checché facesse si sentiva male nella sua nuova pelle, temendo ad ogni istante di tradirsi.

Adagio adagio, senza che nessuna se ne fosse accorta, aveva raggiunto un folto gruppo di rosai e visto un tappeto vi si era coricato sopra, fingendo di riposarsi. In realtà invece spiava attentamente tutte le fanciulle che gli passavano dinanzi, inseguendosi, ridendo e scherzando.

Sentiva per istinto che la contessa non doveva essere lontana. Il cuore glielo diceva.

Ad un tratto trasalì e si morse le labbra a sangue per non lasciarsi sfuggire un grido pronto a prorompergli dal petto.

Aveva scorto, all'estremità d'un viale deserto, formato da enormi alberi le cui fronde proiettavano una fitta ombra, una figurina di donna, avvolta in una specie di caffettano di garza bianca punteggiato d'oro.

Senza preoccuparsi se qualche beslemè o qualche schiava l'osservava il barone era balzato in piedi con una mossa che non sarebbe stata compatibile in una fanciulla che poco dinanzi pareva così timida. Fortunatamente quel viale, un po' appartato, era deserto. Non si udivano dietro gli enormi tronchi né suoni di tiorbe, né rullìi di tamburelli, né scoppi di risa.

Il barone si era slanciato. La donna, vedendolo avanzarsi con quella furia, si era arrestata appoggiandosi al tronco d'una pianta.

— Ida! — esclamò il barone con voce soffocata, quando le fu vicino. — È Iddio che ci protegge!

La contessa aveva mandato un grido e si era fatta smorta in viso. Quantunque le potesse sembrare straordinario, inverosimile che sotto le vesti di quella bella giovane si nascondesse il barone, quella voce l'aveva riconosciuta.

— Ida! — ripetè il barone.

— Voi... Carlo... no... è impossibile! Io sogno! Ah! Quale voce! Chi siete voi?

Il barone invece di rispondere, l'aveva condotta in mezzo ad una macchia di piccoli banani ma le cui foglie, già enormi, bastavano a nasconderli agli sguardi di tutti.

La contessa l'aveva lasciato fare.

— Guardatemi — disse il barone stringendo appassionatamente fra le braccia la fanciulla amata. — Guardatemi, non mi riconoscete più?

— Carlo! Carlo! — mormorò la giovane piangendo e ridendo ad un tempo. — Voi! Tu!

— Silenzio, Ida, possono udirci e qui, per tutti, devo essere una donna.

La contessa, colle mani appoggiate sulle spalle del barone, muta, ansante, lo guardava come trasognata. Impallidiva a vista d'occhio come se fosse per mancare. Uno scoppio di pianto la salvò probabilmente da una crisi che sarebbe stata pericolosa in quel momento ed in quel luogo ove potevano venire sorpresi da qualche eunuco sospettoso.

— Taci, Ida — mormorò il barone. — Noi corriamo mille pericoli e la morte può piombarci addosso da un momento all'altro.

— Tu... Carlo — singhiozzò la contessa. — Ed io che ti credevo morto! Zuleik me lo aveva detto.

— Il miserabile! — esclamò il barone. — Ma egli non ti avrà mai perché tutto è pronto per la fuga. Se Dio vuole, noi questa sera lasceremo la Kasbah e domani saremo lontani da Algeri.

— Mio povero amico non illuderti e non illudermi. Tu non conosci la Kasbah.

— Fuggiremo, te lo prometto, Ida.

— Quante cose vorrei chiederti! Tu qui. Non ne sono ancora convinta e ho paura di sognare.

— I minuti sono troppo preziosi per spiegarci di più. Faccio appello a tutta la tua energia, io non potrò prolungare troppo questo inganno. Potrei venire scoperto, riconosciuto per un uomo e tu sai che qui non si risparmia il cristiano.

— Mi fai paura, mio Carlo. No, non voglio più separarmi da te, dovessi di mia mano pugnalare gli eunuchi.

