Le pantere di Algeri/Capitolo 18 - Una lotta di titani

Capitolo 18 — Una lotta di titani

../Capitolo 17 — I misteri del palazzo di Ben-Abad ../Capitolo 19 — La principessa mora IncludiIntestazione 29 aprile 2017 75% Da definire

Capitolo 18 — Una lotta di titani
Capitolo 17 — I misteri del palazzo di Ben-Abad Capitolo 19 — La principessa mora

18.

UNA LOTTA DI TITANI


Fu svegliato all'indomani da un alterco rumoroso, che pareva fosse scoppiato sulla scala conducente nella stanza che gli serviva da prigione. Si udivano voci rauche di negri e di berberi bestemmianti in arabo ed in turco, frammiste a frasi pronunciate da un'altra voce in italiano ed in spagnolo ed a strida acute seguite da minacce che parevano non dovessero finire più.

— Avanti, cane d'un cristiano!

— Sarai tu un cane, brutto muso negro.

— Sali o ti abbrustoliremo le gambe nella calce viva!

— Siete dei birbanti, mentre io sono un gentiluomo. Se avessi qui la mia mazza non gridereste tanto alto.

— Finiscila, sali!

— Voglio vedere il mio padrone!

— Ah! Confessi che sei un cristiano?

— Niente affatto, sono un devoto seguace di Maometto.

— E non sai una parola né d'arabo, né di turco, né di berbero! A chi vuoi darla a bere? Se non parlassi anch'io l'italiano, non mi capiresti. Su, altrimenti ti butteremo giù e ti romperemo le gambe o ti faremo scoppiare il pancione!

Il barone, quantunque si sentisse ancora un po' stordito dal misterioso profumo che la sera innanzi aveva inondata la sala, si era accostato vivamente alla porta, in preda ad una profonda emozione.

Aveva riconosciuta quella voce che sagrava in italiano ed in spagnolo.

— Testa di Ferro! — aveva esclamato, impallidendo. — Quello stupido si è lasciato prendere!

La porta si era aperta ed il disgraziato catalano, con uno spintone era stato gettato dentro, mandandolo a rotolare colle gambe in aria.

— Birbanti! — aveva urlato il povero uomo, furibondo. — Quando potrò avere la mia mazza...

— Che cosa faresti?— chiese il barone, facendosi innanzi.

— Per Sant'Isidoro, mio patrono! — esclamò il catalano, rialzandosi con una vivacità che non si sarebbe mai supposta in quel corpaccio. — Voi signor barone!

— È invocando i santi che vuoi mostrarti buon mussulmano? — chiese il barone, che non aveva potuto frenare un sorriso.

Testa di Ferro si era fermato dinanzi al giovane, colla bocca aperta, sgranando gli occhi come se non fosse ben certo di trovarsi in compagnia del suo padrone.

— Voi! Proprio voi, signore! — esclamò finalmente. — Ditemi che non sogno!

— Sarebbe meglio per te che tu sognassi, mio povero Testa di Ferro. Siamo nelle mani di Zuleik.

— Lo so, signore. È lui che mi ha riconosciuto e che mi ha smascherato. Dannato moro! Che il diavolo se lo porti!

— E come ti sei lasciato prendere? Ti credevo già in salvo.

— Eh, signore! Non abbiamo fortuna su questa terra maledetta — disse Testa di Ferro. — E tutto perché non avevo con me la mia mazza.

— Valeva meglio il fucile che tenevi con te e che probabilmente ti sarai dimenticato di adoperare.

— E che, voi credereste che io non mi sia difeso? Non so quanti falconieri abbia gettato al suolo.

— Sono i falconieri che ti hanno preso?

— Sì, signor barone. Vedendovi scoperti, io ero rimasto nascosto sulla cima della collina, pensando che vi sarei stato più utile libero che prigioniero.

— La prudenza non è mai troppa — disse il barone, ironicamente.

— Lo diceva anche il Normanno — rispose Testa di Ferro che aveva creduto opportuno non rilevare l'ironia del padrone. — Vi avevo veduto tornare fra Zuleik ed i mori, ma non osai mostrarmi. D'altronde nulla avrei potuto fare da solo.

