Le donne di buon umore/Atto I
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ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Camera di Costanza.
Costanza alla tavoletta, e Mariuccia cameriera
che sta assettandole il capo.
Costanza. Eppure ancora non istò bene. (guardandosi nello specchio alla tavoletta)
Mariuccia. Che dice mai, signora padrona? Sta tanto bene, che pare una principessa.
Costanza. Non vedi che da questa parte i capelli sono meglio arricciati che da quest’altra?
Mariuccia. Io non ci conosco questa gran differenza.
Costanza. Ci mancherebbe poco, che non mi rimettessi le mani in testa un’altra volta, e non ti facessi ricominciare da capo.
Mariuccia. L’abbiamo fatto due volte, si potrebbe fare la terza.
Costanza. Sì signora, e la terza, e la quarta, e la quinta, e quante volte mi pare e piace. Mi preme di comparire, e quando una donna non ha la testa acconciata bene, può avere intorno tutto quello che vuole, non comparisce.
Mariuccia. E poi sarà capace di mettersi la bautta in testa e rovinarsi tutta l’acconciatura.
Costanza. Voi a questo non ci avete a pensare. Se anderò in maschera, mi metterò la bautta, e se resto in casa, e se vien qualcheduno a trovarmi, non voglio che nessun possa dire che io non sono di buon gusto. Ieri sera alla festa da ballo venivano tutti a vedere la mia acconciatura per una cosa particolare.
Mariuccia. E non l’ho acconciata io ieri sera?
Costanza. Sì, ma quanto tempo ci abbiamo messo.
Mariuccia. Eh poco. Dalle quindici sino alle ventidue.
Costanza. Purchè le cose siano ben fatte, pazienza.
Mariuccia. Eh signora, quando averà marito, non consumerà tanto tempo alla tavoletta.
Costanza. Oh, in quanto a questo poi, il mio signor marito qualunque sarà, avrà la bontà di non impacciarsi negli affari della mia camera.
Mariuccia. Favorisca, signora, ha niente per le mani ancora?
Costanza. Mio padre mi ha proposto vari partiti, ma io non sono contenta di nessuno di loro. Vi è un certo Conte che non mi dispiace; ma non ho fretta di maritarmi; sai che io sono di bell’umore. Piacemi l’allegria, e se posso fare a meno, non voglio guai.
Mariuccia. Ella pensa benissimo; e sono anch’io del parere medesimo. Fino che si è in libertà, si può ridere allegramente.
Costanza. È levata la signora zia?
Mariuccia. Sì signora, si è alzata ch’è un pezzo.
Costanza. Gran vecchia è quella! Ieri sera ha voluto venir con me alla festa di ballo. Siamo venute a casa tardissimo, ed oramai è alzata.
Mariuccia. È in piedi che saranno due ore; anzi, per dire la verità, sono andata a spiare dal buco della chiave, ed ho veduto che si dava il rossetto.
Costanza. Si è mai trovata una vecchia simile?
Mariuccia. Non dee essere poi tanto vecchia, perch’è ancora zitella, e sento che ha intenzione di maritarsi.
Costanza. Sì, è una zitelluccia di sessant’anni.
Mariuccia. Sessanta!
Costanza. Credo ancora che sieno di più.
Mariuccia. Eppure, chi la vede e la sente, pare più lesta e più bizzarra di noi.
Costanza. È stato bussato.
Mariuccia. Anderò a vedere.
Costanza. Se fosse il sarto, fatelo venire innanzi.
Mariuccia. Si fa qualche cosa di nuovo?
Costanza. E come! vedrete, vedrete. Le vicine, le amiche, voglio che si rodano dalla rabbia.
Mariuccia. S’ella si mette un abito nuovo, scommetto che domani alla pigionante gli vengono subito le convulsioni. (parte)
SCENA II.
Costanza, poi Mariuccia che torna.
Costanza. Quando vedranno poi le mie gioje, allora creperanno d’invidia. Ho un padre, per dire la verità, che mi contenta di tutto; è sordo il poverino, ma quando mi preme qualche cosa, so ben io la maniera di farmi intendere.
Mariuccia. Sa ella chi è, signora?
Costanza. Chi mai?
Mariuccia. La signora Felicita.
Costanza. A quest’ora?
Mariuccia. A quest’ora, in maschera e sola.
Costanza. Frullategli la cioccolata.
Mariuccia. Converrà che io la faccia apposta.
