Le pantere di Algeri/Capitolo 33 - La fuga

Capitolo 33 — La fuga

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Capitolo 32 — Nell'harem del bey Conclusione

33.

LA FUGA


Il Normanno, appena discesa la notte, si era messo in sentinella sul terrazzo della casa, spiando attentamente il segnale che doveva apparire sulla cima della torre.

Era inquieto, nervoso e non riusciva a rimanere fermo un solo istante. Quantunque fosse certo della riuscita di quell'audace piano, così abilmente architettato, e fosse convinto che nessuno avrebbe potuto sospettare che il barone non fosse una fanciulla anziché un uomo, pure si sentiva agitato da mille timori che invano cercava di scacciare. Tutto aveva preparato per una pronta ritirata, appena fatto il colpo. Aveva fatto acquistare altri cavalli pei sei marinai della feluca, pel rinnegato e pel mirab, che desideravano approfittare di quell'occasione per lasciare quella città dove ormai correvano troppi pericoli e nondimeno non era tranquillo. Anche lui, al pari del barone, sentiva vagamente che qualche cosa doveva accadere e che una catastrofe li minacciava tutti.

Attribuiva la causa di quei timori allo stato del suo animo, all'angoscia di quella lunga attesa e si sforzava di scacciarli anche per non impressionare i suoi uomini che si erano radunati sul terrazzo assieme al mirab ed al rinnegato, mentre i cabili ed il loro negro vegliavano sui cavalli raggruppati nel cortile. Erano però tentativi inutili. Le ore passavano e invece di calmarsi sentiva accrescere i suoi terrori. Eppure un profondo silenzio regnava sui bastioni della Kasbah e nessun essere vivente si era mostrato durante la giornata nei dintorni di quelle case diroccate, né sul sentiero che serpeggiava per la collina.

Già dovevano essere quasi le undici, quando al suo orecchio giunse il rumore del galoppo di alcuni cavalli che diventava rapidamente più distinto. Con un salto si era portato verso il mirab che stava seduto sul muricciuolo, tenendo gli occhi fissi sulla torre, la cui massa si delineava perfettamente sul fondo azzurro cupo del cielo, fra miriadi di brillanti stelle.

— Mirab, — disse con voce alterata, — udite?

— Sì — rispose il vecchio, che da qualche istante si era messo in ascolto.

— Chi può salire, a quest'ora la collina?

— Possono essere corrieri che il nuovo capitano generale invia al bey.

— Sono inquieto, mirab, non ve lo nascondo più.

— Che cosa temi, Michele?

— Non lo so, ma mi sembra che qualche grave pericolo ci minacci.

— E quale?

— Lo ignoro.

— Che il barone possa essere stato scoperto?

— Eh, via! Se il capo degli eunuchi non si è accorto di nulla, nemmeno le Kadine, le odalische e le...

— Tacete! Mi pare che i cavalli non seguano più il sentiero che conduce alla Kasbah e che abbiano deviato.

Il mirab si era precipitosamente alzato.

— Sì — disse. — Si dirigono verso questa casa.

Il Normanno si era slanciato sul parapetto per poter meglio vedere. Due cavalieri erano allora comparsi all'estremità della via e s'avanzavano a galoppo sfrenato, dirigendosi verso la casa del rinnegato. — Preparate le armi! — gridò il fregatario ai suoi uomini. I due cavalieri erano già giunti dinanzi alla porta e con una violenta strappata avevano arrestati i loro corsieri che erano bianchi di schiuma, poi erano balzati a terra.

— Aprite! — aveva gridato una voce.

— Per centomila pescicani — esclamò il Normanno. — La principessa! Questa sua visita improvvisa è di cattivo augurio.

Si era precipitato giù dalla scala seguito dal vecchio e dal rinnegato. Aprì la porta e fece entrare i due cavalieri. Erano Amina e Testa di Ferro.

— È ancora nella Kasbah il barone? — chiese la mora con voce rotta.

— Sì, signora — rispose il Normanno, guardandola con ansietà.

— Mio fratello ha saputo che egli è riuscito a entrare in Algeri e temo anche che abbia scoperto questo rifugio.

— Che cosa dite, signora! — esclamarono il mirab ed il fregatario con accento atterrito.

— È come ve la dico.

— Chi può averci traditi?

