Le pantere di Algeri/Capitolo 21 - La tortura

Capitolo 21 — La tortura

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21.

LA TORTURA


Culchelubi, capitano generale delle galere del bey d'Algeri, era la bestia nera dei cristiani. Bastava il suo nome per far impallidire tutte quelle migliaia e migliaia di schiavi rinchiusi nei bagni dei Pascià, di Ali Mami, di Koluglis, di Zidi-Hassam e di Santa Caterina.

La sua ferocia era diventata proverbiale, come era diventato proverbiale l'odio implacabile che nutriva verso il cristiano, a qualunque nazione appartenesse ed a qualunque sesso.

Culchelubi rappresentava il fanatismo mussulmano spinto fino all'ultimo limite, più per principio però che come convinzione, perché se ne rideva anche di Maometto, non osservando affatto i precetti del Corano, ai quali faceva volentieri degli strappi per ubriacarsi giornalmente coi migliori vini di Spagna e d'Italia, frutto delle sue rapine.

Sorto dal nulla, dotato però d'un coraggio straordinario, vero tipo di pirata, aveva raggiunto rapidamente i più alti gradi, cumulando ricchezze enormi. Era un vero devastatore del Mediterraneo e non vi era costa che egli non avesse saccheggiata, come non vi era flotta che egli non aveva vinta. Nell'epoca in cui si svolge questa veridica istoria, era all'apogeo della sua potenza, e poteva far tremare talvolta lo stesso bey d'Algeri. I migliori palazzi erano i suoi; le più solide galere che egli conduceva di vittoria in vittoria erano sue; le schiave più belle e gli schiavi più robusti erano pure suoi. Ma quali inenarrabili atrocità commetteva contro i disgraziati che si trovavano nei suoi palazzi! Quante lagrime e quanto sangue dovevano versare quei miseri!

Un fallo, una mancanza qualsiasi, una parola, erano pretesti validi per la pantera d'Algeri, per martirizzarli con una ferocia inaudita. Né età, né sesso, né bellezza trovavano grazia presso di lui. Si divertiva a battere i suoi schiavi colle proprie mani, usando un enorme randello che li faceva stramazzare al suolo mezzo morti e colle costole fracassate; e per divertirsi, quando era ubriaco, faceva attaccare alle colonne delle sue gallerie le cristiane rapite alle spiagge dell'Italia, della Provenza e della Spagna e si compiaceva di farle frustare a sangue.1

Orribili pene applicava poi a coloro che, esasperati da quei maltrattamenti, cercavano di fuggire dai suoi palazzi o dai bagni. Li faceva gettare su ramponi di ferro piantati nei muri dei suoi sotterranei o delle sue gallerie, lasciandoli morire lentamente; o immergere fino alla cintola in fosse ripiene di calce viva; o li faceva uccidere a furia di bastonate applicate sulla pianta dei piedi e sul ventre; o schiacciare entro giganteschi mortai a colpi di pilone. Ma era soprattutto sui fregatari che sfogava il suo odio. Guai se qualcuno cadeva nelle sue mani. Erano supplizi atroci che dovevano subire e prima fra tutto lo spelamento, eseguito con rasoi e sulle carni denudate di quei miseri si divertiva a far versare olio bollente o cera liquefatta, per vederli contorcersi e udirli a ululare come belve feroci.

Il barone, appena fatto scendere da cavallo, era stato brutalmente legato colle mani dietro al dorso, in modo da non poter più opporre la menoma resistenza; poi, assieme a Testa di Ferro, condotto attraverso una serie di corridoi brulicanti di guardie, che vedendoli passare li guardavano sogghignando. Era stato finalmente introdotto in una spaziosa galleria, tutta di marmo bianco, sorretta da colonnine doriche, sulle quali si vedevano numerose macchie rosse che parevano di sangue.

Ampie persiane pendevano dalle arcate, riparando dai raggi del sole e lasciando in una penombra i gruppi di splendide palme che formavano, alle estremità, due boschetti del più bell'effetto.

Su un divano di seta rossa, molto basso, semicoricato su soffici cuscini, se ne stava un uomo sui cinquantanni, con una barba brizzolata, colla fronte rugosa, gli occhi vividi e tetri, che avevano dei lampi da belva ed un naso adunco come il becco d'un pappagallo.