Costanza. Non ve n’era dentro la cogoma?
Mariuccia. Ve n’erano rimaste due buone chiccare, e la cara vecchia è andata in cucina, e se l’è bevuta tutta, che non n’è rimasto un gocciolo. (parte)
SCENA III.
Costanza, poi Felicita in maschera con bautta.
Costanza. Fa per conservarsi bene la poverina. La compatisco. È una gran cosa per noi quell’aver da diventar vecchie. Quando ci penso, mi vengono i sudori freddi.
Felicita. Serva, signora Costanza.
Costanza. Serva sua, signora Felicita.
Felicita. Coll’occasion della maschera, son venuta un poco a vedervi.
Costanza. Mi avete fatto piacere. Gran bel comodo è in Venezia la maschera. Ecco qui, una donna civile, quand’è maritata, può andar sola a far le sue visite, o far gl’interessi suoi, senza una menoma osservazione.
Felicita. Saranno oramai tre ore che io sono in giro.
Costanza. Brava davvero! So pure che siete restata al festino dopo di me.
Felicita. Sì certo, ed ho ballato sin giorno.
Costanza. Accomodatevi, sarete stanca.
Felicita. Non sono stanca, ma sederò volentieri. (siedono)
Costanza. Quante ore avete dormito?
Felicita. Niente. Non ho nemmeno toccato il letto. Terminata la festa, m’immascherai, come mi vedete. Andiedi a casa, mi accostai alla camera. Intesi che mio marito ronfava, ed io senza disturbarlo me l’ho battuta.
Costanza. Sarete piena di sonno.
Felicita. Tornerei ora a ballare, fresca fresca come una rosa.
Costanza. Ci sarei stata anch’io volentieri fino al termine della festa, ma avevo meco quella anticaglia della signora zia, e per compassione di lei ho dovuto partire.
Felicita. Dorme la vecchiarella?
Costanza. Oibò! E alla tavoletta, che si mette in gala.
Felicita. Avete veduto ieri sera al festino come faceva le carte col contino Rinaldo?
Costanza. Se l’ho veduta? E come! Vi assicuro che mi facea venir male.
Felicita. E quel caro Conte, come la prendeva bene per mano!
Costanza. Eh, il contino Rinaldo è un giovine che sa fare lo spiritoso. Fa il bello con tutte, e con tutte si prende la libertà di scherzare. Ma se mi ci viene, lo vuò burlare ben bene.
Felicita. In queste cose ci sono ancor io. Troviamo qualche invenzione bizzarra per cavarci spasso di lui. Facciamolo un po’ stare questo bell’umorino. Già siamo di carnevale; qualche cosa è lecito in questi tempi, che in altro tempo non si farebbe. Basta che siano divertimenti onesti.
Costanza. Sentite quel che ho pensato, per farlo un po’ disperare. Voglio formare una lettera a lui diretta, piena di affetti e di tenerezze, lodando in essa il suo merito e le sue bellezze, e voglio fargli capitare la lettera al caffè dove pratica, senza ch’ei possa rilevare chi l’abbia scritta. Poi tutte due mascherate andiamo al caffè, e sentiamo un poco l’effetto che produrrà questa lettera.
Felicita. Sì, va bene; ma facciamo qualche cosa di più. Facciamogli credere, che alcuna di noi sia innamorata di lui. Teniamolo qualche tempo in speranza, e poi facciamolo rimanere burlato.
Costanza. Si sì, colla scorta vostra posso prendermi qualche maggior libertà. Ecco la cioccolata. Bevetela, che intanto vado a formar la lettera che ho divisata... Mi viene un’altra cosa nel capo. Ve la dirò al ritorno. Trattenetevi, che ora vengo. (Il Conte non mi dispiace. Potrebbe anche darsi che lo scherzo non mi riuscisse inutile affatto). (da sè, e parte)
SCENA IV.
Felicita e Mariuccia.
Felicita. Costanza è una giovane che ha del brio. Mi piace infinitamente. (resta sedendo)
Mariuccia. Eccola servita della cioccolata.
Felicita. La prenderò volentieri. Non ho riposato la notte; ho bisogno di confortarmi lo stomaco. (va bevendo la cioccolata)
Mariuccia. Perdoni, signora, come sta il signor Leonardo?
Felicita. Mio marito? (bevendo)
Mariuccia. Sì signora. Sta bene?