— Lo credo.

— Verso sera, credendo che tutti si fossero allontanati, avevo lasciato il mio nascondiglio per far ritorno ad Algeri e avvertire l'equipaggio della feluca della disgrazia toccatavi, quand'ecco piombarmi alle spalle i falconieri di Zuleik, che tornavano pure verso la città portando un morto. Lo avevate ucciso voi quel moro?

— Sì.

— Me l'ero immaginato.

— E ti hanno preso?

— Non senza una viva lotta. Mi sono difeso come un leone, peggio ancora, come una pantera, come una tigre...

— Lascia le belve feroci che nulla hanno da fare coi conigli.

— Ah! Signor barone!

— Tira innanzi.

— Un Barbosa...

— Finiscila.

— M'hanno appioppato sul cranio una calciata di fucile, gettandomi da cavallo. Se la mia testa non fosse stata ben solida, non avreste più ritrovato vivo il vostro fedele servo.

«Ho avuto un bel gridare io che ero un buon mussulmano e che adoravo Maometto; quei birbanti non hanno voluto credermi e mi hanno condotto in questo palazzo mostrandomi a Zuleik. È stato un capitombolo completo e tutta la mia fede mussulmana è crollata d'un colpo solo.»

— Ti ha riconosciuto subito?

— Purtroppo signore, quantunque cercassi di dare al mio viso un'espressione ferocissima.

— E del Normanno hai saputo nulla?

— Il Normanno! — esclamò Testa di Ferro. — Non è qui anche lui?

— No, era fuggito tirandosi dietro un drappello di cabili.

— Che l'abbiano ucciso?

— Ecco quello che io ignoro e che avrei desiderato sapere.

— Ed ora, signor barone, che cosa faranno di noi questi maledetti infedeli? Mi sento tremare il cuore.

— Non disperiamo, Testa di Ferro. C'è qualcuno che ci protegge.

— Chi?

— Non so chi sia, ma ho sospetto nella padrona di quei due negri. Io giurerei di averla veduta ieri sera.

— Dove?

— Qui.

— Oh!

— Stavo per addormentarmi, stordito da non so qual profumo, quando mi è comparsa in quell'angolo. Che sia la dama che abbiamo incontrato presso la moschea dei dervis od un'altra, io non lo so.

— E che cosa vi ha detto?

— Mi si è accostata e mi ha baciato.

— Non avete sognato, signor barone?

— No, avevo gli occhi aperti e mi pare di sentire ancora sulla mia guancia l'impressione delle sue labbra.

— Che istoria mi raccontate, signor barone? Era bella?

— Non lo so, perché era tutta avvolta in un velo bianco.

— Che fosse un fantasma invece?

— Ti dico che era di carne ed ossa.

— E non l'avete afferrata?

— Non potevo muovermi. Quel profumo misterioso m'aveva tolto le forze.

— E poi?

— Poi non so più nulla.

— Che questa stanza sia abitata dai folletti? — disse Testa di Ferro, lanciando all'intorno uno sguardo spaventato. — Se fossero almeno così buoni da portarci fuori da qui! Signor barone, e della contessa avete saputo nulla da Zuleik?

A quella domanda una profonda tristezza si era diffusa sul viso del giovane.

— Non parlarmi di lei — disse con voce soffocata. — Temo che per me sia perduta.

— Vi è il Normanno, signore.

— Chi mi assicura che sia ancora vivo?

— Ed il capo dei dervis.

— Chi lo avrà informato della nostra cattura?

— Dove finiremo noi dunque?

Il barone non rispose. Si era lasciato ricadere sul divano, prendendosi la testa fra le mani, ed immergendosi in tristi pensieri.

— Povero Testa di Ferro — sospirò il buon catalano. — Io comincio a temere di dover lasciar qui le mie ossa.

Vedendo che il barone rimaneva silenzioso, si era accoccolato sul tappeto tormentandosi invano il cervello per trovare un mezzo qualsiasi per prendere il volo. Architettava progetti su progetti che finivano sempre in un sospirone di scoraggiamento.