— Ecco che ritrovo ancora in te la fiera castellana che pugnava contro i barbareschi. Dio è con noi e riusciremo in questa prova suprema. Conosci la torre di ponente?

— Sì, Carlo. Perché questa domanda?

— Sarà di là che noi fuggiremo.

— Quando?

— Questa notte; ma non so da quale parte vi si giunga ma saprò trovare la via.

— Ci sarò io a guidarti. Godo qui di una certa protezione e come beslemè nessuno potrà impedirmi di ricoverarti nella mia stanza, io saprò dove ti avranno destinata la tua e verrò a cercarti.

— Ci sarà possibile raggiungere la torre di ponente senza farci scorgere?

— Conosco ormai abbastanza bene l'harem e approfitteremo della galleria dei cristalli azzurri. Ah! Mi dimenticavo l'eunuco di guardia!

— Quale?

— Quello che veglia alla notte all'uscita della galleria.

— Ho delle armi nel mio cofano e al momento decisivo la mia mano non tremerà — disse il barone.

— Dovremo poi scendere la torre.

— Ho pensato a tutto, Ida.

— Separiamoci, Carlo. Possiamo essere spiati. Qui, le muraglie e le piante hanno orecchi.

— Saprai venire nella mia stanza?

— Ci sarò prima che suoni la campana del coprifuoco. Dio mio! Averlo veduto quanto lo credevo morto! Ah! Mio Carlo.

— Taci, Ida... — mormorò il barone.

Un gruppo di fanciulle, accompagnate da alcune negre che suonavano le tiorbe ed i tamburelli e che cantavano selvagge canzoni, s'avanzava nel viale. Il barone si era lentamente cacciato in mezzo ai banani fingendo di raccogliere delle frutta già giunte a perfetta maturanza, mentre la contessa, avviluppatasi nel suo velo, si univa alle allegre beslemè.

— Se non s'accorgono tutto andrà bene e domani saremo in mare al sicuro dai tradimenti di Zuleik e dei berberi — mormorò il barone. — Zuleik! Perché questo nome mi fa battere il cuore in questo supremo momento? Che debba aver paura di tutto in questo giorno?

Si arrestò un momento, stupito di quell'improvviso terrore che gli si era infiltrato nell'animo, poi girando la macchia raggiunse il tamarindo sotto la cui ombra le sue nuove amiche stavano ancora ascoltando la vecchia negra. Nessuna pareva che si fosse accorta della sua assenza la quale d'altronde non era durata che pochi minuti.

La contessa lo aveva ritrovato e si era seduta a breve distanza assieme a parecchie altre beslemè che si divertivano a spruzzarsi vicendevolmente con fiale d'acqua profumata ed a fare accorrere i cigni del vicino stagno, offrendo loro radici e grani. Lo osservava di sfuggita, facendogli talvolta qualche rapido cenno, come per rassicurarlo che non aveva nulla da temere. Le schiave intanto seguite da numero di eunuchi carichi di panieri contenenti vivande d'ogni specie che servivano su piatti d'argento, avevano cominciato a recare la cena. Enormi tepse, ossia guantiere di metallo dorato, venivano deposte in mezzo ai gruppi, mentre le negre offrivano gelati, dolciumi e chicchere ricolme di caffè squisito e sigarette profumate.

Semisdraiate sui tappeti e sui cuscini o semplicemente sull'erba, alle ultime luci del crepuscolo, Kadine, odalische, favorite e beslemè, stritolavano coi loro dentini le pastiglie di madjum che dovevano procurare a loro una dolce ebbrezza e dolciumi che intingevano in certe salse untuose e profumate, mentre alcune schiave accendevano intorno le profumiere dorate dove bruciavano aloè e polvere di sandalo.

Ridevano, chiacchieravano, scherzavano, felici di poter scacciare la noia che né il lusso orientale, né gli sfarzi della corte, né i piaceri potevano sempre vincere.