Felicita. Sta bene. Lo conoscete? (bevendo)
Mariuccia. Sì signora, lo conosco. È un pezzo che non viene da noi a giocare a naso. Glielo dica che venga da noi. E il più caro pazzo del mondo.
Felicita. (Resta sorpresa) Così parlate di mio marito? Avete con lui una gran confidenza!
Mariuccia. Dico così per dire. È ella forse gelosa?
Felicita. Potrebbe darsi, che di qualche bel soggetto fossi gelosa. Ma di voi, no certamente.
Mariuccia. Dice bene; di me no, perchè si sa chi sono: per altro....
Felicita. Oh certo; lo vederessimo cascar morto. (con ironia)
Mariuccia. Eh, ne sono cascati degli altri.
Felicita. Per voi? (con ammirazione ironica)
Mariuccia. Per me. (seria)
Felicita. Sono cose che fanno crepar di ridere. (ridendo)
Mariuccia. Non burli, perchè se gli dicessi quello che mi ha detto il signor Leonardo....
Felicita. Vi avrà trattata da quella pazza che siete.
Mariuccia. A me pazza?
Felicita. Insolente.
SCENA V.
Costanza e dette.
Costanza. Cosa c’è, Mariuccia?
Mariuccia. Niente. (mostrandosi adirata)
Felicita. Ve lo dirò io.
Mariuccia. Non ci è bisogno ch’ella faccia altre scene, (o Felicita)
Felicita. Mi ha detto che mio marito....
Mariuccia. Mi stupisco di lei, che voglia fare pettegolezzi.
Costanza. Parlate con rispetto, vi dico; prendete questa lettera, datela al servitore, e ditegli che la porti subito al caffè dell’Aquila, che la diano a chi va, e che non dicano chi l’ha mandata.
Mariuccia. Sì signora. (prende la lettera con sdegno)
Costanza. Cosa son questi grugni?
Mariuccia. Niente, niente, signora. (Sì, per dispetto la voglio far disperare quella signora che mi ha detto pazza). (da sè, e parte)
SCENA VI.
Costanza e Felicita.
Costanza. Che diamine ha Mariuccia?
Felicita. Sentite, dove si caccia l’ira. Mio marito è un uomo che gli piace barzellettare, ed ella crede sia di lei innamorato, e pretenderebbe ch’io ne fossi gelosa. L’ho sofferta per amor vostro, per altro....
Costanza. Compatitela, non ha giudizio; orsù, la lettera è andata. Non l’ho scritta io di mia mano, perchè se mai si venisse a scoprire, non voglio che il mio carattere mi condanni. Mia zia mi ha fatto ella il servizio. Io l’ho dettata, ed essa l’ha scritta. Ma che termini vi ho messo dentro! che amori! che tenerezze! Vi prometto, che quando la legge, ha da rimanere incantato. Di più sentite il bel pensiere che mi è sopravvenuto. Gli ho scritto nella lettera, che l’amante incognita anderà mascherata a ritrovarlo al caffè, ed acciò ch’egli la possa conoscere, avrà ella in petto un nastro color di rosa. Ora, per farlo un po’ taroccare, facciamo così, signora Felicita. Mettiamoci al petto tutte due un nastro color di rosa compagno; eccoli qui, uno per voi, e un per me; andiamo poscia al caffè tutte due mascherate, e godiamo la bella scena. (si puntano ì nastri al petto)
Felicita. Sì sì, ci prenderemo un poco di spasso. Ma ditemi, cara amica, questa burla che vogliamo fare al contino Rinaldo, che la facessimo al cavaliere Odoardo?
Costanza. Eh, col Cavaliere non mi ci metto; la sa più lunga di noi.
SCENA VII.
Dorotea, Pasquina e dette.
Dorotea. Oh di casa. Ci è nessuno?
Felicita. Sentite. (a Costanza)
Costanza. È la signora Dorotea; ed è colla figliuola.
Felicita. Già si sa, madre e figlia sono sempre in giro.
Costanza. Venite avanti, signora.
Dorotea. Serva sua, signora Costanza.
Costanza. Serva sua, signora Dorotea.
Pasquina. Serva divota. (a Costanza)
Costanza. Serva umilissima. (a Pasquino)
Felicita. Serva loro. (a Pasquino e Dorotea)
Dorotea. Serva obbligatissima. (a Felicita)
Costanza. Siete per tempo in maschera. (a Dorotea)
Dorotea. Che volete? lo faccio per dar piacere alla mia figliuola.
