Le pantere di Algeri/Capitolo 20 - La vendetta d'Amina
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20.
LA VENDETTA D'AMINA
Cinque minuti dopo il barone e Testa di Ferro, strappati dagli splendori di quelle sale meravigliose, si trovavano nuovamente riuniti in un umido sotterraneo, situato sotto la torre pentagonale. Invece delle lampade veneziane sfolgoranti di luce, un lumicino illuminava a malapena quella specie di cantina che doveva rassomigliare a quegli orribili matamur, scavati a quattro o cinque metri sotto il suolo, dove imputridivano gli schiavi cristiani dei bagni di Sale e di Tripoli, così celebri.
Il povero catalano era stato sorpreso mentre digeriva tranquillamente una copiosa e squisita cena, servitagli nella sala dove aveva assaggiato l'hascish e senza ottenere spiegazioni si era sentito portar via quando stava già per addormentarsi, e gettare ruvidamente entro quella prigione, dove si trovava già il signor di Sant'Elmo.
Quell'improvviso cambiamento di situazione era stato così rapido, che il brav'uomo aveva creduto dapprima che gli si fosse propinato nelle vivande dell'altro hascish. Dovette pizzicarsi varie volte le carni, prima di convincersi che non si trattava affatto di un brutto sogno e che era sveglio. — Signor barone! — esclamò, guardandosi intorno cogli occhi smarriti. — Perchè ci hanno cacciati qui? Dove ci troviamo noi? Ditemi che io sono o ubriaco o che quel maledetto dolce mi ha sconvolto il cervello. No, non è possibile che ci troviamo in una cantina. Io devo aver mangiato ancora di quella pasta.
— Non sei ubriaco, — rispose il barone, — e nemmeno sogni. Entrambi siamo svegli e tutto quello che tu vedi è realtà.
— Per Sant'Isidoro! Che siano impazziti quei negri per gettarci in questa topaia? Io mi lagnerò con la loro padrona e li farò frustare come cani. Se lo sapesse quella bella dama!
— È per suo ordine che ci hanno cacciati qui, mio povero Testa di Ferro.
— Che si sia pentita d'averci salvati?
— Comincio a crederlo.
— L'avete veduta voi?
— Ho cenato con lei.
— Me l'ero immaginato, signor barone. Deve essere finita molto male quella cena per mandarvi a digerirla qui, signor barone.
— Tanto male che tremo per la vita della contessa Santafiora.
— Mille bombarde! — esclamò il catalano, spaventato. — Che quella bella dama sia una pantera? Io non l'avrei mai creduto.
— È forse più temibile di Zuleik — disse il gentiluomo, facendo un gesto di scoraggiamento. — Quello almeno ha interesse a proteggerla, mentre la mora sarà ben felice di sopprimerla.
— Signor barone, — disse Testa di Ferro, — che quella dama sia pazzamente innamorata di voi? Per Bacco! Ricca come è e così bella, sarebbe una moglie da prendersi al volo.
— Stupido! — gridò il barone.
— Perdonate, signore — disse Testa di Ferro. — In questo momento non mi ricordavo più che siete il fidanzato della contessa. Diavolo! Una mora innamorata deve essere terribile. Peccato che non abbia posati i suoi occhi su di me.
Il giovane, malgrado la profonda tristezza che lo invadeva, non potè trattenere un lieve sorriso.
— Sarei diventato un superbo moro, — continuò il catalano, — ricco a milioni e possessore di castelli e di palazzi incantati. Ma già la fortuna non ha mai sorriso al povero Testa di Ferro. Ed ora che cosa accadrà di noi? Che quella furia ci lasci marcire in questa cantina? Non sarebbe certo una cosa allegra, signore.
— Ignoro che cosa farà di noi. Io comincio a perdere ogni speranza di poter un giorno salvare la contessa di Santafiora.
— Ed il Normanno, l'avete dimenticato?
— Sarà stato ucciso.
— Ed il mirab?
— Sì, il vecchio templario — disse il barone come parlando fra se stesso. — Potesse almeno lui salvarla e strapparla al bey.
— Al bey, avete detto. A Zuleik volevate dire.
— No, sembra che sia stata scelta per l'harem del capo dello stato — rispose il gentiluomo con voce sorda. — Povera Ida! Quale triste sorte ti attendeva in questa maledetta Algeri!
