Le pantere di Algeri/Capitolo 22 - L'inseguimento del normanno

Capitolo 22 — L'inseguimento del normanno

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Capitolo 22 — L'inseguimento del normanno
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22.

L'INSEGUIMENTO DEL NORMANNO


Mentre il barone e Testa di Ferro, uno dopo l'altro venivano catturati dai mori e dai falconieri, il bravo Normanno, come abbiamo veduto, si era tirato dietro la banda dei cabili colla speranza di salvare il compagno bensì, e soprattutto di sottrarre, con maggiori probabilità, la propria pelle ormai così pericolosamente compromessa.

L'astuto fregatario non ignorava che caduto nelle mani dei mori, non gli sarebbero stati usati riguardi di sorta e che ne sarebbero andati di mezzo anche i coraggiosi marinai della feluca.

Quantunque avesse il cavallo ormai stremato da quella lunga corsa, con due furiose speronate lo aveva costretto a riprendere il galoppo, risoluto ad approfittare degli ultimi istanti di forza che ancora rimanevano al povero quadrupede. Premendogli soprattutto di perdere di vista i mori, si era cacciato in mezzo ad un folto bosco di querce, lasciando che i cabili lo inseguissero. Aveva già fatto il suo piano ed era sicuro di sbarazzarsi presto dei suoi inseguitori. Mentre il cavallo, con uno sforzo supremo, filava fra i tronchi degli alberi, rantolando affannosamente, il Normanno, senza curarsi della direzione che prendeva, aveva alzato il capo guardando attentamente i rami che si stendevano quasi orizzontalmente sopra di lui.

Si era sbarazzato del moschetto e aveva annodato il mantellone per essere più libero. Aveva però serbate le pistole e l'yatagan che aveva anzi ben assicurati entro la fascia.

I cabili, i cui cavalli dovevano essere del pari stanchi, di primo slancio non avevano guadagnato gran che. Il fregatario erasi già inoltrato nel bosco mentre essi non erano ancora giunti sul margine.

— Ora vi farò un bel giuoco — disse, continuando a guardare i rami e alzandosi di tratto in tratto sulle staffe. — Ecco laggiù uno che fa per me e se il diavolo non ci mette la coda, sarete ben bravi se mi troverete, miei cari.

Cinquanta passi dinanzi a lui, un grosso ramo che si staccava da una quercia colossale si stendeva orizzontalmente, a quattro metri dal suolo.

Il fregatario, che l'aveva già osservato, abbandonò rapidamente le staffe, si inginocchiò sulla sella mantenendosi in equilibrio, poi quando fu sotto al ramo allungò le braccia e l'afferrò nel medesimo istante che somministrava all'animale un calcio poderoso.

Con un volteggio di cui un clown sarebbe stato invidioso, si mise a cavalcioni del ramo, raggiunse velocemente il tronco e si spinse in alto, dove il fogliame era più folto, rannicchiandosi su se stesso.

Il cavallo, sentendosi libero e quindi più leggero, aveva continuata la corsa attraverso la foresta, scomparendo presto fra gli alberi.

Si udiva ancora il suo galoppo precipitato, quando passarono sotto la quercia, come un uragano, i cabili stretti in gruppo.

Non sospettando menomamente l'astuzia del Normanno, proseguirono la loro corsa indemoniata, guidati dal galoppo del destriero.

— Ecco ciò che si chiama un bel tiro — disse il fregatario, ridendo silenziosamente. — Quando raggiungeranno il mio cavallo e vedranno la sella vuota, crederanno che io mi sia spaccato il cranio contro qualche tronco e non si occuperanno altro di me. Aspettiamo che calino le tenebre poi andremo a vedere che cosa sarà avvenuto del barone e di Testa di Ferro. Se avessero potuto mettersi in salvo! Orsù, io non li ho veduti passare per di qui legati, né li ho veduti uccidere.

Essendo stanchissimo, andò a sedersi fra la biforcazione d'un ramo, accomodandosi meglio che potè e per maggior precauzione si legò colla lunga fascia di lana, onde non fare un capitombolo.