— Uno dei miei negri che Zuleik ha atrocemente torturato per strappargli ogni cosa e quel disgraziato ha confessato tutto.

— Uno di quelli che ci avevano accompagnati nella nostra fuga? — chiese il Normanno, che era diventato livido.

— E che ha assistito al travestimento del barone.

— Ne siete certa?

— Me lo ha detto quel povero schiavo prima di morire. Mio fratello lo aveva sottoposto a tali martirii, da non poterlo più salvare. L'hanno portato al mio palazzo mezz'ora fa, già agonizzante.

— Che cosa farà vostro fratello?

— Sarà già in marcia coi giannizzeri del governatore per venire ad arrestarvi. Forse non avete che dieci minuti per fuggire.

— Come fare, signora? Aspettiamo il segnale del barone e dobbiamo rispondere. Sa, vostro fratello, che il barone è nella Kasbah?

— Lo sospetto.

— Mille milioni di demoni! — gridò il fregatario, strappandosi un pugno di capelli.

In quel medesimo istante si udirono i marinai della feluca a gridare:

— Il segnale! Il segnale!

— Finalmente! — esclamò il Normanno, facendo un salto. — Giungeranno troppo tardi! Preparate i cavalli!

Salì rapidamente la scala e si slanciò sulla terrazza. Un piccolo punto luminoso scintillava fra due merli della torre.

— Sì, sì, il segnale! — esclamò. — Rispondiamo!

Vi erano due fanali di marina collocati sul parapetto. Li accese poi fuggì a precipizio, gridando ai suoi uomini:

— Seguitemi!

I cabili ed il loro negro avevano già fatti uscire i cavalli, tutti animali scelti con cura e dai garretti solidi. La principessa, che indossava il suo costume di algerino, era salita in sella aiutata da Testa di Ferro che indossava un vestito da arabo.

— Vengono! — esclamò la mora, trattenendo il cavallo.

Un lontano fragore, che sembrava prodotto da uno squadrone di cavalli lanciati ventre a terra, saliva dal basso della collina. Dovevano essere i giannizzeri guidati da Zuleik.

— Via! Al galoppo! — gridò il fregatario. — Quando giungeranno troveranno la casa vuota.

— È pronta la vostra feluca? — chiese la principessa.

— Sì, signora. Ha le vele alzate e la poppa contro la gettata.

— È buona veliera?

— Sfida una galera.

— Potrete uscire dal porto non ostante le gagliotte che incrociano ogni notte dinanzi alla rada?

— Saprò ingannare la loro vigilanza, signora.

La principessa sospirò.

— E domani sarò sola — mormorò con voce triste. — Dio lo vuole.

I tredici cavalieri salirono al trotto il sentiero che costeggiava la Kasbah, poi si gettarono in mezzo al boschetto di palme, non osando avvicinarsi ai bastioni per non allarmare le sentinelle vigilanti dietro i merli della fortezza. Affidarono le cavalcature ai cabili ed al negro, armarono gli archibugi e si diressero verso la torre che si trovava di fronte a loro. S'avanzavano curvi, approfittando delle ineguaglianze del terreno e dei cespugli ond'era cosparsa la spianata.

Il Normanno aveva distinto confusamente qualche cosa di nero che scendeva dall'alta piattaforma.

— Scendono! — aveva esclamato. — Li vedo! Ah! Bravo giovane!

Erano giunti presso il fossato, quando videro due ombre sorgere da terra e udirono una voce poderosa a gridare:

— Chi vive? All'armi giannizzeri!

Il Normanno si era arrestato soffocando una imprecazione. Le scorte che vegliavano sui bastioni, udendo quel grido, avevano pure urlato: All'armi!

— Piombiamo su costoro! — sussurrò il fregatario. — Nel fossato gli altri!

Con uno scatto da tigre si era scagliato sui due uomini coll'yatagan in pugno, seguito da quattro marinai.

La lotta fu breve. I due spioni, sorpresi da quell'improvviso slancio e un po' sconcertati dal numero dei loro avversari, non avevano nemmeno pensato a opporre subito una valida resistenza.

Caddero entrambi l'uno sull'altro colla testa spaccata, senza aver potuto far uso dei loro archibugi, tanto era stato fulmineo l'attacco del coraggioso fregatario.