Il barone a poco a poco, con prudenza, si era portato presso la contessa che si trovava nel circolo formato intorno alla prima Kadina, la donna più possente e più temuta dell'harem; poiché solamente la grande valide o madre del bey poteva contrastarle il potere e l'influenza.

Ida, quantunque apparisse visibilmente nervosa, cercava, per allontanare qualsiasi sospetto, di mostrarsi più gaia del solito, ridendo forte colle compagne. Di quando in quando però improvvisamente ammutoliva e rimaneva immobile, cogli occhi fissi sul barone, affatto insensibile agli scherzi delle amiche. Si avrebbe detto che man mano le tenebre calavano, un pazzo terrore la invadeva. Nondimeno con uno sforzo supremo riusciva a ricacciare lontano da sé quelle angosce e riprendeva i suoi sollazzi.

Anche il barone non era tranquillo da parte sua e partecipava ai terrori della fanciulla amata. Egli, che non aveva mai tremato dinanzi alla morte, che si precipitava pazzamente nelle mischie più sanguinose, si sentiva battere il cuore come se volesse sfondargli il petto.

Contava ansiosamente i minuti e li trovava immensamente lunghi, ma pareva che quella sera le Kadine prolungassero la loro fermata nei giardini. La serata era tiepida ed invitava a godere la fresca ombra delle palme e dei tamarindi.

Il barone, che si rodeva d'impazienza si era accostato alla contessa, sussurrandole all'orecchio:

— Vieni, Ida!

Aveva presa una decisione disperata. Perché non approfittare di quel momento per effettuare la fuga? Vedeva fanciulle rincorrersi nei viali semitenebrosi, cacciarsi nei boschetti, passeggiare intorno agli stagni ed inseguire le agili gazzelle. La contessa poteva ben fare altrettanto.

Si era alzato dirigendosi verso una piccola radura in mezzo alla quale zampillava, mormorando gaiamente, una fontana. Si trovava verso ponente dei giardini, quindi la torre non doveva essere lontana.

La contessa lo aveva seguito a breve distanza, fingendo di cogliere delle rose. Gliene offrì una dicendogli:

— Dove vai bella fanciulla?

Si erano messi a camminare l'uno a fianco dell'altro, come due amiche e si dirigevano verso una scalinata marmorea che metteva negli appartamenti dell'harem.

— Fuggiamo — le aveva sussurrato il barone. — Nessuno si occuperà di noi, almeno pel momento e quando gli eunuchi ci cercheranno noi saremo già nel fossato.

— Lo vuoi, Carlo? — chiese la contessa la cui voce non tremava più.

— È il momento di andarcene. Aspettando più tardi, ho paura che questa fuga termini in una catastrofe. Mi pare già che una immensa sciagura ci stia vicina.

— Anche a me, Carlo — disse la contessa, che si era fatta pallida.

— Hai potuto sapere dove si trova la stanza che mi hanno destinata?

— Sì, l'ultima porta di destra della sala dei giganti.

— Sai condurmi?

— Ti ho detto che tutto l'harem mi è noto.

— Mi è necessario il cofano per prendere la corda e le armi.

— Ebbene vieni, Carlo — disse la contessa con voce recisa.

Erano giunti sulla cima dello scalone. Ida spinse la porta e si trovarono in una lunga galleria illuminata da due lampade di bronzo dorato e coperta da un soffice tappeto che smorzava completamente il rumore dei loro passi. Non vi era nessuno: né eunuchi, né schiave. Non essendo stato ancora dato il segnale del ritiro, tutti dovevano trovarsi nei giardini.

La contessa attraversò rapidamente la galleria seguita dal barone ed entrò in una spaziosa sala, le cui pareti erano coperte d'armi d'una ricchezza favolosa. Disposti in gruppi artistici si vedevano archibugi damascati e inargentati coi calci ad intarsi di avorio e di madreperla e tempestati di gemme; pugnali dal manico d'oro delle celebri fabbriche di Mechinez; yatagan e scimitarre sulle cui lame erano incisi versetti del Corano.