Felicita. E intanto vi divertite anche voi.
Dorotea. Eh, per dire la verità, il divertimento non mi dispiace.
Costanza. Sedete, se comandate.
Dorotea. Sì signora, sono un poco stracchetta.
Costanza. Anche voi, signora Pasquina.
Pasquina. Oh, io non sono stanca.
Costanza. Eppure la notte passata avete tanto ballato.
Pasquina. Anche ora ballerei, se potessi.
Darotea. Via mettetevi a sedere, obbedite. (a Pasquina)
Pasquina. Questa sera, signora madre, ci torneremo al festino?
Costanza. Noi ci andiamo, conducetela ancora lei.
Dorotea. Sì, volentieri. Sapete che io non ballo, ma mi diverto a vedere; mi piace star a osservare le belle scene.
Felicita. Eh già; chi non balla, sta lì a segnar le caccie, e a sindicare sui fatti altrui.
Dorotea. Ieri sera, ho veduto delle gran cose. Avete osservato la signora Lucrezia, che abiti, che gioje! Io non so come faccia.
Pasquina. E con tutti i suoi abiti e le sue gioje balla così male, che non si può far peggio.
Dorotea. Eh, se non balla bene, che serve? Sa ben fare la graziosa, e tutta la conversazione era intorno di lei.
Costanza. Propriamente mi aveva stomacata con quei complimenti affettati.
Felicita. E pur, quando parla, tutti stanno a bocca aperta a sentirla.
Pasquina. Se ne burlano.
Costanza. La corbellano.
Dorotea. Non fa ella propriamente crepar di ridere? Osservate com’ella fa. (caricata) Divotissima, obbligatissima; si accomodi qui, favorisca di qua. Per ora non ballo. Sono un poco stanchetta. Mi favorisca il ventaglio; obbligatissima alle sue grazie.
Costanza. Brava, brava da vero. È proprio la sua medesima caricatura.
Felicita. E cosa dite della signora Fulgenzia, che stava ritirata nel canton della sala?
Dorotea. Oh quella poi, mi capite... lo saprete.... aveva vicino.... già mi capite....
Felicita. Sì; so ogni cosa.
Dorotea. E voi? (a Costanza)
Costanza. Raccontatemi.
Pasquina. Ci è qualche novità della signora Fulgenzia? Si è forse fatta la sposa? (a Dorotea)
Dorotea. Statevi zitta, che voi non ci entrate. (a Pasquina) Era vicino di lei quell’amico....
Costanza. Chi?
Felicita. Quel mercante. (a Costanza)
Dorotea. Quello che ha speso tanto? (piano a Costanza)
Felicita. Che or ora l’ha mandato in rovina. (come sopra)
Costanza. Da vero?
Felicita. Non lo sapete?
Dorotea. Vi racconterò con più comodo.
Pasquina. Signora madre, vien tardi, e abbiamo d’andar in quel luogo. (a Dorotea)
Dorotea. Sì, andiamo; con vostra buona licenza vi leveremo l’incomodo, (si alzano)
Pasquina. Signora madre, guardate i bei nastri color di rosa.
Dorotea. È vero: tutti due compagni. Sono forse all’ultima moda?
Costanza. Sì certo, è una moda venuta or ora di Francia, (ridendo)
Pasquina. Se ne potessi aver uno ancor io!
Dorotea. Costeranno poco.
Costanza. Costa tanto poco, che se la signora Pasquina vuol questo, glielo do volentieri.
Pasquina. Oh, mi farebbe tanto piacere.
Costanza. Eccolo qui, servitevi.
Pasquina. Obbligatissima. (lo prende e se lo punta al petto)
Dorotea. E io ne potrei aver uno?
Costanza. Ne volete uno anche voi? Volentieri. Vado di là a pigliarlo, e ve lo porto immediatamente.
Felicita. (Signora Costanza, tutti questi nastri c’imbroglieranno). (piano a Costanza)
Costanza. (No, no, può anzi essere che la scena sia più gustosa). (piano a Felicita) Vado anch’io a mascherarmi. Vi porto il nastro, e ce ne andremo tutte d’accordo. (parte)
SCENA VIII.
Felicita, Dorotea e Pasquina.
Felicita. (I nastri sono troppi; nascerà certamente una confusione). (da sè)
Dorotea. Pare che vi dispiaccia, signora Felicita, che noi pure abbiamo il nastro alla moda.
Felicita. Non è per questo. Ma voi non sapete, che cosa vogliano significar questi nastri?