Gli altri tre marinai e Testa di Ferro si erano già lasciati scivolare nel fossato, mentre la principessa, il rinnegato ed il mirab, il quale pareva che avesse ritrovato il vigore d'altri tempi, puntavano gli archibugi verso le merlature. Il barone, portando la fidanzata che gli si aggrappava disperatamente al collo, scendeva più rapidamente ora che Testa di Ferro e gli altri tenevano ben tesa la corda. Sulla cima dei bastioni però, si udivano dei passi precipitati, dei comandi e si vedevano numerose ombre curvarsi nel vano delle merlature, cercando di discernere che cosa succedeva nel fossato, mentre le scorte delle altre muraglie ripetevano a voce alta l'allarme.

— Presto! Presto! — diceva il Normanno che si era pure lasciato scivolare giù dalla scarpa.

D'un tratto un colpo d'archibugio rintuonò, poi un secondo, quindi un terzo. Le sentinelle cominciavano a far fuoco, quantunque, con quell'oscurità, non avessero potuto distinguere ancora nulla.

Il barone, udendo quegli spari, si era lasciato cadere, tenendo ben stretta la fanciulla.

Quel salto di tre o quattro metri, su un terreno molle e coperto di folte erbe, non poteva avere seria conseguenza e poi dieci mani robuste avevano attenuata la caduta.

— A me la signora — disse il Normanno, sciogliendo rapidamente la fascia di seta.

Afferrò fra le poderose braccia la contessa e s'arrampicò su per la scarpa, mentre i marinai aiutavano il barone che si trovava impacciato nelle sue vesti. Giunti sulla spianata tutti si erano messi a correre verso il bosco, mentre le sentinelle continuavano a far fuoco a casaccio senza aver potuto ancora indovinare la causa di quell'allarme. I fuggiaschi non si arrestarono se non quando si trovarono sotto la fitta ombra delle palme. Solamente in quel momento il barone, non senza una certa apprensione, si era accorto della presenza della principessa la quale si era ritirata da una parte, appoggiando una mano alla sella del suo cavallo.

— Signora — balbettò. — Voi!...

— Vi avevo detto che avrei desiderato rivedervi un'ultima volta prima della vostra partenza — rispose Amina, facendo uno sforzo per non tradire la sua emozione. — Sono felice di incontrarvi a fianco della fanciulla che amate.

Il barone era rimasto alcuni istanti silenzioso, imbarazzato, ora guardando la contessa che osservava con una certa sorpresa tutti quegli uomini ed ora la principessa.

Ad un tratto prese per una mano la fidanzata e traendola vivamente verso Amina, le disse:

— A questa signora io devo la vita e tu la libertà.

— Una donna! — esclamò la contessa.

— La sorella di Zuleik, la principessa Amina Ben-Abad.

La mora e la giovane cristiana si erano avvicinate macchinalmente l'una all'altra. Ebbero una breve esitazione, poi si trovarono abbracciate.

— Perdonerete a mio fratello? — chiese Amina. — Egli vi amava.

— Signora — rispose Ida. — Io gli ho già tutto perdonato.

La principessa con una mossa brusca si era separata. Aveva gli occhi pieni di lacrime.

— Partite — disse con voce rotta. — Ritornate nella vostra bella Italia che un giorno ho tanto amata... Siate felici e rammentatevi qualche volta di Amina Ben-Abad.

— Non ci rivedremo mai più, signora? — disse il barone, più commosso di quanto credeva. — Saremo ben lieti di avervi un giorno nostra ospite sotto quel cielo d'Italia che tanto avete rimpianto.

— L'Africa è la terra che mi ha veduta nascere — rispose Amina con un sordo singhiozzo.

Poi ripetè più volte:

— Dio è grande!

Il Normanno, che si era spinto verso l'orlo del boschetto tornava correndo.

— A cavallo! — esclamò. — Ci danno la caccia!

Sollevò la contessa e la mise sul dorso del miglior cavallo. Tutti erano già in arcione, meno la principessa, i cabili ed il loro negro.

— Partite e che Dio vi protegga — disse Amina.

Strinse la mano al barone, alla contessa ed al mirab, poi tornò ad appoggiarsi al suo cavallo facendo un ultimo gesto d'addio.

