Le pantere di Algeri/Capitolo 19 - La principessa mora
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19.
LA PRINCIPESSA MORA
Come tutte le sale dei palazzi moreschi, anche quella in cui erano stati introdotti, era ampia, col pavimento di mosaico coi soliti divani che correvano all'intorno, col soffitto a cupola e larghe finestre a mucarabia sporgenti, con tendaggi di garza rosa striati d'argento e d'oro del più bell'effetto. Nel mezzo era stata preparata una tavola, con piatti d'argento cesellato e coppe di lapislazzulì dai mille riflessi e fiaschi di cristallo dorato di stile moresco.
— Signor padrone — disse Testa di Ferro, che si era piantato dinanzi alla tavola, guardando con occhio intenerito soprattutto i fiaschi, che avevano dei promettenti riflessi di rubino e di ambra. — Siamo entrati in qualche palazzo delle Mille e una notte? Non ci mancherebbe che la fata, per essere al completo. Tutto ciò ha del prodigioso! Sfuggire alle unghie di Culchelubi per cadere dinanzi ad una tavola! Si direbbe che io ho sognato. O che quella brava signora ha indovinato che eravamo a digiuno da ventiquattro ore.
— Vuoi dire che tu trovi che tutto va pel meglio.
— Corbezzoli! Non vi sembra, signor barone?
— E se invece tutto ciò finisse male?
— Veramente il male non lo trovo per ora. Vedremo in seguito.
Due valletti erano entrati portando dei tondi d'argento, seguiti da quattro servi che recavano altri recipienti dove si vedevano guazzare in certe salse dei polli, dei pesci ed enormi pezzi di montone arrostito.
— Se il signor barone vuole approfittare? — chiese Testa di Ferro, messo in buon umore. — La tavola è pronta.
Il giovane che dal giorno innanzi non aveva assaggiato cibo alcuno e che come tutti quelli della sua età aveva un appetito di ferro, non si fece pregare. La tavola d'altronde era eccellente, quantunque le salse avessero un profumo strano. I cuochi del castello avevano fatto meraviglie, specialmente nei pasticci dolci che sono così apprezzati dai mori e soprattutto dalle more. Contrariamente all'uso dei barbareschi, i quali non assaggiano mai vino né bevande fermentate, essendo queste proibite dal Corano, Testa di Ferro aveva trovato nei fiaschi, vini squisiti di Spagna e d'Italia che non finiva più di vantare e soprattutto di tracannare. Avevano sorseggiato il caffè, quando fu loro portato, su un vassoio d'oro, una certa pasta dolce, molle, color violetto, che esalava un acuto profumo di noce moscata e di garofano.
— Che cos'è questa? — chiese Testa di Ferro al negro che l'aveva recata e che era uno dei due che li avevano condotti al castello.
— Modjum — rispose l'interrogato, sorridendo.
— Ne so meno di prima; e voi, signor barone?
— Non so che cosa sia, ma mi sembra promettente.
— Se ci fosse invece dentro qualche veleno?
— Avrebbero potuto metterlo anche in quel pollo che ti sei divorato da solo.
— È vero, signor barone sono uno stupido.
— Questo dolce lo ha mandato la mia padrona — disse il negro. — Vi prego di accettarlo.
— È già qui la tua padrona? — chiese il barone, con inquietudine.
— Non lo so, signore.
— Ecco una bella risposta che pare una sciarada — disse Testa di Ferro che continuava a trincare allegramente. — Si può al meno sapere una buona volta chi è la vostra padrona e perché prende tanto interesse per noi che non siamo mussulmani?
— Non mi è permesso indagare i segreti della mia signora — rispose il negro.
— Mi dirai almeno perché quella sera che i beduini ci hanno assaliti, i tuoi compagni sono accorsi in nostra difesa — disse il barone.
— Non ne so nulla, signore. Avranno ricevuto l'ordine dalla padrona.
— Non potremo sapere dunque chi è quella dama? — chiese Testa di Ferro.
— È una principessa mora, ecco tutto — rispose il negro.
— Signor barone, non leveremo nulla dalla bocca di questo selvaggio — disse Testa di Ferro, in catalano. — Sarei però stato curioso di sapere come quella principessa si trovava nella casa di Zuleik.