In lontananza udiva ancora le urla dei cabili, che diventavano rapidamente fioche. Senza dubbio il cavallo galoppava ancora in mezzo alla boscaglia, tirandosi dietro la banda.

Per una buona ora il fregatario se ne stette appollaiato fra i rami, cogli orecchi sempre tesi e gli occhi in guardia. Nella foresta non udiva ormai più alcun rumore, pure non osava abbandonare il suo nascondiglio, quantunque fosse impaziente di conoscere la sorte toccata al barone.

Non erano più i cabili che temeva, sicuro che fossero ormai molto lontani, bensì i mori ed i loro falconieri che potevano essersi lanciati sulle sue tracce e aggirarsi per la boscaglia.

Questo timore lo tratteneva, sapendo che più di tutti rischiava, nella sua qualità di fregatario, di finire la sua esistenza sulla punta d'un arpione o con un palo di ferro attraverso il corpo.

Parecchie volte, impotente a frenare la sua impazienza, aveva abbandonato il ramo, risoluto a scendere, poi l'aveva quasi subito riguadagnato, messo in sospetto dallo scricchiolare di qualche ramo, spezzato probabilmente da qualche gazzella piuttosto che da un uomo. La sera finalmente giunse. I cabili non erano più ripassati e nessun falconiere si era mostrato.

Rassicurato dal silenzio che regnava nella foresta, lasciò il rifugio e si lasciò scivolare fino a terra.

Cambiò carica alle pistole, impugnò l'jatagan e si avventurò sotto le piante, coll'intenzione di raggiungere la collina che non doveva essere molto lontana. L'oscurità era diventata tanto fitta da non poter scorgere i tronchi degli alberi che si trovavano a dieci passi di distanza, non essendo ancora sorta la luna. Il Normanno, che temeva sempre qualche imboscata, se non da parte dei mori per lo meno dei falconieri che potevano aver ricevuto l'ordine di rintracciarlo, non si avanzava che con estrema prudenza. E poi non aveva da guardarsi solamente dagli uomini, bensì anche dalle fiere, dai leoni e dalle pantere che erano allora ancora numerosissime nelle pianure di Medeah, dove trovavano facile ed abbondante preda nei duar dei cabili. Già più d'una volta aveva udito delle foglie secche a scrosciare e dei rami a spezzarsi sotto la tenebrosa boscaglia. Potevano essere gazzelle che si recavano ad abbeverarsi in qualche fonte dei dintorni, come potevano essere animali armati di solidi artigli e affamati di carne umana.

Aveva tuttavia percorso qualche chilometro senza fare alcun cattivo incontro, quando gli parve di udire dietro di sé dei fruscìi che seguivano la sua marcia. Si arrestò contro il tronco d'una quercia, curioso di sapere quale animale osava dargli la caccia.

— Vediamo — disse. — Non amo essere seguito.

S'irrigidì contro l'albero, tenendo l'yatagan ben stretto in pugno e la sinistra sul calcio d'una delle pistole.

Quel rumore, che già aveva notato più volte, era cessato bruscamente. Niente affatto rassicurato, si tenne immobile alcuni minuti, cercando di distinguere qualche cosa sotto la cupa ombra proiettata, dalle gigantesche querce. Un leggero crepitìo di foglie secche lo avvertì di non essersi ingannato. Qualcuno, un uomo od un animale lo aveva seguito ed aveva ripresa la sua marcia. Trascorse qualche minuto ancora, poi distinse improvvisamente due punti fosforescenti che lo fissavano.

— Se fosse un leone si sarebbe già annunciato con un ruggito — mormorò. — Non può essere che una pantera. Dopo gli uomini, le belve! Ho commesso una sciocchezza lasciando il mio moschetto appeso alla sella del cavallo. Orvia, i rimpianti sono inutili; d'altronde non sono inerme e se mi assalta avrà da fare con me.