Pasquina. Oh guardate che gran cosa! Ne ho di più belli cento volte di questi.
Dorotea. Mia figlia può andar del paro con chi si sia.
Pasquina. L’avete veduto il mio abito nuovo? (a Felicita)
Felicita. Signora no, non l’ho ancora veduto.
Dorotea. È una stoffa, che ho fatto venire di Francia.
Pasquina. Che me lo metta questa sera, signora madre?
Dorotea. Signora no; ve lo metterete l’ultima settimana di carnevale.
Pasquina. Se venite da noi, ve lo mostrerò. (a Felicita)
Felicita. Eh, ci sarà tempo.
Pasquina. (Ha invidia). (piano a Dorotea)
Dorotea. (Non lo dire a nessuno, che lo abbiamo comprato in ghetto). (piano a Pasquina)
SCENA IX.
Costanza mascherata in bautta, e le suddette.
Costanza. Ecco qui; ecco, signora Dorotea, un nastro simile anche per voi.
Dorotea. Vi sono tanto obbligata.
Costanza. Volete che andiamo tutte al caffè?
Dorotea. Andiamo pure....
Pasquina. Signora madre, non abbiamo noi d’andare dal gioielliere?
Dorotea. Sì, è vero: si passerà dalla sua bottega.
Felicita. Volete far qualche spesa?
Dorotea. Mia figlia vorrebbe una certa cosa.
Pasquina. Vorrei barattare quest’anelletto.
Costanza. Lasciatelo un po’ vedere: oh bellino!
Pasquina. Mi è un poco stretto.
Costanza. (Felicita). (chiamandola piano)
Felicita. (Cosa ci è?) (piano)
Costanza. (Oh che caso bello! Quell’anellino lo aveva in dito il Conte ier sera). (come sopra)
Felicita. (Che glielo abbia donato lui?) (come sopra)
Costanza. (Sì certo. Sul festino ier sera). (come sopra)
Felicita. (State zitta, che ce lo godremo). (come sopra)
Dorotea. Signore, se avete dei segreti, ce ne andremo.
Costanza. Compatite; abbiamo un piccolo interessuccio.
Dorotea. (Non vorrei che si accorgessero dell’anello. Ha fatto male Pasquina a farlo vedere).
Felicita. Via, se si ha da andare, andiamo.
Pasquina. Noi vogliamo passare dal gioielliere.
Costanza. Bene; e noi vi attenderemo ai caffè.
Pasquina. Al caffè dell’Aquila?
Costanza. Appunto.
Pasquina. Sì sì, ho piacere; può essere che ci ritroviamo il contino Rinaldo. (parte)
Dorotea. Ehi, sentite, ve lo confido. Quell’anellino l’ha donato a mia figlia il signor Battistino, che dev’essere suo marito. Ma non voglio che si sappia, perchè non voglio che di me si dica. Lo sapete, in materia di queste cose, io sono una donna delicatissima. (parte)
SCENA X.
Costanza e Felicita.
Costanza. Che dite eh? Che buona madre?
Felicita. Che sia poi vero di quell’anello?
Costanza. Oh, gliel’ha dato il Conte, sicuro. Ne sono certissima.
Felicita. Se lo sa Battistino! È vero ch’è un uomo di poco spirito, ma se lo sa, scommetto che l’abbandona.
Costanza. Eh, Dorotea è una donna scaltra; gliela darà ad intendere a modo suo.
Felicita. Ma con tutti questi nastri compagni, come sperate voi?....
Costanza. Andiamo, andiamo, che per istrada vi dirò quel ch’io penso.
SCENA XI.
Silvestra e dette.
Silvestra. Brava, signora nipote; andate in maschera eh?
Costanza. Serva, signora zia.
Felicita. Serva sua, signora Silvestra.
Silvestra. La riverisco. (a Felicita) Dove si va, signora? (a Costanza)
Costanza. Vado un pochino a spasso. Comanda niente, signora zia? (a Silvestra)
Silvestra. Se andate voi, ci voglio venire ancor io.
Felicita. Anch’ella in maschera a piedi? Si stancherà, signora.
Silvestra. Mi stancherò? Credete che io non sia buona da camminare? Mi fate ridere; sarò capace di camminare più di voi. (a Felicita) Signora sì, voglio venire ancor io.
Costanza. Ora vado colla signora Felicita in un servizio; verrà con me questa sera.