Era tutto vestito di seta bianca, con larghi bordi d'oro e bottoni formati da smeraldi e teneva in mano un ricco narghilè adorno di perle, a canna lunga e bocchino d'ambra, che di quando in quando accostava alle labbra con aria annoiata, gettando in aria buffi di fumo impregnati d'un acuto odore di essenze di rosa.

Accanto a lui, ritti presso il divano, vi erano due negri seminudi, di forme atletiche, che tenevano in mano due larghe scimitarre dalla lama scintillante. Conservavano una immobilità perfetta e non staccavano i loro sguardi dal vecchio, pronti a obbedirlo al menomo cenno.

Il barone era stato spinto nella galleria solo, essendo stato trattenuto fuori Testa di Ferro.

— Il capitano generale delle galere ti aspetta — disse l'ufficiale che lo accompagnava.

Il povero gentiluomo aveva sentito un brivido gelido scorrergli per tutto il corpo. Sapeva chi era Culchelubi per non provare un senso di terrore. Nondimeno s'avanzò ritto, colla fronte alta e con passo calmo fino dinanzi al divano, fissando audacemente il terribile volteggiatore del Mediterraneo, dinanzi a cui tutti tremavano.

Culchelubi si era alzato per meglio osservare il nuovo venuto. Doveva trovarsi in uno dei suoi rari momenti di buon umore e di calma; considerò il giovane senza aggrottare la fronte e senza che i suoi occhi s'illuminassero di quella fosca fiamma che i suoi disgraziati schiavi ben conoscevano. L'esaminò per alcuni istanti con una certa attenzione, aspirò due o tre volte, con lentezza studiata, il profumato fumo del suo narghilè, poi levò da un borsellino di madreperla che gli pendeva dalla cintura un bigliettino e lo lesse più volte.

— Un bel giovane — disse poi, in buon italiano, con un sorriso un po' ironico. — Chi sei tu?

— Un levantino — rispose il barone.

— Cristiano?

— Mussulmano.

— Perché mi hai risposto in italiano?

— È la lingua che io uso, trafficando sempre coi porti italiani.

— Perché sei venuto in Algeri?

— A vendere un carico di spugne, acquistato a Deidjeli.

— Dov'è la tua barca?

— L'ho mandata a Tangeri a caricare marocchino e tappeti di Rabat.

— Dunque tu sei un marinaio?

— E mussulmano. Credo nel Profeta.

— Sai perché sei stato arrestato?

— Lo ignoro.

— È stata fatta una denuncia contro di te — disse Culchelubi.

— E quale? — chiese il barone, che era risoluto a mentire tutto, per non travolgere nel pericolo anche la contessa di Santafiora.

— Che tu sei un cristiano.

— Colui che l'affermò è un miserabile — rispose il giovane, con suprema energia. — Anche l'altro giorno ho pregato nella moschea dei dervis giranti.

Culchelubi fece ad uno dei due negri un cenno.

Lo schiavo o carnefice che fosse, prese su una piccola mensola d'ebano incrostata d'oro un libro legato in marocchino rosso e l'aprì mettendolo dinanzi al barone.

— Poni la tua destra su quelle pagine, — disse Culchelubi, con un triste sorriso — e ripeti con me queste parole. Come tu sai, quel libro è il Corano.

«In nome di colui che è solo ed unico Dio, giacché non vi è altro Dio che lui;

«In nome di Maometto che è il solo Profeta, giacché non vi è altro Profeta che lui;

«Io giuro di essere un vero credente e ciò lo affermo sotto pena dell'eterna dannazione.»

Il barone rimase muto.

— Perché non giuri? — chiese Culchelubi, fingendosi sorpreso.

— Perché sono un gentiluomo — rispose il povero giovane.

Culchelubi era scoppiato in una risata, satanica.

— Ecco la commedia finita — disse. — Se tu non fossi il barone di Sant'Elmo a quest'ora ti avrei mostrato quanto sia pericoloso cercare d'ingannare Culchelubi.

— Voi mi conoscete? — esclamò il barone con stupore.