— Ditemi, signor barone, avete saputo almeno chi è quella dama? — chiese Testa di Ferro.
— Lo ignoro, tuttavia mi è sorto un sospetto.
— Quale?
— Che sia qualche parente di Zuleik.
— Sa che Zuleik ama la contessa?
— Sì.
— E che voi pure l'amate?
— Mi sono ben guardato dal dirglielo, né dalla mia bocca mai lo apprenderà. Sa che io sono qui sbarcato per strappare dalla schiavitù una giovane cristiana e null'altro.
— Se sospettasse che fosse la contessa?
— Sono certo che la farebbe uccidere o vendere schiava ai trafficanti del deserto. Bada, Testa di Ferro! Se a te sfugge una parola, sarebbe la morte di tutti.
— Non parlerò, dovessi mangiarmi la lingua, ed un Barbosa non ha mai mancato alle promesse.
— Nemmeno se ti sottoponessero alla tortura?
— Vi mostrerei come sa morire un Barbosa.
Un fragore assordante, che il suolo trasmetteva distintamente e che pareva prodotto dal galoppo sfrenato di parecchi cavalli, interruppe la loro conversazione.
— Stanno per arrivare dei cavalieri — disse Testa di Ferro, rabbrividendo. — Che siano i giannizzeri di Culchelubi?
— Giungerebbero in buon punto — rispose il barone. — Questa volta la principessa non ci salverebbe.
— E non aver nessuna arme per difenderci!
— A che servirebbe?
— È vero, signore. Ah! Questa Algeri finirà per mandarci a casa del diavolo. Mi sembra di sentirmi già tenagliare le carni e arrosolare la pelle come quel povero spagnolo che abbiamo veduto su quel cammello. Cani di giannizzeri! Saranno furiosi.
Testa di Ferro s'ingannava. Un drappello di cavalieri, dopo d'aver dato al guardiaportone la parola d'ordine, aveva attraversato il ponte levatoio, entrando nel cortile. Dovevano aver fatta una lunga corsa quegli uomini, giacché i cavalli erano bianchi di schiuma e le rosse gualdrappe scintillanti d'oro erano coperte da un denso strato di polvere.
Colui che li guidava e che doveva essere il capo od il padrone, a giudicarlo dalla ricchezza del suo bianco mantellone tutto ricamato in seta azzurra e dal pennacchio tempestato di brillanti che portava sul turbantino a calotta rossa, era subito balzato a terra, senza attendere l'arrivo degli scudieri e dei negri, che accorrevano con delle torce.
— Dov'è Amina? — aveva chiesto con voce imperiosa.
— Nella sua stanza, signore — aveva risposto uno dei negri.
— Fatela avvertire che Zuleik l'aspetta nella sala degli specchi.
Fece cenno alla scorta, composta di otto negri armati di lunghi fucili e di scimitarre, di scendere dai cavalli, poi salì l'ampio scalone del castello preceduto da un valletto che reggeva un pesante candelabro d'argento ed entrò nella sala dove poco prima il barone aveva cenato colla principessa. Vedendo la tavola ancora imbandita, la grande lampada accesa, e due sedie l'una quasi accanto all'altra, Zuleik aveva corrugata la fronte.
— Chi può aver cenato con Amina? — si chiese.
Stette un momento immobile, guardando la tavola, poi si mise a passeggiare per la sala in preda ad una viva agitazione. Aveva gli sguardi torbidi ed i lineamenti alterati. Di quando in quando s'arrestava, passandosi, con un moto nervoso, una mano sulla fronte, mentre dalle sue labbra contratte sfuggiva una rauca imprecazione:
— Maledetti! Maledetti!
Pareva un giovane leone aggirantesi nella gabbia d'un serraglio. Una voce gli interruppe quella corsa intorno alla sala.
— Che vuoi Zuleik?
La principessa era entrata senza far rumore, tutta avvolta in una specie di mantello di garza rosa. Il moro la guardò un istante, colle palpebre semichiuse, poi disse:
— Non m'aspettavi, è vero sorella?
— Anzi, perché come vedi non mi sono ancora coricata. Cos'hai? Sei venuto per rimproverarmi di quanto ho fatto oggi?
— Tu vuoi comprometterti.
La principessa alzò le spalle.
— Con Culchelubi? — chiese.
— Egli è furioso.