In quel momento si udivano distintamente dei cavalli galoppare sul sentiero su cui sorgeva la bicocca del rinnegato. Erano i giannizzeri di Zuleik che accorrevano, attirati dai colpi d'archibugio che continuavano a sparare le sentinelle della Kasbah.

— Addio, signora! — gridò un'ultima volta il barone. — Non vi dimenticheremo mai!

Uno scoppio d'urla formidabili soffocò la sua voce. Un gruppo di cavalieri saliva il sentiero a corsa sfrenata colle lance in resta, vociferando spaventosamente.

— Spronate! — gridò il Normanno. — Giriamo la Kasbah! In coda i marinai!

Il drappello era già in corsa. Il barone, pur continuando ad aizzare il proprio cavallo che si trovava a fianco di quello montato dalla contessa, aveva volto uno sguardo verso il boschetto sotto cui si trovava ancora Amina, assieme ai cabili.

La principessa era ancora là, sotto l'ombra di una palma, sempre appoggiata al suo cavallo. I giannizzeri, che non si erano accorti della sua presenza, avevano continuata la carica oltrepassandola.

— Povera donna — mormorò. — Quale vuoto nel suo cuore!

Soffocò un sospiro e afferrò le briglie del cavallo di Ida affinchè non rimanesse indietro.

Il drappello passò come un uragano accanto alla cuba del mirab, girando al largo della Kasbah per non venire salutato dagli archibugi delle sentinelle e scese il versante opposto per rientrare in città.

Ma anche da quella parte un gruppo di cavalieri saliva. Era meno numeroso dell'altro, tuttavia poteva arrestarli e lasciar così tempo agli altri di giungere.

— Signor barone! — gridò il Normanno. — Carichiamo! A voi il mio yatagan!

— Non ne ho bisogno, sono armato anch'io.

— Al centro la signora col mirab! Tre uomini in coda a coprire la ritirata! Alla carica.

I dodici cavalli arrivarono addosso al drappello di berberi come una tromba. Sorpresi da quell'improvviso attacco e non sapendo veramente se avevano da fare con amici o con nemici, gli algerini si erano arrestati.

— Largo! Servizio del bey! — gridò il Normanno con voce tuonante, per meglio ingannarli.

Caricavano coll'yatagan nella destra, la pistola nella sinistra e le briglie fra i denti.

D'un colpo sfondarono la colonna avversaria, sciabolando furiosamente a destra e sparando a sinistra, gettando di sella una diecina d'uomini e alcuni cavalli e continuarono la corsa sfrenata scendendo verso la città. Dietro di loro si erano alzate urla feroci:

— Inseguiamo i cristiani!

— Fuoco!

— A noi, cavalieri!

Alcuni colpi di moschetto rintuonarono, ma ormai i fuggiaschi erano lontani. Dai bastioni della Kasbah era partito anche un colpo di cannone per dare l'allarme alla guarnigione della città.

— Mille demoni! — gridò il Normanno. — Si sono accorti della nostra fuga. Ora avremo alle calcagna tutta la cavalleria berbera!

In lontananza, verso la cima della collina, si udiva il galoppo furioso d'un gran numero di cavalli. I due drappelli dovevano essersi riuniti e slanciati insieme dietro ai fuggiaschi.

— Scommetterei che abbiamo Zuleik alle spalle — disse il Normanno al barone. — Quell'uomo non ci lascerà e ci darà la caccia anche in mare.

— Potremo guadagnare il largo prima che si avvertano gli equipaggi delle galere?

— Lo spero, signore. Spronate amici, spronate! Fra cinque minuti saremo a bordo della feluca.

I cavalli, continuamente aizzati, divoravano la via, con un fracasso infernale, attirando alle finestre non pochi curiosi già allarmati dal colpo di cannone che era echeggiato in direzione della Kasbah e che annunciava qualche grave avvenimento.

Nelle vie vicine si udivano a correre degli uomini e delle grida di allarme. Una ronda notturna, incontrata sull'angolo d'una piazza, fu travolta prima che avesse avuto il tempo di intimare la fermata e di far uso delle armi. Ormai più nessuno poteva resistere a quel gruppo di cavalieri che caricava con uno slancio irresistibile che metteva spavento a tutti.