Silvestra. Signora no, a casa non ci voglio stare.
Felicita. Avete difficoltà, che venga meco vostra nipote? Son donna maritata; non vi è bisogno che voi le facciate la scorta.
Silvestra. Io non intendo di volerle fare la guardia; sono zitella al pari di lei; e se ho qualche anno di più, non sono ancora da lasciare in un cantone.
Felicita. (Per me, non la voglio assolutamente). (piano a Costanza)
Costanza. Davvero, signora zia, vado in un piccolo servizietto, e torno subito a casa.
Silvestra. Garbata! Non mi volete, eh? Sì sì, verrete un’altra volta da me a pregarmi che io vi scriva le lettere. (sdegnata)
Costanza. Siate buona, signora zia, non andate in collera.
Silvestra. Certo, io in casa, e voi a spasso; e col bel nastro color di rosa.
Costanza. Lo comanda? È padrona.
Silvestra. Nè anche per questo.... Via, puntatemelo qui in petto.
Costanza. Subito volentieri. (si leva il nastro, e lo punta al petto di Silvestra.)
Silvestra. Ah! Sto bene? (a Felicita)
Felicita. Benissimo. Siete un incanto. (E voi, Costanza?) (piano a Costanza)
Costanza. (Andiamo di là; ho dell’altra fettuccia; ne faccio uno immediatamente). (piano a Felicita)
Silvestra. Tornate presto, che anderemo al caffè.
Costanza. Dove?
Silvestra. Al solito luogo.
Costanza. Stamattina credo di non potere. Serva sua. Ci andremo poi questa sera?
Felicita. Questa sera alla festa di ballo.
Silvestra. Oh, alla festa non manco. Ieri sera col bel Contino ho fatto un minuetto solo; questa sera ne voglio fare una mezza dozzina.
Felicita. (Vuol essere meglio burlata. E pure se ne trovano di queste vecchie). (da sè, e parte)
Costanza. (Deggio secondarla per i miei fini. E poi convien compatirla. La gioventù suol disprezzar la vecchiaia; ma quando saremo vecchie, si farà lo stesso di noi). (da sè, e parte)
Silvestra. Bene, bene: andate pure dove volete; pensate che io voglia aspettarvi in casa? Siete pazze, se lo credete. Vado subito a mascherarmi. Figuratevi, se io voglio stare in casa a dormire. È vero che sono un poco avanzata, ma il sangue mi bolle, ed il cuore mi brilla in petto. Son bella e diritta, ci sento, ci vedo, ho tutti i miei denti in bocca, e non la cedo ad una giovane di vent’anni. (parte)
SCENA Xll.
Bottega da caffè.
Il Conte Rinaldo e Nicolò caffettiere.
Conte. Nicolò.
Nicolò. Illustrissimo.
Conte. Chi ha portato qui questa lettera?
Nicolò. Io non lo so, signore. L’hanno portata, che io non ci era. L’ho dimandato ai giovani, ma non lo sanno nemmeno loro.
Conte. Non occorr’altro.
Nicolò. Vuole restar servita del caffè?
Conte. Sì, preparatelo.
Nicolò. L’acqua è sempre calda, il caffè si macina in un momento, in due minuti lo faccio. Da noi, non si accostuma di far bollire il caffè la mattina per il mezzogiorno, e molto meno far ribollire gli avanzi dell’altro giorno. Noi lo facciamo di fresco in fresco, e presto, e buono, e col caffè di Levante, e in materia di caffè i Veneziani sono famosi per tutto, non solo in Venezia, ma in altre parti ancora.
Conte. Voi siete un uomo di garbo, e per chiacchere non avete pari.
Nicolò. Io ho sempre veduto, che le marmotte fanno poca fortuna. Di là mi chiamano; con sua licenza. (parte)
Conte. Eh, in questi caffè anche le marmotte si svegliano. Ma chi mai sarà questa incognita amante, che mi scrive con una sì gran tenerezza? S’è vero quel ch’ella dice, verrà al caffè mascherata, ed avrà per segno un nastro in petto color di rosa. Se viene, farò ogni sforzo per poterla conoscere. Ma chi mai può essere? Non saprei certamente. È poco tempo che io sono in Venezia, non ho gran pratica nè della città, nè delle persone. Può essere, che quella che scrive sia una di quelle signore, che ho veduto ieri sera al festino. Per dire la verità, ce n’erano delle belle. Che fosse la giovinetta a cui ho donato l’anello? Non crederei; è troppo tenera per prendersi tal libertà, ed ho veduto che nel pigliare l’anello si è fatta rossa, e se non era sua madre, forse forse non lo prendeva. Quella certa signora che ha nome Costanza, mi ha fatto anch’essa delle finezze, ma la conosco, è accorta come il demonio. Non è capace di pensare e di scrivere con tal passione. Ma non lo potrebbe fare taluna ancora per corbellarmi? Ecco una mascheretta. Non vedo l’ora di vedere quella dal nastro rosso. Oh cospetto di bacco! Per l’appunto ha la coccarda in petto color di rosa.