La belva, pantera o leone, pareva che non avesse fretta di gettarsi addosso al Normanno. Probabilmente si era accorta che quell'uomo era armato e non osava assaltarlo direttamente, aspettando invece il buon momento per piombargli addosso di sorpresa.

Rimasero così, l'una di fronte all'altro, qualche tempo, continuando a guardarsi, poi il fregatario impazientito si decise a muoversi.

— Se non ha il coraggio di assalirmi è inutile che io perda il mio tempo ad aspettarla — disse. — Mi guarderò le spalle e cercherò di raggiungere la collina. Lassù sarò al sicuro.

Armò la pistola, fissò un'ultima volta la belva che conservava una immobilità assoluta e si rimise in cammino, guardando dietro di sé ad ogni istante. Aveva percorsi dieci passi, quando non scorse più quei due punti fosforescenti.

— Che abbia rinunciato a seguirmi o che abbia girato al largo per sorprendermi più innanzi? — si chiese, non senza qualche ansietà.

Il fregatario aveva del coraggio da vendere, tuttavia cominciava ad impressionarsi, non sapendo da quale parte sarebbe stato assalito. Decise di affrettare il passo per non lasciarsi precedere dalla belva, anzi si slanciò a tutta corsa, cercando di tenersi lontano dagli alberi che cominciavano a diventare più radi.

Percorse così, tutto d'un fiato, tre o quattrocento passi. Distingueva già il margine della boscaglia, quando si sentì precipitare addosso una massa pesante che lo atterrò di colpo.

Fortunatamente aveva avuto il tempo di voltarsi, cadendo così sul dorso invece che sul ventre.

Vedendosi dinanzi un grosso animale che stava per avventarglisi contro, tirò un colpo di yatagan con tutta la forza del suo muscoloso braccio. La belva non lo aveva atteso. Con un salto immenso si era slanciata su un ramo basso, poi con un altro slancio si era nascosta in mezzo al fogliame, manifestando la sua collera con un sordo mugolìo.

Il Normanno, scampato miracolosamente ad una certa morte, si era risollevato prontamente, coll'yatagan alzato, credendo che la belva ritentasse l'assalto. Aveva riconosciuta nella sua avversaria una pantera e non ignorava l'audacia e la forza di quelle fiere che sono anche oggidì così temute dai pastori algerini. Vedendo che si accontentava di scrollare il ramo su cui si era rifugiata e udendola a soffiare come un gatto in collera, volse le spalle e fuggì a tutte gambe per mettersi in salvo sulla collina che ormai intravedeva fra il fogliame degli ultimi alberi.

In cinque minuti raggiunse il margine della boscaglia e si trovò là dove era avvenuto lo scontro fra il barone ed i mori.

— È qui che ci siamo separati — disse. — Vediamo se posso trovare qualche indizio di quel bravo gentiluomo. Ah!

Una massa bianca aveva subito attirato i suoi sguardi. Giaceva coricata sull'erba e intorno giravano, senza osare ancora di assalirla, sette od otto animali rassomiglianti a piccoli lupi, colle gambe alte, la coda ricca ed il pelame giallo grigiastro a riflessi fulvi e che mandavano di quando in quando delle grida monotone e lamentevoli.

— Se qui sono accorsi gli sciacalli, vi è qualche preda da divorare — mormorò.

Si slanciò innanzi maneggiando l'yatagan e gridando. I notturni predoni, voraci quanto sono vili, si misero la coda fra le gambe, fuggendo in tutte le direzioni.

— Un cavallo morto! — esclamò il marinaio, curvandosi sulla massa biancastra. — Allora vi è stato un combattimento qui. Che il barone si sia lasciato cogliere?

Si abbassò di più, esaminando attentamente il terreno e trovò una di quelle lunghe pistole col calcio incrostato di madreperla e la canna ad arabeschi dorati, usate dai mori, poi dei brandelli di stoffa, quindi su una pietra una chiazza di sangue coagulato.