I giannizzeri che apparivano, invece di cercare di arrestarlo, fuggivano a tutte gambe, per salvarsi anche dagli altri cavalieri che seguivano a non molta distanza i primi e che si annunciavano con clamori assordanti. Cinque minuti dopo il Normanno ed i suoi compagni sbucavano sulla gettata. La feluca, colle vele già alzate era là, a pochi passi, pronta a salpare.

— A terra! — gridò il fregatario, udendo dietro di sé il galoppo precipitoso di coloro che li inseguivano. — Abbiamo appena il tempo d'imbarcarci.

Con delle strappate terribili arrestarono i corsieri e si gettarono confusamente dall'arcione. Il barone aveva preso fra le braccia la contessa e si era già slanciato sulla tolda della feluca, la quale aveva la poppa appoggiata al molo. I primi cavalieri apparivano già all'estremità della gettata e si vedevano anche accorrere dalle viuzze vicine numerosi giannizzeri.

— A bordo! — gridò il Normanno.

Si precipitarono tutti sulla tolda e tagliarono la fune che univa la feluca a terra; gli altri sei marinai che erano stati lasciati a guardia del piccolo legno avevano già orientate le vele.

Per fortuna il vento era favorevole soffiando dalla collina. Il Solimano, aiutato anche da alcuni colpi di remo, prese subito il largo manovrando abilmente fra le navi mercantili che ingombravano la rada e che, almeno per qualche tempo, lo coprivano dai colpi che potevano essere sparati dalla riva. I cavalieri erano già giunti e scorgendo le cime degli alberi e le immense antenne sfiorare i bordi delle vicine gagliotte, si erano messi a urlare con quanta voce avevano in corpo:

— All'armi! I cristiani fuggono! Date addosso!

Poi una voce più poderosa delle altre si alzò fra tutto quell'urlìo:

— Cane d'un barone! Avrò la tua pelle!

— Zuleik! — aveva esclamato il Normanno, rabbrividendo. — Me lo immaginavo!

— Delle scialuppe! Delle scialuppe! — gridavano intanto i cavalieri ed i giannizzeri di ronda.

Il barone che aveva portato la contessa nella cabina di poppa, quasi svenuta, risaliva in quel momento. Aveva cambiate vesti e indossava la corazza di combattimento.

— Ci inseguono anche in acqua? — chiese, vedendo il Normanno che caricava una delle due piccole colubrine che armavano la feluca.

— Sì, signore — rispose il fregatario. — E guai a noi se non usciamo dalla rada prima che l'allarme si sia propagato anche alle gagliotte che incrociano all'imboccatura. È Zuleik che ci insegue. Potessi mitragliarlo!

— Non lo farete Michele — rispose il barone. — Non dimentichiamo che è il fratello della donna che ci ha salvati.

— Ecco una generosità inopportuna, signore. Ah! Sacripanti!

Un lampo era balenato sulla terrazza del bagno di Alì-Mamì che era il più vicino, seguito da un cupo rimbombo.

Si segnalava alle gagliotte di chiudere il porto e d'impedirne l'uscita a tutti. Una sorda imprecazione era sfuggita dalle labbra contratte del fregatario. Balzò sulla murata e guardò attentamente in direzione della bocca del porto.

— Forse giungeremo in tempo — mormorò. — Sono lontane in questo momento ed il vento è fresco.

Si volse verso i suoi uomini che aspettavano i suoi ordini in preda ad una profonda ansietà.

— Che nessuno faccia fuoco — disse. — Se segnaliamo la nostra rotta ci caleranno a picco a cannonate.

Guardò poscia verso la riva. Delle scialuppe cariche di soldati sfilavano velocissime fra le navi ancorate, sparando di quando in quando qualche colpo d'archibugio.

— A me il timone — disse. — Fuori i fiocchi e issate una vela quadra sopra la latina maestra. Le faremo correre.

Il Solimano, che aveva la brezza in favore e che come tutte le navi fregatarie era un ottimo camminatore, fuggiva velocissimo dirigendosi verso la punta orientale, nella cui direzione in quel momento non si scorgeva alcun fanale che indicasse la presenza delle gagliotte. Con due bordate attraversò la rada e poggiò contro la costa per meglio confondersi colle rupi e colle piante che sorgevano in quel luogo e che proiettavano sull'acqua un'ombra intensa.