— Sapevo chi eri, prima ancora che tu entrassi in questa galleria, ma avevo voluto metterti alla prova. Tu non sei un negoziante di spugne, bensì un cavaliere di Malta, che ha dato già molto da fare ai miei volteggiatori e che per poco non affondavi quattro delle mie galere nelle acque della Sardegna.

«Come vedi sono bene informato sul tuo vero essere. Peccato che tu non sia mussulmano! Se alla tua età sei già così valente e tanto prode, chissà che cosa diverresti fra dieci anni... se vi giungerai: ecco il pericolo.»

— Giacché voi sapete chi sono, se vi garba, fatemi uccidere — disse il barone. — I Sant'Elmo sono gente di guerra.

— C'è tempo — disse Culchelubi con voce un po' meno aspra. — Se però vuoi, potresti salvare la vita, e riavere anche la libertà.

— In qual modo? — chiese il barone.

— Confessandomi il nome del fregatario che qui ti ha condotto ed il luogo ove si trova...

— Oh! Non speratelo mai — rispose il giovane capitano. — Un gentiluomo non tradisce e soprattutto un Sant'Elmo. Piuttosto di farlo mi lascio uccidere.

— Sei di buona razza, giovanotto e, sinceramente, ti ammiro. Sotto sembianze femminili hai il cuore d'un leone. Non è però tutto questo. Se abbandono l'idea di strapparti il nome del fregatario che ti ha qui condotto, giacché non può essere stato che uno di quei cani dannati che abbia osato sbarcarti in Algeri e che spero di scovare egualmente, devi dirmi che cosa sei venuto a cercare qui.

— Assicurarmi se un mio amico, fatto prigioniero dai vostri alcuni mesi or sono, era vivo o morto.

— E se si trattasse invece d'una amica? — chiese Culchelubi, con un sorriso malizioso.

Il barone trasalì e dovette fare uno sforzo supremo per non lasciarsi uscire un grido. Il suo pallore però era tale che non isfuggì agli sguardi indagatori di Culchelubi.

— Ho colpito nel segno, è vero? — chiese.

— No — rispose il barone con voce spezzata dall'angoscia. — Si tratta d'un uomo e non d'una donna.

— Allora mi dirai chi è. Senza affannarti a cercarlo ti potrei dire fra qualche ora se è vivo o morto.

— Non posso dirvelo.

— In tal caso mi convinci vieppiù che si tratti d'una donna.

— Lo nego.

— Vorresti cercare ancora d'ingannarmi? Perderesti inutilmente il tuo tempo. Io so già che si tratta d'una giovane cristiana che tu ami.

— La conoscete! — urlò il barone, smarrito.

— Vedi che ti sei tradito — disse Culchelubi, sempre ridendo. — Il tuo giuoco è scoperto, ma non ho ancora vinta la partita.

— Che cosa volete dire?

— Che mi occorre il nome di quella giovane.

— Per cosa farne di lei?

— Io?... Nulla... forse... ma vi è qualcuno che desidera saperlo.

— O qualcuna?

— Questo lo ignoro.

— È una principessa mora che vuole saperlo.

— Qui, dinanzi a te, non vi è che il capitano generale delle galere — disse Culchelubi, aggrottando la fronte e facendo un gesto d'impazienza. — Vuoi dirmi chi è quella cristiana e presso chi si trova ora?

— Potete uccidermi, ma non lo saprete mai.

— Eh! Bada! Non sempre si uccide presto.

— Conosco tutto l'orrore dei vostri supplizi.

— Non di tutti forse. Per l'ultima volta, vuoi dirmelo?

— No — rispose il barone.

— Per la morte di tutta la cristianità, la mia pazienza è esaurita! — gridò Culchelubi. — Se non avessi saputo d'aver dinanzi un giovane valoroso, non ti avrei ascoltato tanto.

Poi volgendosi verso i due negri che erano rimasti sempre impassibili due statue di bronzo, disse:

— Agite!

I due negri alzarono una tenda che si trovava situata proprio di fronte al divano e che nascondeva una colonna di marmo verde, di forma quasi perfettamente liscia, con parecchi braccialetti di ferro infissi dinanzi e con sulla cima una vasca di rame, artisticamente cesellata, fornita d'un piccolo tubo leggermente ricurvo.