— È quello che mi sono chiesto anch'io — rispose il barone.
— Che sia qualche parente di quel maledetto moro?
— Ne ho il sospetto.
— Si svelerà un giorno?
— Lo spero.
— Mille bombarde!
— Che cos'hai?
— Si direbbe che la mia testa gira. Che sia stata questa pasta?
— Ed io mi sento invadere da un torpore invincibile — rispose il barone che si sentiva le palpebre pesanti.
— Negro — disse Testa di Ferro, squadrandolo dall'alto in basso. — Ci hai avvelenati?
Il gigante lo guardò sorridendo, poi pronunciò una parola: — Hashis.
— Hashis — ripetè il barone con voce atona.
Testa di Ferro si era già abbandonato sul seggiolone e russava sonoramente. Il barone, i cui sguardi vagavano nel vuoto, stava pure per abbandonarsi a sua volta, mentre il negro lo guardava sorridendo.
Il madjum faceva il suo effetto su entrambi. Quella pasta dolce, color violetto, di cui sono così ghiotte tutte le popolazioni orientali e dell'Africa settentrionale, li aveva sorpresi di colpo, facendoli cadere improvvisamente nel mondo dei sogni, come i fumatori d'oppio del Celeste Impero. Quel narcotico misterioso e leggendario che si compone d'una miscela di burro, di miele, di noci moscate, di chiodi di garofano e di kife, che sono foglie d'una specie di canapa, ha un potere inebbriante cui nessun essere umano, per quanto forte, potrebbe resistere.
La sola parola hashis, strisciante, melodiosa, provoca nei berberi e negli orientali visioni strane e sconosciute. Non è l'oppio brutale, nauseabondo, ma che pur provoca sogni straordinari; è però qualche cosa di simile, di più fino, di più aristocratico se si può lasciar passare la parola.
Dinanzi alla fantasia eccitata da quella pasta, passano l'Arabia candida e profumata, i misteri dell'Asia Minore, l'India sacra e mostruosa colle sue bajadere scintillanti d'oro e di diamanti del Golconda a dal Vasapur, deserti immensi e boschi di palme innaffiate da fontane mormoranti entro coppe d'oro o di lapislazzulì; paesaggi strani e sconosciuti; soli brucianti o tenebre profonde, e dove fra ondate di profumi esotici appariscono e scompariscono le uri del paradiso mussulmano.
Strano narcotico che né editti di re, né di sultani, valsero a sradicare dagli orientali, i quali anche oggidì si abbandonano, con ardente voluttà, a quel sottile veleno che finirà, a poco a poco, per ucciderli o per abbrutirli completamente al pari dei fumatori o dei mangiatori d'oppio.
Il barone, semirovesciato sull'ampio seggiolone a bracciuoli, col capo posato su un soffice cuscino di seta messogli sotto dal negro, si era a sua volta addormentato.
Mentre Testa di Ferro, cervello limitato, niente affatto fantastico non vedeva apparire che fiaschi immensi ripieni di Alicante e di Xeres e pipe monumentali dove delle gigantesche teste di turchi e di berberi fumavano degli schiavi cristiani, il giovane gentiluomo, dotato d'una fantasia sbrigliata che poteva gareggiare con quelle degli orientali e d'un temperamento squisito, provava delle emozioni ben diverse.
Dinanzi agli occhi vitrei e immobili, che aveva conservati aperti, come se fosse sveglio, in preda ad una specie di sonno catalettico, vedeva sfilare, in una ridda turbinosa, galere colle vele d'oro e gli alberi d'argento, naviganti su mari di latte, trasportate da un vento furioso; palazzi incantati colle cupole scintillanti, mollemente adagiati sulle rive di laghi coperti di larghe foglie di loto, spiccanti su orizzonti violacei o verdastri; giardini meravigliosi, dove in mezzo a cespi di rose e d'aloè esalanti acuti profumi, superbe uri dal sorriso provocante, danzavano turbinosamente, invitandolo a prendervi parte, mentre orchestre misteriose e divine accarezzavano i suoi orecchi con armonie mai udite.