SCENA XIII.
Costanza, Felicita con maschera al volto, e detto.
Costanza. (Trattenetevi qui per un poco. Lasciate che io vada innanzi; copritevi il nastro, e quando vi par tempo, avanzatevi). (piano a Felicita, poi si avanza)
Conte. (Spero che si darà a conoscere). Servo, signora maschera.
Costanza. (Gli fa una riverenza, senza parlare.)
Conte. Ero impaziente per il desio di vederla.
Costanza. Dice a me?
Conte. Sarei fortunato, se potessi meritare l’onor di servirla.
Costanza. A me, signore?
Conte. Sì a voi, gentilissima signora maschera, dico a voi.
Costanza. Mi conoscete?
Conte. Per dire il vero, ancora non so chi siate.
Costanza. Bene dunque: così non si parla con una maschera che non si conosce.
Conte. Signora, se non vi conosco nel volto, vi riconosco al segno.
Costanza. A qual segno?
Conte. A quel nastro color di rosa.
Costanza. Bella da vero! Non vi saranno in Venezia altri nastri compagni?
Conte. (Alla voce mi pare la signora Costanza. Se posso, vo’ procurar di chiarirmi). Graziosa mascheretta, comandate il caffè?
Costanza. No signor, vi ringrazio: che se vien mio marito, non voglio che mi conosca.
Conte. Siete voi maritata?
Costanza. Pur troppo per mia disgrazia. Ho sei figliuoli, quattro in casa, uno a balia, e uno per la strada.
Conte. (Quando è così, non è la signora Costanza). (da sè)
Costanza. (Finora il divertimento è bellissimo). (da sè)
Conte. Ditemi in grazia: sareste voi per avventura la bella incognita, che mi ha scritto questo biglietto?
Costanza. Io? Non so nè leggere, nè scrivere.
Conte. Siete una donna ordinaria dunque?
Costanza. Mi meraviglio di voi. Badate bene come parlate. Sotto di queste maschere non si sa chi possa essere.
Conte. Dite di non sapere nè legger, nè scrivere.
Costanza. Dico di sì e di no, come mi pare e piace.
Conte. Ditemi la verità, vi supplico instantemente, l’avete scritto voi questo foglio?
Costanza. Su l’onor mio vi giuro che io non l’ho scritto.
Conte. (Dunque non è lei certamente). (da sè)
Costanza. Mi fa ridere il signor Conte.
Conte. Mi conoscete?
Costanza. Sicuro.
Conte. Mi vedeste altre volte?
Costanza. Sì certo, vi ho veduto, e parlato.
Conte. Dove?
Costanza. Da vero me lo sono scordato.
Conte. Eh signora, lo vedo; volete meco spassarvi. Fatemi la finezza, scopritevi.
Costanza. Sola non mi conviene di farlo. Amica, venite innanzi. (a Felicita che si avanza e scuopre il nastro)
Conte. (Ecco un nastro compagno. Che imbroglio è questo!) (da sè)
Felicita. Serva sua, signor Conte.
Conte. Anche voi mi conoscete? Tutte due avete il nastro color di rosa. Chi di voi sarà quella?
Felicita. Io sono quella certo.
Costanza. Ancor io sono quella sicuro.
Conte. Ma di voi due, chi ha scritto questo biglietto?
Felicita. Io no.
Costanza. Nè men io.
Conte. Mi sapreste almeno dire, chi l’abbia scritto?
Felicita. Se lo so, non lo voglio sapere.
Conte. Ah sì; voi lo averete scritto.
Felicita. Onoratamente vi dico, che non è vero.
Conte. Dunque voi lo averete formato. (a Costanza)
Costanza. Io? Di voi non ci penso nè meno.
Conte. Quando è così, potete andarvene, signore mie.
Costanza. Che bella civiltà!