Il barone guardò quello strano istrumento di tortura, senza riuscire a comprendere a che cosa potesse servire, non vedendo sulla colonna né meccanismi di alcuna specie, né punte di ferro, né lame che potessero in qualche modo offendere le carni.

I due negri ad un cenno di Culchelubi s'impadronirono del barone e lo spinsero verso la colonna appoggiandovelo contro col dorso e chiudendogli le gambe e le braccia entro gli anelli di ferro, in modo da impedirgli di fare il più piccolo movimento.

Gli passarono in seguito una cinghia sulla fronte, stringendogli il capo contro la colonna, poi con due colpi di rasoio gli fecero cadere alcune ciocche dei suoi lunghi capelli biondi lasciando scoperto il centro del cranio su uno spazio non più largo d'un zecchino.

— Parlerai ora? — gli chiese Culchelubi, che si era accomodato sul divano, assaggiando una tazza di caffè recatogli da un valletto negro.

— No — rispose il barone, con voce più che mai ferma.

— Sai che la goccia continua finisce, col tempo, per forare la roccia?

— Non capisco che cosa dite.

— Ora lo saprai.

Riaccese il narghilè, si sdraiò sui cuscini e dopo d'aver aspirato due o tre boccate di fumo, fece con la mano un segno.

Subito il barone sentì l'impressione di una larga goccia d'acqua gelata che gli cadeva in mezzo alla testa, percuotendo con rumore il piccolo disco privo di capelli. Impallidì e per un istante chiuse gli occhi. Quella goccia era stata per lui una rivelazione. Ora comprendeva le parole dette dal terribile capitano generale delle galere e, forse per la prima volta in vita sua, si sentì invadere da un pazzo terrore. Voleva dunque, quel torturatore di cristiani, forargli il cranio lentamente, colla goccia continua? Quale spaventevole supplizio aveva inventato il genio infernale di quel barbaro?

Guardò Culchelubi cogli occhi dilatati dallo spavento. Il capitano generale pareva che non facesse più attenzione a lui.

Fumava tranquillamente seguendo cogli sguardi distratti le nuvolette di fumo, vuotando di quando in quando un bicchiere di vino di Spagna ad onta delle proibizioni del Profeta, mentre i due negri, sempre immobili e sempre silenziosi, avevano ripreso il loro posto presso il divano, appoggiandosi sulle loro larghe scimitarre.

Le gocce intanto si succedevano alle gocce, cadendo con lentezza misurata, regolate senza dubbio dalla canna e battendo sempre nello stesso punto, non potendo il barone, in causa della cinghia che gli stringeva la fronte, fare il menomo movimento.

Dapprima il disgraziato giovane aveva provato, anziché un tormento, un certo senso di benessere. Quell'acqua freschissima, anzi gelata, che gli scorreva lungo i capelli bagnandogli a poco a poco il corpo ed inzuppandogli le vesti, non era certo disgradevole col caldo che regnava già nella galleria, esposta all'ardente sole africano; ma dopo un quarto d'ora aveva cominciato a sentire dei brividi e una irritazione nervosa che diventava sempre più acuta, mentre provava agli orecchi un ronzìo strano.

Quella semplice goccia gli pareva che diventasse più pesante di minuto in minuto e che gli percuotesse il cranio con maggior forza, come se il liquido si fosse tramutato in mercurio. Quei colpi si ripercuotevano sul suo cervello con intensità dolorosa la quale aumentava sempre, impedendogli perfino di pensare. Nelle cellule cerebrali regnava una confusione strana.

— Se questo supplizio continuerà a lungo io finirò per impazzire — mormorò. — Eppure Culchelubi non mi strapperà mai il nome della mia Ida, perché una simile confessione segnerebbe la morte di quella povera creatura. Qui sotto vi è l'odio e la gelosia d'Amina, il cuore me lo dice.

Guardò Culchelubi: continuava a fumare ed a bere e inghiottiva ora dei gelati che un valletto di quando in quando gli portava. I due negri, sempre immobili, tacevano, cogli sguardi fissi sul recipiente di rame.