— Perché ho maltrattati i suoi giannizzeri?
— Maltrattati!... Vi sono otto o dieci morti e una mezza dozzina di feriti.
— Tante canaglie di meno — rispose la dama con voce tranquilla. — Non si viola l'asilo d'una principessa mora, discendente di califfi.
— È per punirli ed insegnare loro a rispettare la casa dei Ben-Abad o per sottrarre alle loro unghie il barone? — chiese Zuleik, con sottile ironia.
— Per l'una e l'altra cosa.
— E dove è ora il signor di Sant'Elmo?
— È qui.
— Ben guardato?
— Ho fatto di meglio — rispose Amina, mentre un lampo d'odio le balenava negli sguardi. — L'ho chiuso, assieme al suo servo, nel sotterraneo della torre.
Zuleik la guardò con stupore.
— Non hai cenato con lui? Chi ti ha tenuto compagnia? Vedo che qui vi sono due posate e anche due sedie.
— Vi troveresti di che ridire, Zuleik? — chiese Amina.
— No, perché il barone è un gentiluomo e quantunque mio nemico, non l'odio.
— Non l'odi?... E perché hai cercato di farlo arrestare? Mi spiegherai almeno una volta il motivo per cui tu lo perseguiti.
— Te l'ho già detto: perché ha cercato, in San Pietro, di attraversare i miei sogni di libertà e perché egli è un cristiano ed io un mussulmano.
— Allora mi dirai come il barone conosce la cristiana che tu ami.
— Giungeva sovente a San Pietro colla sua galera e si fermava al castello.
— E che cosa è venuto a fare qui il barone?
— A salvare una prigioniera.
— Chi è?
— Non lo so.
— Ma lo saprò ben io, Zuleik! — esclamò la principessa.
Il moro le si avvicinò e posandole una mano sulla spalla, le disse:
— Tu l'ami.
— E se così fosse?
— È un cristiano.
— E anche tu ami una cristiana.
— È vero — disse Zuleik, con un sospiro.
— Ed è di buon sangue — rispose Amina.
— Non dico il contrario.
— Ed una principessa Ben-Abad può scendere fino a lui.
— È un sogno, Amina, che dovrebbe finire presto. Il barone non ti amerà mai, ne sono certo.
— Perché ama anche lui una cristiana, quella che è venuta a cercare, è vero Zuleik?
— Lo sospetto.
— Una principessa Ben-Abad non tollererà rivali e quando l'avrò trovata incaricherò Culchelubi di farla scomparire per sempre.
— Amina! — esclamò Zuleik, impallidendo. — Per la morte di Maometto! Tu non toccherai un capello a quella donna!
La principessa lo guardò a lungo, colla fronte aggrottata, con un misto di sorpresa e di collera. Il viso di Zuleik in quel momento era così sconvolto e minaccioso che ebbe paura.
— Perché t'interessi tu di questa cristiana? — chiese. — Spiegati, fratello.
Il moro si era accorto di essersi troppo smascherato e ne aveva abbastanza della rivalità del barone per crearsi anche nella sorella un nuovo nemico che poteva essere ben più pericoloso.
— M'interessa per una promessa — disse, cambiando tono. — Un giorno quella fanciulla mi soccorse mentre stavo per affogare presso le scogliere di San Pietro e le promisi che l'avrei ricompensata. Sulla nave dove ella si trovava prigioniera cogli abitanti dell'isola, io le ho giurato solennemente di salvarla dalle mani dei miei compatrioti e manterrò la promessa. Ecco tutto.
— Chi è dunque quella fanciulla?
— La figlia d'un castellano.
— Bella?
— Bellissima.
— Ed il barone l'ama?
— Ardentemente.
— Fammela vedere.
— Mai.
La principessa fece un gesto d'ira.
— Zuleik! — gridò, con voce minacciosa.
— Leggo nei tuoi occhi una condanna di morte — disse il moro. — Se io ti facessi vedere quella fanciulla, sono certo che l'indomani non sarebbe più viva. Io ti abbandono il barone, mentre dovrebbe appartenere solo a me, avendolo fatto prigioniero io, e tu, in cambio, non occuparti di quella cristiana. D'altronde non la troveresti più in alcun bagno — aggiunse poi con voce cupa.
Girò su se stesso, camminando per la sala agitatissimo. In quel momento sul suo viso si scorgeva un dolore intenso, una vera disperazione.