In quell'istante anche sulle terrazze degli altri bagni si sparavano i cannoni per avvertire le gagliotte che in quel momento perlustravano verso la punta occidentale.

Le due navi avevano già risposto e veleggiavano in direzione della rada, stringendo il vento.

— Che ci abbiano scorti? — chiese il barone con voce alterata.

— Non ancora, signore — rispose il Normanno, che le osservava attentamente.

— Ma poi?

— Ci daranno la caccia, di ciò sono certo. Guardate quelle quattro scialuppe che si dirigono verso le gagliotte. Su qualcuna vi sarà Zuleik.

— La vostra feluca è però più rapida.

— E anche le gagliotte filano bene, signore. Non sono pesanti come le galere d'alto bordo.

— Dove poggeremo noi?

— Verso le Baleari, per ora. Sono le più vicine e troveremo un buon rifugio. Attenzione, signore! Ecco il capo! Saremo costretti a scoprirci! Gettatevi sul ponte... grandinerà presto.

Dalle quattro scialuppe che avevano già attraversata la rada, s'alzavano senza posa le grida:

— Fermatevi! Fuoco dalle gagliotte! Essi vi sfuggono!

Le due navi incaricate della sorveglianza del porto, facevano sforzi prodigiosi per giungere in tempo, nondimeno si trovavano impotenti a lottare colla feluca che aveva il vento in poppa. E poi vi era da dubitare che l'avessero scorta, giacché il fregatario si stringeva sempre addosso alla costa per rimanere nell'ombra. Disgraziatamente la penisoletta che chiude la rada verso oriente stava per finire ed il Solimano stava per mostrarsi.

— Cinquecento metri! — esclamò il fregatario. — Forse passeremo senza troppi guasti. Bordate a babordo!

Tre delle quattro scialuppe avevano seguito la feluca nella sua rotta. La quarta invece s'era portata al largo ed aveva abbordata la prima gagliotta.

— È Zuleik che s'imbarca — mormorò il fregatario. — Dirigerà lui l'inseguimento.

In quel momento il Solimano, con un'ultima bordata, superava la punta Malifa slanciandosi risolutamente nel Mediterraneo.

In lontananza si udirono delle voci a gridare:

— Fuoco!

Quattro colpi di cannone rimbombarono sulle tolde delle gagliotte, seguiti da una nutrita scarica di archibugi.

Gli equipaggi vedendo la feluca passare, dinanzi a loro, avevano fatto fuoco sperando di arrestarla in piena volata.

Una palla abbattè la punta dell'albero maestro facendo cadere la vela quadra, fatta innalzare poco prima dal Normanno, e fu l'unica che giunse a destinazione perché le altre si perdettero altrove.

— Troppa precipitazione! — gridò allegramente il fregatario. — Signor barone, se non ci hanno affondati ora, non ci caleranno più a picco.

S'ingannava però. Le due gagliotte lungi dal fermarsi avevano virato rapidamente di bordo, mettendosi in caccia, mentre le tre scialuppe, giudicando ormai inutile continuare la corsa, si arrestavano presso il capo Malifa. Il Normanno s'accorse ben presto che aveva da fare con due rapide veliere che potevano gareggiare senza fatica con lui. I barbareschi, che erano allora valentissimi marinai, forse i migliori del Mediterraneo, avevano coperte le antenne di velacci e perfino di scopamari e manovravano in modo da prendere in mezzo la feluca per tagliarle la via a ponente e ad occidente. Il volto del fregatario era diventato oscuro.

— Signor barone — disse con voce un po' alterata. — Avremo ben da fare a la sciarci indietro quei due mastini rabbiosi. Filano come rondini marine e manovrano con un'abilità che mi spaventa.

— Che riescano a raggiungerci?

— Non lo credo, finché la brezza durerà.

— Tende a scemare!

— Cadrà o rallenterà coll'alzarsi del sole.

— Verranno all'abbordaggio?

— Lo tenteranno, signore.

— E potremo noi resistere?

— Hanno equipaggi quattro volte più numerosi dei nostri e colubrine di buon calibro.

— Mi stupisce che non si servano delle loro artiglierie. Siamo ancora a tiro.

— Ci avrebbero già calati a fondo se non avessero a bordo Zuleik.

Il barone lo guardò senza comprendere.