Era trascorsa già una mezz'ora, quando gli parve di udire nel cortile del palazzo uno scalpitare di cavalli ed un gridìo minaccioso, a cui si univano strilli di donne ed imprecazioni.

Urlavano nel cortile, sulle scale, sulle terrazze, come se il palazzo fosse stato invaso da un'orda nemica.

— Signore! — esclamò Testa di Ferro, alzandosi sbigottito. — Che cosa succede? Non udite questo trambusto.

Il barone, immerso nei suoi pensieri, pareva che non si fosse nemmeno accorto di tutto quel gridìo che diventava sempre più minaccioso.

— Che cosa vuoi? — chiese.

— Si direbbe, signore, che nel cortile si combatte.

Alcuni colpi di fucile erano rimbombati, facendo tremare la vetrata della cupola.

— Chi può assalire la dimora di Zuleik, di un principe? — si chiese il giovane.

— Che sia scoppiata in Algeri qualche sommossa?

— O che sia il Normanno che viene a liberarci alla testa dei suoi marinai?

— È impossibile! Prendere d'assalto un palazzo, in mezzo ad Algeri! Chi tenterebbe una simile pazzia?

Ad un tratto impallidì. Delle voci furiose urlavano:

— Il cristiano! Vogliamo il cristiano! Ordine di Culchelubi!

Quantunque il barone ben poco conoscesse di berbero, pure era riuscito ad afferrare qualche parola ed a comprendere il senso di quelle grida.

— Qualcuno ci ha traditi! — esclamò.

— Ditemi che cosa accade, signore? — chiese Testa di Ferro. — Mi sembrate spaventato.

— Vengono ad arrestarci.

— Chi?

— I soldati di Culchelubi.

— Della pantera d'Algeri! Ah! Cane di Zuleik! Misericordia! Siamo finiti!

— Taci! No, Zuleik non può averci traditi, perché pare che i suoi servi oppongano resistenza. Devono essere stati i mori che lo accompagnavano.

— Signor barone, siamo morti — balbettò Testa di Ferro, che si sentiva mancare le gambe.

Le grida ed il frastuono si avvicinavano. Di quando in quando si udiva qualche colpo di moschetto o di pistola.

Il barone, curvo verso la porta, in preda ad una profonda angoscia, ascoltava, mentre il catalano si dava dei pugni sulla testa, gemendo:

— Siamo morti! Siamo morti!

Delle persone salivano la scala a chiocciola che conduceva nella sala, vociando sempre:

— Il cristiano! Ordine di Culchelubi!

Il barone aveva gettato all'intorno uno sguardo, cercando un'arma, più deciso a farsi uccidere che cadere vivo nelle mani della pantera d'Algeri, la cui ferocia era nota in tutta l'Europa.

— Nulla! — esclamò. — Dovremo dunque cedere senza lotta! Testa di Ferro, a me! Barrichiamoci!

Aveva appena mandato quel grido, quando la porta fu spalancata sotto un urto irresistibile e un torrente di giannizzeri irruppe nella sala colle scimitarre e le pistole in pugno.

— Eccolo! — aveva gridato un uomo che aveva la casacca coperta di ricami d'oro e che doveva essere il comandante. — Addosso! Ah! Ve n'è un'altro! Doppia presa!

I giannizzeri stavano per scagliarsi contro il barone e Testa di Ferro ed atterrarli prima che pensassero ad opporre resistenza, quando una voce imperiosa gridò:

— Fermate! Non si viola l'asilo d'una discendente dei califfi!

Una donna, di bellezza meravigliosa, era entrata improvvisamente nella sala per una porta segreta, mettendosi dinanzi al barone ed a Testa di Ferro. Quattro negri di statura colossale, armati di pesanti mazze d'acciaio e che tenevano a guinzaglio due mastini dal pelame irto, grossi come jene, l'accompagnavano.