Poi le scene cambiavano. Si succedevano mari sconfinati coperti di galere combattenti fra di loro e gli pareva di udire il rombo dei cannoni e le urla dei morenti o le grida di vittoria; tramonti d'oro, e foreste di palme; pianure verdeggianti dove cavalieri berberi eseguivano fantasie strane, coi bianchi mantelli svolazzanti, le scimitarre lucenti in pugno, guidati da un guerriero montato su un cavallo più bianco della neve, che fendeva lo spazio con velocità straordinaria e che rassomigliava a Zuleik; poi un caos di divani, di tendaggi, di fontane, di stipi, di specchi dove in mezzo ad una nuvola di fumo odoroso vedeva folleggiare una splendida donna che lo guardava sorridendo, invitandolo a seguirla: la dama mora, che da un momento all'altro si tramutava in una fanciulla vestita di seta azzurra: la contessa di Santafiora, pallida, diafana, piangente, coi lunghi capelli neri sciolti sulle spalle e che gli tendeva le braccia con un gesto disperato.
La dama mora però riappariva ostinatamente. La vedeva emergere dalle onde del mare; folleggiare sopra le alte cime delle palme; danzare sulle spianate degli stagni; sulle prore delle navi combattenti; sulle sabbie dei deserti; sulla cima delle cupole dorate; fra i turbini di fumo; fra le vette delle montagne; nei tramonti infuocati e nelle notti illuminate dalla luna. Lo guardava sempre con quegli occhioni neri e profondi, che se li sentiva penetrare fino in fondo all'anima; gli faceva gesto di seguirla sui prati e nei boschi, lo invitava a immergersi nelle acque cristalline degli stagni e sorrideva, sorrideva... Poi tutto d'un tratto si vide piombare, da un'altezza spaventevole, in una sala meravigliosa che prima non aveva mai veduta, una di quelle sale degne dei palazzi incantati delle Mille e una notte.
Era di stile moresco, vastissima e vi regnava una deliziosa penombra, così cara in quei paesi bruciati dal sole, dove talvolta il vento del deserto inaridisce le fauci coll'arena finissima che tutto invade, che su tutto incombe. La luce scendeva da una cupola dai vetri giallo-dorati rifrangendosi in mille colori sulle pareti incrostate di ceramiche moresche, rabescate in bianco ed azzurro, la cui lucentezza marmorea dava un senso di viva freschezza e sui meravigliosi tappeti, molli e soffici, scintillanti d'oro e d'argento, che coprivano il pavimento. Tutto all'intorno correva un divano largo e basso, di seta fiorata, che pareva invitare al riposo e alle fantasticherie, interrotto, di quando in quando da un gruppo di palme sorgenti da un vaso di onice di valore immenso, o da qualcuno di quei preziosi stipi arabi, dai fittissimi intagli e dagli intarsi di madreperla, d'una precisione meticolosa; o da qualche leggero hursi a fregi d'oro, carico di ninnoli, di brocche e di catinelle d'oro e di vasi e di vasetti di lapislazzulì, pieni forse dei dolci profumi delle celebri rose di Bagdad. Nel mezzo, appoggiata a un tripode d'oro, su cui bruciava del sandalo, una donna meravigliosamente bella, tutta coperta di garze a pagliette scintillanti, colle braccia nude adorne di catenelle d'oro e di serpentelli d'argento cogli occhi di rubino ed i lunghi capelli neri sciolti sulle spalle, lo fissava e gli sorrideva, mormorando:
— Povero giovane...
Il barone si era alzato. L'azione dell'ascish era cessata; l'estasi era finita, eppure, cosa strana, il sogno continuava ancora.
Vedeva la cupola a vetri colorati; i meravigliosi tappeti; i larghi divani di seta; i gruppi di palme; gli stipi, il tripode in cui aleggiava una nuvoletta di fumo odoroso e la giovane donna che lo fissava sempre. Solamente la luce era cambiata: non era più giorno bensì notte e la sala era illuminata da una grande lampada di Venezia con candele azzurre e rosa, tutta scintillante di cristalli, sospesa al di sopra di una tavola coperta di tondi d'oro che scintillavano come soli, di anfore, di bricchi, di alzate ricolme di frutta e di dolciumi e di vassoi di bellezza meravigliosa e di un valore immenso, pieni di pasticci.
Si stropicciò energicamente gli occhi, dubitando ancora di essere proprio sveglio, eppure non dormiva, né sognava.