— È vivi, signore, che vogliono prenderci o meglio è viva che Zuleik vuole avere la contessa.

— Bisognerà però che passi prima sul mio cadavere! — esclamò il barone, facendo un gesto di furore.

— E sul mio — disse una voce accanto a lui.

Era la contessa che aveva lasciata la sua cabina, impaziente di conoscere come andavano le cose.

— Zuleik è là, è vero? — chiese indicando le gagliotte.

— Sì, Ida — rispose il barone.

— Non mi avrà viva — diss'ella con voce risoluta. — Morremo assieme, mio Carlo. Meglio i gorghi del Mediterraneo che in mano di quell'uomo che io detesto.

— Non ci hanno ancora presi e siamo in buon numero e bene armati, è vero Normanno.

— Sì — rispose il fregatario che non voleva spaventarla. — Se cominceranno il fuoco, risponderemo vigorosamente e faremo ballare gli alberi e anche i barbareschi se...

Un colpo di cannone, sparato dalla gagliotta più vicina, gli impedì di finire la frase. Il barone si era prontamente gettato dinanzi alla contessa, ma attese invano il sibilo rauco del proiettile.

— Colpo in bianco — disse il Normanno. — Ci intimano di fermarci sotto minaccia di calarci a fondo. Alle colubrine, ragazzi! E voi, signora, nella cabina.

Il barone l'aveva appena condotta nel piccolo quadro di poppa, quando l'albero di trinchetto, spaccato da due palle incatenate, lanciate a fior di coperta dalla prima gagliotta, cadeva sul ponte ingombrandolo di cavi e di vele. Nel medesimo istante una viva fucilata grandinava sui fianchi della feluca la quale aveva interrotta la sua corsa. Il barone, udendo quel fracasso, era risalito in coperta.

— Siamo perduti! — aveva esclamato. — Volete l'abbordaggio? Ebbene, venite a prendere la mia fidanzata! A me, miei prodi! Per la Croce di Malta e per l'onore della cristianità!...

Delle scialuppe erano state calate in acqua dalle due gagliotte e si erano riempite rapidamente d'uomini, i quali vogavano fra spaventevoli vociferazioni, correndo addosso alla feluca. Il Normanno si era levato di sotto l'immensa vela latina che l'aveva coperto.

— Fuoco su quei cani! — aveva urlato.

Due colpi di colubrina avevano tenuto dietro a quel comando, uno diretto sulla gagliotta più vicina, l'altro sulle scialuppe.

Una di queste, colpita in pieno, erasi spaccata rovesciando in acqua l'equipaggio. Ve n'erano però altre sette, cariche di uomini al punto d'affondare e che acceleravano la corsa, proteggendosi con scariche violentissime.

— Se montano a bordo è finita — mormorò il povero Testa di Ferro, quantunque avesse finalmente ritrovata la sua famosa mazza.

Il barone ed il Normanno non avevano però perduta la testa. Validamente aiutati dai marinai sparavano senza tregua, cercando di arrestare le scialuppe. Anche l'ex-templario, che un tempo era stato un valoroso guerriero, quantunque così vecchio, si batteva splendidamente a fianco del rinnegato, fucilando i più vicini con un sangue freddo ammirabile e gridando ad ogni colpo:

— Tenete duro, ragazzi!

Quelle scariche però non bastavano a tenere lontane le scialuppe le quali approfittavano del lungo tempo che richiedeva il ricaricamento degli archibugi. Una abbordò la feluca sotto la poppa ed il suo equipaggio si rovesciò sulla coperta con urla formidabili.

Il barone ed il Normanno si erano precipitati da quella parte per contrastare il passo agli assalitori.

Un grido sfuggì alle loro labbra scorgendo l'uomo che guidava quel primo drappello d'infedeli.

— Zuleik!

Il moro aveva risposto con una risata feroce.

— Sì, sono io — disse scagliandosi addosso al barone colla scimitarra alzata. — Arrivo a tempo per ucciderti e rapirti ancora la fidanzata.

Il signor di Sant'Elmo, che impugnava una scure d'abbordaggio, a sua volta gli si era gettato addosso mandando un vero ruggito.

Con un salto evitò la scimitarra del rivale, poi lo percosse così fieramente sulla corazza da farlo stramazzare sulla coperta.