Il barone aveva mandato un grido di stupore. Aveva riconosciuta la dama che aveva incontrata presso la moschea dei dervis giranti ed in due di quei negri gli stessi che lo avevano aiutato a sbarazzarsi dei beduini. Quella dama, che non doveva avere più di vent'anni, era il tipo più perfetto della donna mora, razza che sembra uscita dalla fusione del sangue arabo col semitico, prendendo il meglio dell'uno e dell'altro popolo. Senza essere grande, aveva una bella statura, con un corpicino da silfide con curve molli e gentili; un visetto pieno e fresco, colla carnagione lattea, di quel pallore che hanno reso così famose le creole d'America; occhi nerissimi, tagliati a mandorla, che avevano dei lampi strani in fondo alle pupille, velati da lunghe sopracciglia e ingranditi artificiosamente da una linea d'antimonio; un nasino perfetto e una boccuccia rotonda, come un anello, secondo l'espressione dei poeti moreschi.

Come il giorno che il barone l'aveva veduta per la prima volta, indossava un ricchissimo caffettano di seta verde trasparente, con maniche larghissime a ricami d'oro e perle, stretto alla cintura da una larga fascia di velluto azzurro scintillante di brillantini e calzoncini di seta bianca arabescata, che scendevano fino alla noce dei piedi dove erano trattenuti da cerchietti d'oro. Non aveva invece né il velo sul viso, né il grazioso turbantino rosso e mostrava la sua opulenta capigliatura nera, parte raccolta in grosse trecce e parte rialzata graziosamente sulla bella fronte, dove era trattenuta da due pettini d'oro. Il barone non aveva potuto trattenere un grido d'ammirazione e stupore.

— Amina! — aveva mormorato. — La visione di ieri sera!

La giovane donna, con un gesto imperioso aveva trattenuto lo slancio brutale dei giannizzeri.

— Che cosa volete voi qui! — aveva gridato. — Non si rispettano più adunque, in Algeri, le principesse more? Uscite!

Fra i giannizzeri vi era stato un momento di esitazione e di stupore. La bellezza e l'audacia della dama e soprattutto l'alta posizione che occupava, avevano prodotto un profondo effetto anche su quei feroci berberi, abituati a eseguire ciecamente gli ordini del terribile capitano generale delle galere algerine. Quell'esitazione non doveva però durare molto. L'ufficiale che li comandava si era fatto innanzi, dicendo con voce risoluta:

— Signora, io devo obbedire agli ordini di Culchelubi e vi consiglierei di non tentare nessuna resistenza. Questi due uomini sono cristiani, anzi dei fregatari e devo tradurli dal capitano generale.

— Tu menti come un cabilo! — disse la dama. — Questi uomini sono mussulmani.

— Lo proveranno dinanzi a Culchelubi.

— E non è tutto — continuò la principessa. — Questi uomini mi appartengono e, cristiani o mussulmani, non usciranno dal palazzo del principe Ben-Abad. Si chiami mio fratello.

— È partito fino da stamane, padrona — disse un servo che era entrato assieme ai giannizzeri. — Non sappiamo dove sia.

— In sua assenza allora comando io e vi ordino di uscire dal mio palazzo e di dire a Culchelubi che una principessa Ben-Abad non cede ai suoi capricci. M'avete udito? Andate!

— Signora, — rispose l'ufficiale, — guardatevi! Nessuno ha mai osato resistere agli ordini del capitano generale.

— In tal caso la prima sarò io.

— Volete costringermi a ricorrere alla violenza? — gridò l'ufficiale, aggrottando la fronte e facendo un gesto d'impazienza. — I vostri servi hanno già cercato di resistere e alcuni hanno pagato colla vita la loro audacia.

— Una minaccia a me! — gridò la dama. — Eh, via, volete scherzare!

— Vi dico che io eseguirò l'ordine ricevuto. Non oserò mai tornare dinanzi al capitano generale senza i due cristiani e li avrò.

— Provate a prenderli.

— Giannizzeri, preparate le armi.

La principessa era diventata pallida, più di sdegno che di paura. Il barone, che fino allora era rimasto silenzioso, ammirando l'audacia di quella donna che osava far fronte ai più feroci soldati d'Algeri, comprendendo che stava per succedere un massacro, si era fatto innanzi, dicendo:

— Signora, io non parlo il berbero, mi pare d'aver udito che quegli uomini vogliano me.

Gli occhi neri e profondi della mora si erano fissati sul giovane con viva tenerezza.