Un silenzio profondo regnava nella galleria, rotto solamente dal monotono cadere di quella maledetta goccia che batteva senza tregua. Passò un altro quarto d'ora. La testa del disgraziato gocciolava da tutte le parti e le vesti erano completamente inzuppate. Sul tappeto si era formata una piccola pozza che sempre più si allargava.

Il dolore era diventato così intollerabile, che il barone cominciava a dubitare di poter resistere a quello strano supplizio. Ora gli pareva di ricevere dei colpi di mazza che gli facevano rintronare terribilmente il cervello.

Le tempie gli battevano febbrilmente, le orecchie gli ronzavano più forte che mai, la confusione aumentava nelle cellule cerebrali. Provava dei brividi incessanti e si sentiva girare la testa. Un gemito gli sfuggì dalle labbra contratte.

Udendolo, Culchelubi aveva deposta la canna del narghilè e si era alzato, guardando il barone ironicamente.

— Ebbene, bel ragazzo — disse. — Che te ne pare della mia invenzione? Io credo che i monaci della inquisizione di Spagna non sarebbero stati capaci di idearne uno di simile. Parlerai ora?

— No — rispose il gentiluomo con voce strozzata.

— Tì dico che non potrai resistere.

— Uccidimi!

— La tua vita non appartiene a me per poterlo fare.

— Sii maledetto!

Culchelubi alzò le spalle, riprese la canna del narghilè, si rovesciò nuovamente sui cuscini e ricominciò a fumare, con flemma forse studiata, dicendo:

— Aspetterò: non ho fretta.

Era ben sicuro del successo finale, il miserabile. Infatti non era ancora trascorsa un'ora, quando il barone fu colto da uno svenimento che durò parecchi minuti.

Il disgraziato, pallido come un cencio lavato, cogli occhi sbarrati e schizzanti dalle orbite, si era abbandonato e sarebbe certamente stramazzato al suolo se non fosse stato trattenuto dagli anelli di ferro che lo tenevano come inchiodato contro la colonna.

Quando tornò in sé, delirava. Parole tronche e sconnesse gli sfuggivano dalle labbra. Parlava di galere, di combattimenti; di Zuleik, della vendicativa principessa, di Testa di Ferro, di Malta, dell'isola di San Pietro. Culchelubi si era rialzato e ascoltava attentamente, senza perdere una sola sillaba. Pareva una pantera in agguato, spiante la preda, ma in quel caso la preda non doveva essere che una parola.

Ad un tratto un nome sfuggì al barone, con una intonazione disperata:

— Ida!...Ida!...

Culchelubi aveva sussultato.

— Che sia il nome della giovane cristiana? — si chiese. — Ciò non basterà ad Amina. Bisogna sapere altro.

Il barone, sempre in preda al delirio, continuava a parlare come un pazzo. Nel suo cervello sconvolto, i pensieri non avevano più alcun ordine, pure un altro nome gli era sfuggito:

— Santafiora! Ida di Santafiora!

Questa volta Culchelubi aveva fatto un soprassalto. Quel nome non gli era sconosciuto: gli ricordava l'audace cavalier di Malta che parecchi anni prima aveva osato spingere le sue galere entro la baia d'Algeri e bombardare la città. Un sorriso di trionfo gl'increspò le labbra.

— Ecco il nome della cristiana — disse. — Ora ne so abbastanza. Cercheremo questa schiava che spero di trovare fra i prigionieri di San Pietro, giacché, se la memoria non m'inganna, era su quell'isola che sorgeva il castello dei Santafiora.

Ascoltò ancora. Il disgraziato giovane, che pareva ormai in preda ad una pazzia furiosa, continuava a ripetere il nome della fidanzata, confermando vieppiù Culchelubi nelle sue supposizioni.

— Ida! — urlava, facendo sforzi disperati per torcere gli anelli di ferro che lo imprigionavano. — I maledetti t'insidiano... fuggi... fuggi... il mirab... il Normanno... la... nella baia... la feluca... Amina t'odia... ti cerca... vuole la tua morte... fuggi... fuggi...