Guardò dove si trovava: non era più sulla poltrona bensì su un soffice divano di damasco di seta gialla, a ricami d'oro, fra due cuscini.
— Dove sono io? — si chiese. — Testa di Ferro!
Uno scroscio di risa argentino fu la risposta che ottenne. Era sfuggita dalle belle labbra, rosse come fragole mature, della giovane donna che stava appoggiata ora al bacino della fontana, entro cui si frangeva gaiamente uno zampillo cristallino.
Il barone aveva risposto con un grido di meraviglia: in quella donna aveva riconosciuto la principessa mora che lo aveva salvato dai giannizzeri di Culchelubi.
— Non è una illusione dunque? — esclamò, lasciando il divano e balzando in piedi.
I suoi occhi si erano portati involontariamente su un grande specchio di Venezia che gli stava di fronte e che rifletteva la luce della lampada. Fu un altro grido che gli sfuggì. La tinta bruna che gli aveva deposta sul viso il vecchio mirab era scomparsa ed era tornato bianco. E non era tutto. Le sue vesti, strappate e malconce dalla lotta sostenuta contro i mori, gli erano state tolte durante il sonno e gli avevano fatto indossare un superbo casacchino di seta verde a ricami d'oro, con bottoni di smeraldi, che lasciava vedere la bianca camicia di seta; calzoni di broccatello con nodi di stoffe variopinte ai lati e alti stivali di cuoio giallo come usavano allora i ricchi mori, allorquando partivano per la guerra. Una fascia di velluto, con pendenti formati da zecchini, gli stringeva lo snello corpo, ricadendo da un lato in un largo nodo.
— Siete sorpreso, signor barone? — chiese la dama, continuando a sorridere.
— Io mi domando, signora, — rispose il giovane, — se io sono ancora sotto l'influenza dell'ascish o se sono stato trasportato in qualche palazzo di fate.
— Siete sempre nel mio castello, barone — rispose la principessa. — Solamente, durante il sonno, siete stato portato in un'altra stanza. Vi dispiace?
— No signora, ma... non vedo qui il mio servo.
— Non inquietatevi per lui.
La principessa s'avvicinò al tripode, riattizzò la fiammella azzurra con una palettina d'argento, sprigionando una sottile nuvoletta di fumo che inondò la sala d'un delizioso profumo di benzoino, poi appressandosi al barone lasciò cadere a terra il mantello di garza scintillante di pagliuzze d'oro, comparendogli in tutta la bellezza del suo costume moresco, col ricco corsetto di velluto a ricami d'argento, aperto sul petto in modo da mostrare i pizzi della sottoveste, la sua fascia multicolore di garza, i suoi calzoncini a larghe pieghe, trattenuti alla noce del piede da una fila di cerchietti d'oro, le sue babbucce meravigliosamente ricamate, piccole come un petalo di giglio.
Il gentiluomo era rimasto come abbagliato, poi aveva fatto istintivamente un passo indietro. La principessa, a cui non era sfuggita quella mossa, aveva aggrottata leggermente la fronte, ma si rasserenò tosto.
— Signor barone, — disse con un amabile sorriso, — spero che non rifiuterete di cenare in mia compagnia. Avete dormito dieci ore ed il sole è tramontato.
— Nulla posso rifiutare alla donna a cui devo la libertà e fors'anche la vita — rispose il gentiluomo inchinandosi.
— Nulla! Hum! Promettete troppo, signor di Sant'Elmo — diss'ella.
— Di Sant'Elmo, avete detto, signora?
— Non è forse il vostro nome?
— Come sapete voi che io mi chiamo Sant'Elmo?
— Che v'importa chi me lo disse?
— Permettetemi una domanda, signora.
— Quante ne vorrete, ma prima sedete a tavola e fate onore alla cena. Toh! che cosa avete, barone? Mi sembrate assai turbato. È forse questo profumo a cui voi europei non siete certo abituati?
— No, signora...
— Non sarà certo il timore di trovarvi in questo castello, fra mussulmani. Un uomo che colla sua galera ne ha affrontato quattro riducendole a malpartito e che si batte come un dio della guerra, non può aver paura.
— Chi vi ha detto ciò, signora?
— Vi stupite?
— Molto.