— Sì, — disse in italiano, — È voi mio bel gentiluomo che vogliono, ma io non cederò alle loro pretese, né agli ordini di Culchelubi. Due cavalli e una scorta sono pronti per farvi fuggire ed io vi proteggerò.

— Sono un cristiano, signora.

— Lo so.

— Proteggendomi vi comprometterete di fronte ai vostri correligionarii e potreste cadere in disgrazia.

— Io! — fece la dama, alzando leggermente le spalle.

— Lasciate che mi arrestino, signora. Vedo che preparano le armi e potrebbe succedervi qualche disgrazia.

— Vedrete come tratterò io questa canaglia sanguinaria.

Poi additando all'ufficiale la porta, ripetè con suprema energia:

— Esci di qui, tu e la tua sbirraglia e questa sera porterò le mie lagnanze al bey, per l'offesa fatta a una discendente dei califfi.

— Penserà il capitano generale a proteggermi, signora. Giannizzeri, agguantate i cristiani!

I venti soldati stavano per scagliarsi innanzi colle scimitarre in pugno, quando i quattro negri si gettarono innanzi alla principessa ed al barone, sciogliendo contemporaneamente i due mastini.

— Misericordia! — gridò Testa di Ferro che era balzato sul divano.

I cani si erano precipitati addosso ai giannizzeri latrando con furore. Parevano due tigri affamate e assetate di sangue umano.

L'ufficiale, preso alla gola, era caduto pel primo e rantolava sotto i denti d'acciaio del mastino che gli stritolava le ossa.

I giannizzeri però, gente scelta fra i più valorosi, non avevano arrestato il loro slancio e mentre alcuni cercavano di tener testa al secondo mastino che azzannava i più vicini, gli altri si erano precipitati verso il barone, mandando urla selvagge.

— A me, negri! — aveva gridato la principessa.

I quattro colossi, che non aspettavano che quell'ordine, a loro volta si erano scagliati, stringendo le loro mazze d'acciaio, impegnando una lotta spaventosa.

Dotati d'una forza da giganti e validamente appoggiati dai due mastini che balzavano come tigri, ululando ferocemente, non dovevano tardare ad aver ragione sui giannizzeri, quantunque questi fossero cosi numerosi. Fino dal primo urto, quattro o cinque soldati erano caduti coi crani orrendamente spaccati da quelle terribili mazze d'acciaio che tutto fracassavano: armi ed uomini.

Il barone, vedendo a terra una scimitarra, si era slanciato per raccoglierla onde prendere parte alla lotta, ma la dama lo aveva arrestato, dicendogli:

— Lasciate fare ai miei uomini e approfittate per fuggire. Venite!

— E voi?...

— Non preoccupatevene, Culchelubi non oserà nulla contro di me.

Lo prese per una mano e lo trasse quasi a forza verso la porta segreta, mentre i quattro giganti ed i mastini facevano strage dei giannizzeri, insanguinando i tappeti, le pareti e perfino la fontana azzurra.

Testa di Ferro, che assisteva atterrito a quel combattimento orribile, vedendo il padrone uscire, si affrettò a raggiungerlo, ben felice di potersene andare. La dama condusse il gentiluomo attraverso uno stretto corridoio che pareva aperto nelle massicce pareti del palazzo, gli fece scendere una scaletta a chiocciola, poi aprì una porta.

Si trovavano in un ampio giardino, ombreggiato da superbi palmizi e da rosai d'altezza mai veduta.

Quattro cavalli berberi, di forme splendide, scalpitavano dinanzi alla porta, trattenuti a stento da due negri che non la cedevano per muscolatura a quelli che tenevano testa ai giannizzeri.

— Seguiteli, mio bel gentiluomo — disse la dama. — Vi condurranno in un luogo sicuro.

— Signora...

— Silenzio, partite...

Con un gesto imperioso gli additò i cavalli. I due negri erano già balzati in sella, dopo d'aver alzato Testa di Ferro, giacché il povero catalano pareva che avesse le gambe paralizzate.

— Grazie, signora — disse il barone.