Poi un secondo svenimento lo colse, più lungo del primo. Culchelubi aveva fatto un segno.

I due negri chiusero la canna, aprirono i braccialetti di ferro e ricevettero il barone, completamente inerte, fra le loro braccia.

— Che cosa dobbiamo farne, signore? — chiesero.

— Ecco un bel giovane che potremo vendere a buon prezzo — disse Culchelubi, con un satanico sogghigno. — Amina si diverte a massacrare i miei giannizzeri e li chiama scherzi; mi permetterò di farne anch'io qualcuno a lei. Vi è posto nel bagno di Zidi-Hassam?

— È pieno di schiavi, padrone — rispose uno dei due negri.

— Ve n'è sempre abbastanza per questi cani di cristiani. Portatelo colà assieme al suo servo e fatelo curare. Dite al comandante del bagno che questi due uomini mi appartengono e che la sua testa risponderà della loro fuga.

I due negri sollevarono il barone e lo portarono via.

Il capitano generale delle galere stava per ricoricarsi, quando dalle parte opposta entrò un ufficiale della sua guardia, dicendo:

— Signore, vi è una dama che desidera vedervi.

— Mandatela al diavolo. Ho altro da fare ora.

— È la principessa Ben-Abad, signore.

— Per l'esterminio di tutta la cristianità! — esclamò Culchelubi. — Giunge in buon punto! Ci sarà burrasca, ma è così divertente quella principessa, quando s'arrabbia! Fatela entrare. Fortunatamente è giunta a cose finite e quando uscirà di qui, il cristiano sarà al sicuro.

Non era trascorso mezzo minuto che Amina entrava. Abbassò il velo che le nascondeva il viso, lasciando scoperti solamente gli occhi, ma Culchelubi che la osservava attentamente, s'accorse che era pallidissima.

— Che si sia pentita di avermi affidato l'incarico di farlo parlare? — pensò.

— Ebbene, Culchelubi? — chiese la principessa con voce quasi tremante, fermandosi dinanzi a lui. — Che cosa avete fatto del barone?

— Ciò che mi avete scritto, Amina — rispose il capitano generale delle galere. — Quale strana idea avete avuto di darmi l'incarico di far cantare il cristiano, dopo di avermi ucciso una dozzina di guardie per difenderlo. Siete bella ma anche molto bizzarra, Amina e mi stupisco ora d'aver accettato un tale incarico. Voi abusate un po' troppo della vostra alta posizione, del vostro grado di discendente dei califfi e anche della mia bontà e finirete col compromettermi dinanzi agli occhi dei credenti e del bey.

— Culchelubi può sfidare i credenti e anche il bey. Infine che cosa vi ho fatto?

— M'avete ucciso degli uomini.

— Forse che voi non ne uccidete tutti giorni.

— Quelli sono cristiani, nostri nemici, infedeli insomma.

— Sono uomini al pari di voi — rispose la principessa. — Orsù, ha parlato?

— Chi può resistere a me?

— E dunque?

— La cristiana è scoperta.

— Chi è? — chiese la mora, cogli occhi scintillanti.

— La contessa di Santafiora.

Amina aveva mandato un grido e aveva fatto due passi indietro.

— No... è impossibile! — esclamò. — Voi siete stato ingannato. La contessa di Santafiora è la cristiana amata da mio fratello, da Zuleik.

— Ah! Questa sarebbe strana — disse Culchelubi. — Zuleik che ama una cristiana, che è amata pure da quel giovane barone!

— Vi dico che non può essere quella!

— Ha ripetuto più di venti volte il nome di Ida di Santafiora.

— Vi ha ingannato!

Culchelubi, scosse il capo, dicendo:

— È quella, ne sono certo. Il barone delirava.

— Delirava! — esclamò la principessa, guardandolo con smarrimento. — Che cosa gli avete fatto voi? L'avete tormentato, è vero?

— Oh! Poche gocce d'acqua, ben applicate e nulla di più.

— Che l'avranno forse fatto impazzire! — gridò Amina. — Conosco le vostre arti diaboliche! Non dovevo affidarlo a voi!