— Qui è stato ucciso qualcuno — disse. — Il barone o qualche moro? E non poterlo sapere!

Stava per allargare le ricerche, sperando di scoprire qualche cosa d'altro che gli permettesse di chiarire meglio ciò che era accaduto dopo la sua ritirata, quando uno sparo, seguito quasi subito da un altro, rimbombarono presso il margine della foresta.

Credendo che gli avessero fatto fuoco addosso, stava per slanciarsi su per la collina, onde cercare un rifugio fra le rocce che coprivano la cima. Un grido umano, straziante, lo trattenne:

— Aiuto, Ibrahim! — aveva gridato una voce.

— La pantera ha assalito qualcuno! — esclamò.

Senza pensare che poteva trovarsi di fronte a dei nemici, non ascoltando che la propria generosità ed il proprio coraggio, invece di fuggire, come lo consigliava la più elementare prudenza, il fregatario si era messo a correre verso la boscaglia. Il grido era stato ripetuto con maggior forza:

— Aiuto, Ibrahim!

In dieci salti il Normanno aveva raggiunti i primi alberi. Una scena terrorizzante si presentò tosto ai suoi sguardi. Un uomo, un cabilo probabilmente, giaceva a terra e sopra di lui stava una belva che riconobbe subito per la pantera che poco prima l'aveva atterrato. L'uomo si difendeva disperatamente, urlando, mentre la fiera cercava di azzannargli il cranio e di stritolarglielo con una stretta irresistibile.

— Ah! Canaglia! — urlò il Normanno.

Con un ultimo slancio era giunto addosso al gruppo. La pantera, accortasi della presenza di quel nuovo nemico, si era vivamente voltata, pronta a scagliarsi. Aveva invece trovato un avversario degno di lei.

Il fregatario le scaricò a bruciapelo la pistola fra le fauci aperte, poi le menò un fendente così formidabile, da spaccarle il cranio fino agli occhi. La belva acciecata dal sangue stramazzò al suolo rotolandosi fra le erbe e cercando ancora di lacerare il disgraziato che gli stava accanto. Un secondo colpo d'yatagan che le squarciò il petto, mise ben presto fine alle sue convulsioni. Era appena spirata, quando un altro uomo si slanciò fuori dalle macchie tenendo in mano un lungo archibugio e gridando con voce affannosa:

— Ahmed! Ahmed!

— Giungi un po' tardi, amico — disse il Normanno. — L'affare è finito.

Il nuovo venuto era un bel giovane di statura alta, coi lineamenti regolari e la pelle abbronzata, vestito d'un semplice pezzo di stoffa grossolana che gli cingeva i fianchi e colle muscolose braccia adorne di collane d'erbe intrecciate, come usano ancora gli abitanti della cabilia.

— Tu hai salvato mio fratello — disse. — Grazie: la mia riconoscenza sarà eterna.

— Vediamo innanzi a tutto se sono giunto in tempo — rispose il fregatario, curvandosi sul ferito.

L'uomo che era stato assalito dalla pantera, stava già alzandosi. Era tutto imbrattato di sangue uscitogli da due larghe ferite che aveva sulle spalle.

Il carnivoro aveva ben lavorato d'unghie, straziandogli atrocemente le carni, tuttavia gli aveva risparmiato la testa che senza il pronto intervento del Normanno avrebbe potuto facilmente stritolare.

Il ferito, un giovane robustissimo quanto il compagno, non si lasciava sfuggire alcun lamento, anzi aveva allungata la destra al suo salvatore, dicendogli:

— Ti devo la vita. In qualunque momento tu avrai bisogno di un amico, ricordati di Ahmed Zin.

— Ecco due amici che un giorno potrebbero diventare preziosi — pensò il fregatario — e qui non sono mai troppi.

Ibrahim si era levata la sottanina che gli stringeva i fianchi e bagnatala in una pozza d'acqua che si trovava poco discosta, aveva lavate le ferite.

— Puoi camminare? — chiese al fratello. — Il nostro duhar non è lontano.