La principessa gli fece colla mano un gesto d'addio, e scomparve nel corridoio, chiudendo la porta.

— Seguiteci — dissero i mori, spronando.

I quattro cavalli partirono come il vento. Attraversarono in un momento il giardino e uscirono su un'ampia via fiancheggiata da giardini e che pareva deserta.

— Padrone — disse Testa di Ferro, che si teneva aggrappato disperatamente alla sella. — Dove andiamo?

— Non lo so; accontentati di essere ancora vivo.

— Che questi negri ci assassinino invece?

— Non vedi che fuggiamo?

— E perché quella dama, sapendoci cristiani ci ha difesi, invece di lasciarci arrestare?

— Che ne so io?

— Che sia innamorata di voi?

— Può darsi, ma preferirei che non lo fosse.

— Dite invece signore che ciò sarebbe una fortuna e la prova l'abbiamo avuta ora. Senza quei negri i giannizzeri ci avrebbero presi.

Il barone gli lanciò uno sguardo di collera.

— E la contessa? La dimenticate, signor Testa di Ferro?

— Ah! Perdonate, signor barone, non so nemmeno quello che mi dica. Che cosa volete? Sono successi in quarant'otto ore tanti avvenimenti che mi pare di non aver più il cervello a posto. Povera signora! Che cosa sarà di lei?

— Taci, Testa di Ferro — disse il barone. — Non riaprire la ferita che mi ha squarciato il cuore.

Il catalano crollò il capo senza rispondere, ma in fondo al cuore benediva l'intervento di quella dama mora che li aveva sottratti ad una morte più che certa.

I quattro cavalli divoravano la via, con rapidità vertiginosa. Erano già usciti dalla città per la porta d'oriente e galoppavano attraverso la campagna, seguendo un sentiero aperto fra ortaglie difese da gigantesche siepi formate da fichi d'India e da enormi ceppi di aloè.

Dove si dirigevano i negri? Per un momento il barone ebbe il dubbio che lo conducessero verso il mare onde imbarcarlo a viva forza e ricondurlo in Italia od a Malta, ma ben presto si convinse del contrario.

I due negri, dopo qualche miglio, avevano voltate le spalle alla spiaggia dirigendosi verso un bosco di palme in mezzo alle quali si vedeva ergersi una torre che non era il minareto d'una moschea.

— Dove andiamo! — chiese.

— Seguiteci ancora un poco, signore — rispose uno dei due negri in cattivo italiano. — Noi eseguiamo gli ordini della padrona.

Attraversarono il bosco senza rallentare la velocissima corsa dei cavalli e giunsero alla base d'una collinetta sulla cui cima si innalzava una specie di castelletto di stile moresco, con vaste terrazze sovrapposte, ampie gallerie di marmo bianco sorrette da colonnine scanellate e fiancheggiato da una torre pentagonale difesa in alto da grosse merlature.

— Che cos'è? — chiese il barone, arrestando il cavallo.

— Il castello di Sidi-Aman — rispose il negro.

— A chi appartiene?

— Alla mia padrona.

— E andremo lassù?

— Abbiamo avuto l'ordine di condurvici.

— Avrei preferito non uscire d'Algeri.

— Obbedite, signore, se vi preme non cadere nelle mani di Culchelubi, dalle quali non uscireste vivo dopo quanto è accaduto.

— Andiamovi, signore — disse, Testa di Ferro, che udendo parlare di Culchelubi si era sentito correre un lungo brivido per le ossa. — Staremo meglio lassù che fra le unghie di quella pantera.

I cavalli salirono al trotto un sentiero che serpeggiava pel colle e s'arrestarono dinanzi al ponte levatoio il quale, ad un fischio dei due negri, era stato subito abbassato dal guardia-portone.

— Siete al sicuro, signore — disse il negro che parlava l'italiano, volgendosi verso il barone. — Sarà ben bravo Culchelubi se saprà trovarvi.

Entrarono nel cortile, scesero dai cavalli facendo segno al barone e a Testa di Ferro d'imitarli, poi li condussero al piano superiore facendoli salire per un ampio scalone di marmo e l'introdussero in una sala, dicendo:

— Siete in casa vostra.