— Addio sorella — disse bruscamente.
— Dove vai?
— Torno ad Algeri.
— Perché non ti fermi qui, Zuleik? — chiese Amina, con voce un po' raddolcita.
— Ho molte cose da fare laggiù.
— E la cristiana da rivedere.
Zuleik non rispose.
— È già in tua mano? — riprese Amina. — Una schiava si acquista facilmente quando si posseggono le ricchezze dei Ben-Abad.
— Non sempre — rispose Zuleik con impeto.
— Qualcuno te la disputa?
— Sì.
— Lo si uccide.
— È troppo potente.
— Chi può competere colla nostra famiglia, che vanta la più antica nobiltà d'Algeri e che discende dai califfi?
— Chi? Chi? — ruggì Zuleik. — Vi è qualcuno che sta più in alto di noi ed i suoi vili agenti me l'hanno rapita!
— Chi può essere costui?
— Non posso dirtelo.
— E che cosa farai tu ora per riaverla?
— Non lo so. Addio!
— Non hai fiducia in tua sorella? Perché non mi confidi tutto, Zuleik?
— Perché non lo posso.
Ciò detto, Zuleik uscì, chiudendo la porta con fragore. Amina era rimasta immobile, appoggiata alla tavola, cogli sguardi fissi al suolo e la bella fronte aggrottata, immersa in qualche fosco pensiero. Il galoppo dei cavalli che riconducevano Zuleik e la sua scorta verso Algeri, la trasse dalle sue meditazioni.
Attraversò lentamente la sala e si affacciò alla finestra. Sulla bianca e polverosa via, che la luna illuminava, Zuleik ed i negri galoppavano furiosamente.
— Tu non hai voluto dirmi chi è la cristiana che il barone ama, — disse con voce tetra, — ma Culchelubi strapperà il nome di costei al signor di Sant'Elmo. Lo amavo quel giovane gentiluomo ed ora l'odio! Non si disprezza la passione d'una principessa mora e saprà presto come sanno odiare le donne dell'Africa...
S'avvicinò ad un tavolino d'ebano ad intarsi di madreperla su cui stava un servizio da scrivere in oro, meravigliosamente cesellato e dei foglietti di cartapecora color di rosa e profumati d'ambra.
Ne prese uno e vergò alcune righe, poi percosse nervosamente la lastra metallica, facendo echeggiare lungamente la sala. Uno dei due negri giganti entrò, dicendo:
— Che cosa vuoi, padrona?
— Salirai subito sul migliore cavallo e porterai questo biglietto al capitano generale delle galere.
Il negro fece un gesto di stupore.
— Signora, — disse, — sei certa che lo riceverà.
— E perché no, Zamo?
— Dopo quello che è successo questa mane!
— Che importa a lui se gli abbiamo uccisi una diecina dei suoi giannizzeri? Avrà riso del pessimo tiro che io gli ho fatto e che non è d'altronde il primo.
— Obbedisco, signora.
— Una cosa ancora. Non seguire la via presa da mio fratello. Egli deve ignorare che io ho bisogno di Culchelubi. Va', Zamo: voglio che domani i giannizzeri siano qui.
Il negro si nascose il biglietto nella fascia e uscì.
— Ecco la vendetta che comincia — disse Amina. — Io respinta! Barone, ti spezzerò il cuore e non rivedrai più mai la fanciulla che tu ami. Il deserto sta dietro Algeri e manderemo la tua bella a bruciarsi le pallide carni fra le sabbie roventi, schiava di qualche sultanello negro. Così si vendica Amina Ben-Abad.
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— Testa di Ferro!
— Signore — rispose il catalano fregandosi gli occhi ancora gonfi pel sonno e sbadigliando come un orso.
— Sono giunti altri cavalieri.
— Che non si possa dormire tranquilli in questo castello?
— È già l'alba.
— Così presto, signore? Credevo di aver chiuso gli occhi appena da un'ora. Toh! Non si sta male in questa torre. È fresca come una mellonaia. Chi giunge ancora?
— Non lo so — rispose il barone, con inquietudine. — Ho udito lo scalpitare di molti cavalli sulle pietre del cortile.
— Che sia Zuleik, signore?
— E allora chi saranno stati quelli giunti ieri sera e ripartiti qualche ora dopo?