— Dove siamo? — chiese il barone.

— Nella sala d'armi del bey.

— Ecco una buona occasione per provvederci di qualche pugnale — disse il giovane.

Ne staccò due e ne diede uno alla contessa che se lo nascose nella larga fascia che le cingeva la sottile vita.

Anche quella sala era deserta e fu attraversata senza alcuna difficoltà. Passarono poi attraverso parecchie altre gallerie le une più splendide delle altre, ingombre di vasellami, di terra smaltata e d'argento, stupendamente modellati; di giganteschi vasi dove crescevano piante esotiche che spandevano acuti profumi, di mobili d'una bellezza meravigliosa, quindi entrarono in un'altra sala col pavimento a mosaico e dove si vedevano lungo le pareti delle statue colossali che sostenevano una galleria che correva intorno, quasi all'altezza del soffitto. — La sala dei giganti — disse la contessa.

Vi erano parecchie porte mascherate da pesanti tessuti di Sciadmo e numerate. La contessa titubò un istante, poi sollevò una di quelle tende.

— Questa — disse.

Aprì la porta ed entrò in una stanzetta colle pareti coperte di seta azzurra e circondata da divanetti di damasco. Nel mezzo, accanto ad una profumiera di metallo dorato vi era un piccolo letto basso, colla coperta di seta rosa.

— La tua stanza — disse.

Il barone con un salto si era già accostato al suo cofano che aveva subito scorto fra due divani.

L'aprì rapidamente, levò la corda di seta, si cacciò nella cintura un paio di pistole ed un yatagan e prese una lampadina che il Normanno vi aveva collocata per dare il segnale.

— È fatto — disse. — Presto, Ida, fuggiamo.

Un brusìo lontano, che diventava rapidamente più distinto, lo arrestò.

— Che cos'è? — chiese con voce soffocata.

S'avvicinò rapidamente alla finestra e sollevò le cortine di seta verde che un legger venticello gonfiava.

Quella finestra prospettava sui giardini. In mezzo alle piante si vedevano scintillare dei punti luminosi che a poco a poco si riunivano, mentre sotto gli oscuri viali si udivano a rullare i tamburelli ed echeggiare i delicati suoni delle tiorbe e delle mandole.

— Sono le Kadine che tornano coi loro seguiti — disse la contessa. — Fra pochi minuti saranno qui e gli eunuchi, non vedendoci nel gruppo, si metteranno in cerca di noi.

— Alla torre, Ida — disse il barone. — E guai a chi tenterà chiuderci il passo.

— Vi è l'eunuco all'estremità della galleria dei cristalli azzurri.

— Lo ucciderò — disse freddamente il giovane. — Vieni.

Le voci delle odalische, delle beslemè e delle schiave, accompagnanti le quattro Kadine del bey ed i suoni dei tamburelli e delle tiorbe si avvicinavano rapidamente. Forse in quel momento la loro assenza era stata già rimarcata e gli eunuchi li cercavano nei giardini. Non vi era un istante da perdere.

Uscirono rapidamente dalla stanza, riattraversarono la sala e tornarono nell'ultima galleria la quale metteva su un vasto terrazzo di marmo bianco, ingombro di rosai e di piccoli banani.

— Guarda la torre — disse la contessa, fermandosi. — Si alza dinanzi a noi.

— Non è che a cinquanta passi — rispose il barone. — Faremo presto a giungervi.

— Dovremo prima uscire dalla cinta che divide l'harem dal rimanente della Kasbah. Là sarà il pericolo maggiore perché passano le ronde notturne dei giannizzeri.

— Non potremo evitarle? — chiese il barone, inquieto.

— Vi sono delle piante e la notte è senza luna.

Erano giunti nella galleria dei vetri azzurri, così chiamata perché la vòlta era formata da una gigantesca invetriata di tale colore.