— Eh! — fece la principessa, sorridendo. — So questo e molte altre cose ancora sul vostro conto. Strana idea che avete avuto di lasciare l'Italia per esporvi, in questo paese di fanatici, a mille pericoli. L'Italia! Ah! Quanto l'ho amata e con quanto piacere vi tornerei! Rivedo ancora, come attraverso una nebbia, azzurra, le sue opulenti città specchiantesi nelle acque del Mediterraneo e del Tirreno; i suoi vulcani fiammeggianti fra nuvole d'oro; le sue isole verdeggianti intorno alla Sicilia, come mazzi di fiori abbandonati alle onde dalle mani d'una fata; le mille e mille colonne e le cupole di Venezia; il suo cielo azzurro che non ha confronti, le sue aloè piene d'incanto e di poesia, i suoi tramonti pieni d'infinita tristezza e di dolce malinconia. Ah! Italia! Quanto ti rimpiango.
Un profondo sospiro aveva sollevato il petto della giovane dama.
— Ma chi siete voi! — esclamò il barone.
— Una principessa mora, lo sapete già.
— E siete stata in Italia?
— Sì, nella mia gioventù, assieme a mio padre, quando mio fratello...
Si era interrotta bruscamente, spingendo verso il barone un vassoio ricolmo di dolci e di gelati, poi riempì due tazze d'argento, meravigliosamente cesellate, d'un liquore color dell'ambra, dicendo: — Alla vostra bella Italia, signor barone.
Bagnò le sue labbra vermiglie nel biondo liquore, poi dopo alcuni istanti di silenzio, riprese con una certa tristezza:
— Se mio padre non mi avesse sacrificata giovanissima, appena fanciulla, ad un uomo che non amavo e che per ferocia era pari a Culchelubi, avrei desiderato finire i miei giorni in una delle vostre città e non rivedere più mai questa Algeri, dove invece del profumo dei vostri aranci non si respira che aria impregnata di sangue e di barbarie.
— Che cosa è avvenuto dell'uomo che vostro padre vi aveva dato come sposo?
— È morto sul mare, in una delle sue scorrerie contro le disgraziate spiagge del vostro paese.
Ricadde per alcuni istanti ancora nei suoi pensieri, poi guardando il barone, gli chiese a bruciapelo:
— Che cosa siete venuto a far qui, in Algeri?
— Ve lo dirò, signora, quando voi avrete risposto ad una mia domanda.
— Ah! è vero, volevate chiedermi molte cose. Mangiate, barone, discorreremo egualmente.
— Siete voi la dama che un giorno ho incontrato presso la moschea dei dervis giranti e che lasciaste cadere il velo?
— Sì, ero io — rispose la mora.
— Perché avevate lasciato cadere il velo?
— Per vedervi meglio.
— Forse che rassomigliavo a qualcuno?
La principessa lo guardò a lungo, come se avesse cercato di leggere il pensiero del barone.
— Sì — disse poi, con un sospiro soffocato. — Era bello e prode come voi, aveva i capelli biondi come voi... dolce sogno svanito, dileguatosi fra le tenebre del vostro bel paese. Avevo creduto di veder in voi...
— Chi?
— Perché risvegliare una passione ormai spenta? E l'ho veduto cadere ai miei piedi, bello anche dopo la morte, coi suoi biondi capelli spruzzati di sangue...
— Chi era signora?
— Che v'importa saperlo? — disse la principessa, corrugando la sua bella fronte. — Rassomigliava a voi, era un italiano come voi, ecco tutto.
Si passò una mano sugli occhi, come se volesse sfuggire ad una dolorosa visione e quando la ritirò, il barone vide che le pupille erano umide.
— Quando vi ho veduto, — riprese la principessa, con voce lenta e triste, — ho creduto di veder lui. In quel momento in cui stavate per precipitarvi contro i miei schiavi, avevate nello sguardo il medesimo lampo. Sarebbe stato meglio che non vi avessi mai incontrato! Eppure vi fu un momento in cui ho creduto che i morti potessero ritornare sulla terra.
Riprese la tazza e bevette avidamente un sorso.