— Se non ti dispiace ti aiuterò — disse il Normanno. — Cercava appunto un qualche accampamento per passarvi la notte.

— La mia tenda è tua, come sono tuoi i miei montoni ed i miei cammelli — rispose Ibrahim. — Saremo ben lieti di poterti ospitare, uomo valoroso.

— Dove si trova il tuo duhar?

— Laggiù, dietro quel macchione di fichi e di querce. Non abbiamo da percorrere più di cinquecento passi.

Il Normanno lacerò un pezzo del suo mantello fasciando alla meglio le ferite onde arrestare il sangue che usciva sempre in gran copia, poi preso il povero giovane fra le braccia, seguì Ibrahim che si era messo in cammino a passi rapidi. Il duar era infatti vicinissimo. Come tutti quelli algerini, si componeva di due tende di grossa stoffa color cioccolata, abbastanza ampie, di forma rettangolare, chiuse entro un recinto formato da canne secche e da una siepe di aloè. All'intorno numerosi montoni e parecchi cammelli sonnecchiavano alla rinfusa, sdraiati gli uni accanto agli altri, sotto la guardia di alcuni grossi cani e di un negro, certamente uno schiavo.

Il ferito fu deposto su un mucchio di pelli e di vecchi tappeti e medicato con maggior cura, poi Ibrahim condusse il Normanno all'aperto, dicendogli:

— Sei mio ospite: comanda.

— Non chiedo che una cena ed una stuoia su cui coricarmi un paio d'ore, giacché sono affamato e stanco.

— Avrai tutto quello che desideri — rispose il cabile. — Tu sei più che mio fratello, dovendoti la vita di Ahmed. Aspetta un momento.

Mentre preparava la cena aiutato dal negro, il Normanno si era spinto verso il recinto di canne e di là osservava attentamente la collina, alla cui base si era separato dal barone.

— Questi cabili devono aver veduto, senza difficoltà, ciò che è avvenuto fra i mori ed il barone — mormorò. — È impossibile che non sappiano quanto è successo stamane. Mi proverò interrogarli.

— Vieni, uomo valoroso — disse in quel momento Ibrahim. — Ti offro tuttociò che ho di meglio nella mia tenda.

Su una stuoia tappezzata di foglie fresche era stato deposto un capretto arrostito intero, circondato da pallottole di farina cucinate al forno e da grappoli di datteri perfettamente maturi.

Il Normanno si dissetò lungamente con acqua mescolata a latte di cammello, poi assalì l'arrosto e le pallottole di farina, con grande soddisfazione del pastore che era lietissimo di vederlo far onore al pasto.

— Tu sei straniero, è vero? — chiese il cabilo, dopo che il Normanno ebbe saziata la fame.

— Sì — rispose questi. — Sono di Tunisi e la mia barca si trova in questo momento ad Algeri.

— Sicché ci lascerai presto?

— Fra quattro o cinque ore, se potrai noleggiarmi un cammello od un cavallo.

— Tuttociò che possiedo è tuo e puoi scegliere fra le mie bestie quella che meglio ti aggrada.

— Grazie, tu sei generoso.

— È mio dovere contraccambiare la tua audacia che ha salvato mio fratello da una certa morte. Senza di te, la pantera lo avrebbe ucciso, prima che io potessi giungere in suo aiuto.

— Tornavate dal pascolo?

— No — rispose il cabilo. — Ci eravamo inoltrati nella boscaglia per scovare precisamente quella belva che da un buon mese decimava il nostro bestiame. Tu quindi ci hai reso un doppio servigio.

— Non parliamo altro di ciò.

— E tu, che cosa facevi nella foresta?

— Mi ero smarrito inseguendo una gazzella che avevo ferito stamane e che i falchi avevano già acciecata.

— Allora tu eri assieme a quei mori che cacciavano nella pianura — disse il cabilo.

— Sì, ero assieme a loro.

— Deve essere scoppiata una rissa fra quei cavalieri — disse il cabile. — Eri presente tu?