Quantunque non ardesse nessuna lampada e l'oscurità fosse piuttosto fitta, il barone aveva subito scorto, all'opposta estremità, una forma umana che stava ritta dinanzi ad una porta.

La contessa si era fermata, stringendo forte il braccio del gentiluomo.

— Lo vedi? — chiese con un filo di voce.

— Sì.

— È l'eunuco che veglia dinanzi alla porta di ferro che mette nei giardini riservati ai giannizzeri.

— Avrà la chiave?

— Certo.

— Lo ucciderò.

— Se tu potessi solamente atterrarlo ed imbavagliarlo?

— È necessario che muoia o potrebbe venire scoperto da qualcuno e liberato e allora per noi la sarebbe finita. Attendimi.

— Carlo!

— Taci... l'uomo è mio.

L'eunuco erasi appoggiato al vicino verone per respirare un po' d'aria fresca. Un punto luminoso che di tratto in tratto diventava più vivido, indicava che stava fumando per ingannare la noia del suo quarto di guardia. Il barone, colla destra stretta attorno al manico del pugnaletto che aveva preso nella sala d'armi, s'avanzò risoluto e silenzioso, strisciando lungo la parete per rimanere nell'ombra.

La contessa, in preda ad una profonda angoscia, si era rannicchiata in un angolo e seguiva, col cuore sospeso, le mosse dell'ardito capitano. Ad un tratto lo vide slanciarsi. Udì vagamente un sordo gemito, poi un tonfo come di un corpo pesante che cade al suolo. L'eunuco non era più appoggiato al verone.

— Mio Dio! — mormorò, passandosi una mano sulla fronte bagnata d'un freddo sudore.

Il barone tremava.

— La via è libera, — le disse, — e la chiave l'ho io. Dio mi perdonerà questo assassinio.

Prese la contessa per una mano e la trascinò rapidamente verso la porta, mettendosele accanto in modo da impedirle di scorgere l'eunuco.

— Ucciso? — chiese ella fremendo.

— Lo credo — rispose il barone.

Introdusse la chiave nella toppa e fece scattare il chiavistello. Un buffo d'aria fresca, impregnata dell'acuto profumo degli aranci e delle rose, li rianimò. Scesero una stretta gradinata e si trovarono dinanzi ad un'alta muraglia merlata, la cinta che divideva l'harem del bey, dalla Kasbah militare.

— Come usciremo? — chiese il barone. — Vi è qualche passaggio?

— Sì Carlo, alla nostra diritta, un'altra porta che si apre colla medesima chiave.

— Coraggio, Ida; giuochiamo l'ultima carta.

Seguirono per alcuni istanti la muraglia, guardandosi di frequente alle spalle, temendo di essere stati seguiti e giunsero alla porticina. Anche quella era di ferro e così massiccia che il barone anche dopo fatta girare la chiave, dovette spingere con tutte le sue forze per aprirla.

Al di là si estendeva un piccolo parco formato da palme altissime e da minuscoli boschetti di aloè e di fichi d'India.

Si erano nuovamente arrestati, sorpresi della loro audacia, e della loro fortuna. Stettero in ascolto qualche minuto, non osando avanzare. Nessun rumore si udiva né dalla parte dell'harem né da quella degli edifizi abitati dalla guarnigione incaricata della difesa della Kasbah.

— Non si sono ancora accorti della nostra scomparsa — disse il barone.

— Stanno cercandoci nei giardini, ne sono certa — rispose la contessa. — Ogni sera il capo degli eunuchi passa in rivista le odalische e le beslemè.

— Allora può scoppiare un allarme.

— È quello che temo, Carlo.

— Non vedo nessuno sotto questi alberi. Alla torre!

Tenendo stretta la fidanzata, l'animoso giovane si spinse innanzi scrutando attentamente le macchie di aloè e di fichi d'India, sotto le quali poteva trovarsi qualche soldato.