Stava per replicare il colpo, quando parecchie cannonate rimbombarono improvvisamente al largo seguite da urla altissime:

— Malta! Malta!

Il barone aveva alzata la testa.

Le scialuppe si erano arrestate ed i barbareschi che erano montati all'abbordaggio s'imbarcavano precipitosamente, gridando:

— I cristiani! Si salvi chi può!

Una grossa nave era improvvisamente comparsa, come se fosse sorta dalle profondità del Mediterraneo e cannoneggiava furiosamente le due gagliotte le quali si preparavano già a virar di bordo per fuggire verso Algeri.

— A noi, maltesi! — gridavano i marinai della feluca, che avevano già scorta la nave.

Il Normanno che finiva di rovesciare in mare, a colpi di scure, gli ultimi barbareschi, per sbarazzare la coperta, aveva pure lanciata una tuonante chiamata:

— A noi, cristiani!

La galera, giunta così opportunamente in loro aiuto, quando ormai stavano per venire sopraffatti dal numero, pur continuando a cannoneggiare le gagliotte e le scialuppe, s'accostava alla feluca per proteggerla meglio dalle artiglierie avversarie che cominciavano a tuonare.

— Chi siete? — gridò una voce partita dal castello di prora.

— Cristiani! — aveva risposto il barone.

— Accostate!

Una imbarcazione carica d'uomini, coperti di ferro, colle spade in pugno, si era diretta sulla feluca.

Il capo che la comandava, con un salto era salito a bordo ma appena trovatosi dinanzi al barone, aveva lasciata cadere la spada mandando un grido di gioia.

— Sant'Elmo!

— Le Tenant!

I due uomini si erano precipitati l'uno nelle braccia dell'altro.

— Dio mi ha guidato — disse il maltese. — Non credevo di giungere in così buon momento, mio caro barone, per salvarvi.

— Come vi trovate qui, Le Tenant? — chiese il barone, stupito di rivedere il suo luogotenente.

— Vi avevo ben promesso che sarei venuto nelle acque d'Algeri per aiutarvi nella vostra impresa e, come vedete, ho mantenuta la parola. Da tre notti incrociavo in vista della costa, cercando un mezzo per introdurmi in città onde avere vostre notizie. E la contessa?

— È qui: l'ho salvata.

— Fuggiamo, barone e senza perdere tempo. Le gagliotte veleggiano precipitosamente su Algeri per chiedere soccorsi e non ho alcun desiderio di attirarmi addosso tutte le galere del capitano generale. Prenderemo a rimorchio questa feluca e andremo a Malta senza arrestarci.

— Un momento, capitano, — disse il Normanno, — vi è un uomo da appiccare.

— Chi?

— Zuleik, il traditore.

Il moro, che il barone aveva dimenticato, tornava allora in sé dal terribile colpo di scure che aveva ricevuto in mezzo alla corazza. Udendo le parole del fregatario, con uno sforzo violento si era alzato.

— Ebbene, giacché ho perduto, uccidetemi — disse. — La vita, senza la contessa di Santafiora, sarebbe troppo tormentosa per me. Cacciatemi la spada nel petto, signor barone: Zuleik Ben-Abad non ha mai temuta la morte.

— Michele — disse il giovane gentiluomo. — Avete una scialuppa a bordo?

— Sì, signore.

— Fatela gettare in acqua.

La piccola scialuppa fu lanciata.

— Zuleik Ben-Abad — disse allora il barone, indicandogliela. — Voi siete libero e potete tornare nel palazzo dei vostri avi.

Il moro, stupito da quella inattesa generosità, non si era mosso, credendo forse di non aver ben compreso.

— Andate, — disse il barone, — e dite a vostra sorella, che il barone di Sant'Elmo e la contessa di Santafiora si ricorderanno sempre di Amina Ben-Abad.

Zuleik abbassò il capo, attraversò lentamente la tolda e scese nella scialuppa senza pronunciare una parola.

Prese i remi e si spinse al largo volgendo le spalle alla feluca. — Ecco un briccone fortunato — disse il Normanno. — Io, al vostro posto, signor barone, l'avrei appiccato al pennone più alto della vostra galera.

— L'avevo promesso alla principessa ed ho mantenuta la parola: ho perdonato, ecco tutto.