— Se quell'uomo non mi fosse stato raccomandato da una Ben-Abad, non so se a quest'ora sarebbe ancora vivo — disse freddamente Culchelubi. — Un cristiano che viene sorpreso in Algeri e che non è uno schiavo, lo si uccide come un cane idrofobo. Dovreste essermi riconoscente di averlo risparmiato.

— Siete spietato, Culchelubi, hanno ragione di chiamarvi la più feroce pantera d'Algeri!

— È questa la mia forza — rispose il capitano generale, con un sorriso sardonico.

— Dov'è ora il barone?

— È già lontano.

— In qual luogo?

— Ecco quello che non vi dirò.

— Voglio vederlo.

— Per salvarlo?

— Che cosa v'importa a voi?

— Eh, signora! Voi dimenticate che egli è un cristiano, che io sono un mussulmano e che sono anche incaricato di amministrare la giustizia. Ho voluto secondare il vostro capriccio perché a me nulla costava e perché io ho sempre nutrito per voi una sincera amicizia, ma qui tutto deve arrestarsi. La contessa di Santafiora è vostra ed io ve l'abbandono, non essendo per me che una schiava; il barone è mio prigioniero ora e resterà in mio potere.

— Come! — esclamò la principessa, con furore. — Voi osereste...

— Tenermi il cristiano! Certo, Amina Ben-Abad. Dei mori l'avevano denunciato come cristiano, io avevo mandato i miei giannizzeri ad arrestarlo, voi l'avete difeso, poi me l'avete restituito ed ora me lo tengo.

— Culchelubi, voi siete un infame!

— Sono un difensore dell'Islam ed un nemico spietato dei cristiani.

— Lasciatemelo almeno vedere.

— Sareste capace di rapirmelo.

— Voi l'avete ucciso.

— Giuro sul Corano che egli è ancora vivo e che fra qualche giorno starà forse meglio di me e di voi.

— E quella cristiana?

— Ignoro dove sia, ma spero di trovarla presto. Che cosa vorreste farne?

— La ucciderò! — gridò Amina, con esaltazione.

— E vostro fratello?

— Non può essere la stessa.

— Mi hanno detto che il conte di Santafiora, il bombardatore d'Algeri aveva lasciato una sola figlia, l'ex-padrona di vostro fratello.

La principessa si torse le mani.

— Tutto rovina, dunque intorno a me! — esclamò con un singhiozzo.

Culchelubi si era alzato.

— Voi amate il barone, è vero? — chiese.

— Non so se io l'odio o l'amo.

— E una principessa mora, una discendente di re mussulmani che pugnarono per due secoli in Spagna in difesa della Mezzaluna e della nostra fede, oserebbe...

— Anche il Sultano di Costantinopoli, il capo dei credenti, ha amato delle cristiane, lui più mussulmano di tutti. La moglie di Solimano non era forse una fanciulla italiana? E non era forse una veneziana quella di Murad?2 Rispondete, Culchelubi!

Il capitano generale delle galere, evidentemente imbarazzato, si accontentò di scrollare le spalle.

— Rendetemi il prigioniero — disse Amina.

— È impossibile — rispose Culchelubi con accento inflessibile. — Si direbbe che io, invecchiando, divento un protettore degli infedeli. Egli diverrà uno schiavo al pari degli altri ed è tutto quello che io posso fare per voi, Amina.

— Badate, Culchelubi! Voi non sapete di quanto sia capace io!

— Volete uccidermi degli altri giannizzeri? — chiese il capitano, con voce beffarda. — Provatevi ed io mi prenderò la vita del barone di Sant'Elmo.

— Siete dunque tutti contro di me, anche mio fratello! Ebbene, Amina Ben-Abad vi sfida!

Rialzò il velo e uscì senza volgersi indietro, mentre Culchelubi tornava a sdraiarsi sul divano, mormorando:

— I discendenti dei califfi di Granata e di Cordova degenerano. Apriamo però gli occhi; sono capaci di mettere a soqquadro anche Algeri, specialmente questa furia d'Amina.


Note

  1. Storico.
  2. Roscelana, rapita da corsari barbareschi divenne poi sultana e la nobile veneziana Baffo, moglie di Murad. Entrambe erano cristiane ed italiane.