— Mi viene un sospetto, signor barone — disse ad un tratto Testa di Ferro.
— Quale.
— Che i giannizzeri di Culchelubi abbiano scoperto il nostro rifugio e che cerchino di riprenderci.
— Quasi preferirei di trovarmi nelle mani del capitano generale delle galere, quantunque lo si dica ferocissimo, piuttosto che rimanere in quelle della principessa — disse il barone. — Questa donna mi fa ora più paura di Culchelubi.
— Hum! — brontolò Testa di Ferro, scuotendo il capo. — Preferisco una pantera femmina ad un maschio che gode una così triste celebrità.
Si era alzato per avvicinarsi alla porta ferrata della torre e si era messo in ascolto. Nel cortile udiva un brusìo come di gente che camminava frettolosamente e un nitrire e scalpitare di cavalli.
— Ah! Diavolo! — borbottò. — Temo che questi cavalieri siano giunti per noi. Mio povero Testa di Ferro la tua pelle è in pericolo e la tua zucca si trova malsicura sulle tue spalle. Che pazza idea ha avuto il padrone di fare arrabbiare quella bella mora! Io, al suo posto, avrei agito ben diversamente.
D'improvviso trasalì. Delle persone scendevano la scala.
— Signore — disse, tornando verso il barone. — Vengono a prenderci.
Il giovane gentiluomo aveva provata una stretta al cuore. Nondimeno si era alzato, dicendo:
— Mostriamo a quella donna che i cristiani non hanno paura.
— Se sapesse invece quanta ne ho io indosso — mormorò Testa di Ferro. — Avessi almeno la mia mazza!
La porta si era schiusa ed i due negri giganti erano entrati, seguiti da un ufficiale dei giannizzeri e da quattro soldati armati fino ai denti.
— Che cosa volete? — chiese il barone muovendo loro incontro.
— Dovete partire per Algeri, signore — disse uno dei due negri. — Seguiteci senza opporre resistenza, diversamente impiegheremo la forza.
— Siamo ai vostri ordini.
Salì la scala affettando di mostrarsi tranquillo, ma Testa di Ferro dovette essere spinto dai giannizzeri perché le sue gambe, come al solito, rifiutavano d'agire. Una ventina di soldati, montati su altrettanti cavalli, li aspettavano nel cortile, cogli archibugi in pugno.
— A chi appartengono questi uomini? — chiese il barone.
— Al capitano generale delle galere — rispose il negro Zamo.
Il barone si sentì imperlare la fronte d'un freddo sudore. Salì nondimeno sul cavallo che gli era stato condotto, senza bisogno di essere aiutato.
— Cristiano — disse l'ufficiale in cattivo italiano. — Ti avverto che se tu tenti di fuggire ho l'ordine di farti fuoco addosso.
Il barone scrollò le spalle senza rispondere.
Uscirono dal cortile, attraversarono in gruppo serrato il ponte levatoio e giunsero sul piazzale esterno. Il negro Zamo, che teneva per la briglia il cavallo del barone, giunto colà fece allargare la scorta e indicò al giovane il terrazzo di marmo bianco che s'alzava sopra le muraglie merlate del castello interamente illuminate dalla luna.
Amina era là, tutta avvolta in una cappa di seta rosea, indolentemente appoggiata ad un immenso vaso di porcellana, contenente una palma. Aveva i lunghi capelli neri sciolti sulle spalle e stava sfogliando, con mosse nervose, un mazzo di rose. Aveva però sul viso una tale espressione d'odio, che il barone ne fu atterrito.
— Ella m'abbandona a Culchelubi — mormorò, rabbrividendo. — Possa almeno ignorare per sempre, che la sua rivale è la contessa di Santafiora.
Si guardarono entrambi per alcuni istanti, poi il negro volse il cavallo, dicendo all'ufficiale dei giannizzeri: — Ed ora, partite.
La scorta si strinse attorno ai due prigionieri e si slanciò al galoppo sulla polverosa via che conduceva ad Algeri.
Il barone, voltandosi, vide ancora la vendicativa mora, sempre appoggiata al vaso di porcellana. Però non sfogliava più il mazzo di rose. All'alba la scorta entrava in Algeri e si arrestava dinanzi ad un gigantesco palazzo, guardato da un drappello di soldati e di marinai barbareschi. Era il palazzo di Culchelubi, della pantera d'Algeri.