— Sono io che vi ho fatto seguire — riprese poco dopo. — Voi avevate gettato nel mio cuore uno strano turbamento che non riuscivo a vincere e che tormentava le mie notti. Io vorrei sapere quale vento infernale vi ha spinto su queste spiagge. Badate! Algeri è pericolosa come sono pericolose le sue donne.
— Non ve l'hanno detto il motivo?
— Lo ignoro.
— Eppure voi abitate il palazzo di Zuleik.
— Che cosa vuol dir ciò.
— Zuleik avrebbe potuto dirvelo.
— Mio... Zuleik Ben-Abad è troppo triste in questi giorni per occuparsi di me. Egli non mi ha ancora detto il motivo per cui vi ha arrestato e condotto nel suo palazzo. Non sogna che quella cristiana.
Il barone aveva fatto un gesto ed era diventato pallidissimo.
— La contessa di Santafiora? — chiese con voce soffocata.
— Credo che si chiami così — disse la principessa. — Una giovane che dicono sia bellissima e che appunto per ciò Zuleik Ben-Abad perderà. Può darsi che a quest'ora sia già nell'harem del bey.
Il barone aveva mandato un grido di disperazione.
La principessa si era alzata con uno scatto da pantera. Un lampo vivido balenava nei suoi occhi profondi che avevano improvvisamente perduto il loro dolce languore, mentre le sue labbra si erano increspate.
— Che cosa siete venuto a fare in Algeri? — chiese con voce sibilante.
Il barone, richiamato in sé da quell'improvviso cambiamento di voce che suonava aspra ed imperiosa, aveva alzati gli sguardi sulla mora. Intuì che una tempesta doveva essersi scatenata nel cuore di quella donna, ed ebbe per un momento l'idea d'ingannarla, ma rigettò sdegnosamente quel pensiero.
— Signora, — disse, — sono qui venuto a salvare una donna, o meglio una fanciulla a cui io avevo dato il mio cuore.
— Una fanciulla! — esclamò la principessa che si era fatta bianca in viso. — Chi è?
— Che importa a voi il saperlo?
— Voi me lo direte! — gridò la mora, fremente e cogli sguardi fiammeggianti.
— Non ve lo dirò mai — rispose il barone con voce recisa. — Leggo nei vostri occhi una minaccia. Da gentiluomo vi ho confessato il vero motivo che mi ha spinto ad affrontare i mille pericoli che attendono un cristiano in Algeri, ma non aggiungerò una parola di più né svelerò giammai chi sia quella fanciulla.
— E se io ve l'ordinassi?
— Rifiuterei.
— Se ve ne pregassi.
— Vi risponderei ancora con un rifiuto.
— Ed il motivo di tanta ostinazione? — chiese la dama, coi denti stretti.
— Il timore che a quella povera giovane debba toccare qualche altra sventura.
— Avete ragione — disse la principessa con ira mal repressa. — Qui le rivali... si uccidono!
— Signora! — esclamò il barone facendo un gesto di sorpresa. — Io sono un cristiano e come tale voi non potreste mai amarmi.
— Lo credete?
— Il Corano ve lo proibisce.
Un sorriso ironico spuntò sulle labbra della giovane donna.
S'avvicinò al barone, e posandogli le mani sulle spalle, gli disse:
— Voi non conoscete ancora la donna d'Algeri e vi giuro che avrò il sangue di quella cristiana, e che voi me la indicherete. Ah! Voi avete osato respingere Amina! Guardati, cristiano! Algeri ti sarà fatale.
Prese un martelletto d'argento e percosse un disco metallico che si trovava appeso alla parete, sotto uno specchio di Venezia. Il bronzo non aveva ancora cessato di vibrare che i due erculei negri erano già entrati nella sala.
— Impadronitevi di questo schiavo cristiano — diss'ella con voce imperiosa. — Trascinate lui ed il suo compagno nella torre.
— Signora — disse il barone, — io sono un gentiluomo e non già uno schiavo.
— Obbedite — comandò la dama vedendo i negri esitanti. Poi fissando sul giovane uno sguardo ripieno d'odio, riprese:
— Vi ricorderete d'Amina!
Poi presa da un impeto di furore afferrò un vassoio di cristallo e lo mandò a fracassarsi sul pavimento, dicendo:
— Ecco che cosa ne farò della cristiana, quando l'avrò nelle mie mani e Culchelubi me la farà trovare!