Al di sopra delle piante si vedeva giganteggiare la torre sui cui merli si diceva che vagasse alla notte l'ombra della Kadina assassinata dal giannizzero. Già avevano attraversata mezza distanza e cominciavano a scorgere la stretta scala che metteva sui bastioni, quando udirono stridere la ghiaia del parco e poco dopo dei passi cadenzati.

— La ronda notturna! — balbettò la contessa.

Il barone la spinse in mezzo ad un gruppo di piante la cui ombra era sufficiente a nasconderli. Si coricarono l'uno accanto all'altro, rattenendo il respiro. Cinque uomini armati d'archibugi s'avanzavano lungo la cinta dell'harem, fermandosi dinanzi ad ogni porta per accertarsi se era chiusa. Fortunatamente il barone, per ritardare un possibile inseguimento, aveva avuto la precauzione di non lasciare aperta quella della cinta. Attesero che la ronda si fosse allontanata, poi attraversarono l'ultimo tratto e raggiunsero la scaletta che metteva sul bastione e quindi nella torre. Un altro pericolo però li minacciava, cioè di venire scorti dalle scorte che passeggiavano dietro i merli della cinta. Ebbero un'ultima esitazione.

— Se ci facessero fuoco addosso? — si chiese il barone con angoscia. — Levati il velo, Ida; sei troppo bianca ed offri un punto di mira che non si potrebbe sbagliare.

In un momento la sbarazzò della garza che l'avvolgeva, poi quatti quatti, tenendosi curvi verso i gradini, salirono lestamente.

Varcarono la cima del bastione e scomparvero nella torre senza che le sentinelle avessero dato l'allarme. Colà respirarono a lungo. Il pericolo maggiore era passato.

— Dio ci protegge — mormorò il barone. — Saliamo e diamo il segnale.

Una scala a chiocciola, un po' diroccata, saliva fino sulla piattaforma. A tentoni, tenendosi per mano, si spinsero in alto, dopo però d'aver avuto la buona idea di chiudere la porta e di sbarrarla con un'asta di ferro che avevano trovata lì accanto.

Anche se scoperti, potevano almeno ritardare l'inseguimento. Come già avevano previsto, nessuna sentinella vegliava sulla piattaforma. Di lassù però scorsero facilmente sul bastione vicino che si trovava dieci metri più sotto, un soldato il quale si teneva prudentemente più lontano che gli era possibile dall'angolo della torre per paura di fare conoscenza collo spettro dell'assassinata odalisca. Il barone prese la lanterna che aveva un solo vetro, l'accese con precauzione e la collocò fra due merli, in modo che non potesse venire scorta dal giannizzero. La terrazza del rinnegato era perfettamente visibile trovandosi sul pendio della collinetta, a meno di cinquecento metri, quindi quel punto luminoso lo si doveva scorgere specialmente fra quell'oscurità.

— Devono rispondere? — chiese la contessa.

— Sì — rispose il barone. — Stanno di guardia sul terrazzo in attesa del mio segnale. Ah! Guarda, vedi Ida? Essi fra poco verranno qui e coi cavalli.

Un punto rossastro era comparso sulla casa del rinnegato, poi subito uno verde. Il barone sciolse la corda di seta, sottile ma solidissima, a nodi, ad intervalli di mezzo metro, assicurò un capo ad un merlo e gettò l'altra nel vuoto.

— Avrai coraggio bastante per scendere? — chiese alla contessa.

— Sì — rispose la giovane con voce ferma.

— Dammi la tua fascia di seta.

Legò i polsi della contessa, poi introdusse la testa fra le braccia di lei.

— Stringimi forte Ida — disse.

La sollevò come fosse una piuma, superò il parapetto, poi s'aggrappò alla corda.

— Chiudi gli occhi — le disse.

E cominciò la discesa, mentre la fanciulla si teneva disperatamente aggrappata al suo collo.

In quel medesimo istante al di là del fossato, ai piedi della torre, si udì una voce a gridare forte:

— Chi vive? All'armi giannizzeri!