— Una rissa! — esclamò il Normanno, fingendo la più viva sorpresa.

— Non lo sai?

— No, perché come ti dissi io mi ero separato dai compagni per inseguire una gazzella.

— E hanno ucciso anche qualcuno — proseguì il cabilo. — Un moro.

— E da chi ucciso?

— Da un giovane arabo o marocchino che fosse a cui i suoi compagni davano la caccia colle scimitarre in pugno.

— Montava un cavallo bianco?

— Sì — rispose il cabilo. — Doveva essere un giovane ben valente nel maneggio delle armi. Prima, di arrendersi ammazzò un cavaliere e poi il cavallo d'un altro.

— E fu poi trucidato anche lui? — chiese il Normanno, con angoscia.

— No, perché poco dopo lo rividi in sella attorniato da coloro che l'avevano inseguito.

— Sei ben certo di ciò?

— Ero nascosto dietro una roccia, a meno di cinquanta passi dal luogo della pugna, quindi nulla poteva sfuggirmi.

Il Normanno respirò a lungo.

— Lo hanno fatto prigioniero — pensò. — Allora tutto non è ancora perduto.

Quindi rivolgendosi al cabilo:

— Hai osservato un moro, vestito riccamente, che montava un superbo cavallo morello?

— Sì e ti posso dire che fu quello che impedì agli altri di uccidere quel bravo giovane. Non doveva però essere solo il prigioniero.

— Perché?

— Avevo veduto un altro poco prima in sua compagnia e che fuggì nel bosco.

— Come era?

— Montava pure un cavallo bianco e aveva la tua statura.

— E non fu inseguito?

— Sì, da una moltitudine di cabili che erano di passaggio, ai quali forse quei mori avevano promesso un premio se riuscivano a catturarlo.

— E l'hanno preso?

— Non ne so nulla, non avendo più veduto tornare né il fuggiasco, né i cabili. Sono venuti invece dei falconieri a portare via il cadavere del moro rimasto ucciso nel combattimento.

— Domani saprò il motivo che ha causato quella zuffa — disse il Normanno. — Dammi un tappeto od una stuoia, preparami un cammello od un asino, se ne hai uno, e lasciami dormire fino alla mezzanotte.

— Io farò tutto quello che vuoi. Non dimenticare che conto di vederti tornare un giorno. Tu sei ormai mio fratello.

— Grazie — rispose il Normanno, sorridendo. — Può darsi che io possa aver ancora bisogno di mio fratello Ibrahim.

Il negro aveva preparato nell'altra tenda, che era vicina a quella occupata dal ferito, un giaciglio formato con pelli di montone e qualche tappeto. Il Normanno, che era affranto, vi si gettò sopra addormentandosi quasi subito, mentre il cabilo ed il negro, seduti presso il fuoco, vegliavano sul bestiame. A mezzanotte un muletto, completamente bardato, scelto fra i quattro o cinque che possedevano i cabili, si trovava pronto.

— Fratello, è l'ora — disse il pastore, scuotendo dolcemente il fregatario.

Il Normanno, da vero marinaio, era già in piedi.

— Il quarto è trascorso — disse. — Fa buon tempo e filerò su Algeri senza burrasche.

— Parti subito? — chiese Ibrahim.

— Mi preme giungere in città.

— Io spero ancora di rivederti. Ricordati che qui hai due fratelli che ti riceveranno con piacere.

— Grazie, non mi dimenticherò — rispose il Normanno.

Vuotò una tazza di caffè che il negro gli aveva portata, abbracciò il cabilo e salì sul muletto, dicendo:

— Saluta mio fratello, Ahmed, che spero di rivedere presto guarito.

— Che Iddio ti guardi e che il Profeta ti protegga.

Il muletto, che trottava come un cavallo, era già lontano.

— Andiamo dal mirab, innanzi a tutto — mormorò il fregatario. — Egli mi consiglierà sul da farsi!

E spinse il muletto attraverso la silenziosa pianura, spronandolo vivamente.