Felicita. Che bella creanza!
Costanza. Siete voi il padrone della bottega?
Felicita. Alle donne civili si fanno simili malagrazie?
Conte. Ma se voi pensate di corbellarmi....
Felicita. Non si esibisce nè meno un caffè?
Conte. Subito, volentieri. Caffè. (chiamando forte)
Nicolò. (Di dentro) La servo.
Conte. (Se si cavano la maschera, le conoscerò). (da sè) Voi, signora, lo beverete? (a Costanza)
Costanza. Farò quel che farà la compagna.
Conte. Brava, in verità ci ho gusto.
Nicolò. Eccole servite del caffè. (con cogoma e guantiera con chiccare)
Conte. Favorite sedere.
Felicita. Non vo’ sedere.
Costanza. Nemmeno io.
Conte. Molto zucchero? (a Felicita)
Felicita. Piuttosto.
Conte. Così? (ponendo il zucchero nella chiccara)
Felicita. Anche un poco.
Conte. E voi?
Costanza. Una cosa giusta.
Conte. Ma con la maschera non lo beverete.
Costanza. Bevetelo voi, signore.
Conte. Servitevi prima voi. Questo è il vostro. (presenta la tazza a Costanza)
Costanza. Oh, è qui mio marito.
Felicita. Oh, vedo venir mio fratello. Serva sua. (al Conte)
Costanza. La riverisco. (al Conte)
Felicita. Lo mantenga caldo.
Costanza. Lo beveremo dimani.
Felicita. Quella del viglietto lo riverisce. (parte)
Costanza. Quella del nastro gli fa umilissima riverenza. (parte)
SCENA XIV.
Il Conte, Nicolò, poi Dorotea con Pasquina.
Nicolò. Comanda ella il caffè?
Conte. Va al diavolo anche tu.
Nicolò. (Queste veneziane la sanno lunga). (da sè, e parte)
Conte. Vo’ seguitarle, voglio conoscerle.... Oh, ecco delle altre maschere col nastro in petto. Cui sa che una di queste.... Sono imbrogliatissimo. Queste veneziane mi vogliono far impazzire.
Dorotea. (Costanza e Felicita non ci sono. Aspettiamole, che verranno). (piano a Pasquina)
Pasquina.(Guardate, signora madre, il Contino che mi ha donato l’anello). (piano a Dorotea)
Dorotea. (Oh sì; sta zitta. Facciamolo un po’ strolicare). (piano a Pasquina)
Conte. (Quei maledetti nastri mi pongono in confusione). (da sè)
Dorotea. Serva sua.
Conte. Servo divoto.
Pasquina. La riverisco.
Conte. Padrona mia.
Dorotea. Fate gran carestia della vostra persona.
Conte. Io? Non vi capisco, signora.
Dorotea. So ben io quel che dico. Delle amiche vecchie il signor Conte non si degna più.
Conte. In Venezia io non ho veruna amicizia. Fatemi la finezza di dirmi almeno chi siete.
Dorotea. Io mi chiamo Pandora.
Conte. E voi? (a Pasquina)
Pasquina. Ed io mi chiamo Marfisa.
Conte. Due bellissimi nomi! Brave, signore mie. Veggo, conosco che vi piace assai divertirvi, e che vi dilettate di prender per mano un povero forastiere. Ma avvertite che, se mi ci metto, saprò rifarmi ancor io.
Dorotea. Siete in errore; qui in Venezia non si usa burlare li forastieri. Siete stato mai burlato?
Conte. E come, e in che maniera! Volete voi sentire, se mi hanno corbellato ben bene? Vi leggerò un viglietto, che vale un tesoro. (Leggendolo, potrò forse scoprire se alcuna di loro l’ha scritto). Sentite. (legge) Signor Conte adorabile. A me.
Pasquina. Non è forse ben detto?
Conte. Vi pare che io sia adorabile?
Dorotea. Si sa chi abbia scritto?
Conte. Ancora non l’ho potuto sapere. Sentite che dolce titolo mi vien dato. Signor Conte adorabile. (leggendo)
Dorotea. Sin qui non dice male.
Pasquina. Fa giustizia al merito.
Conte. Grazie della buona opinione che hanno di me lor signore. (Se lodano il viglietto, ho ragione di sospettare che venga da qualcheduna di loro). (da se) Sentite come principia. Una incognita amante vi ha consacrato il cuore, e sospira giorno e notte per voi. Per me. Sentite come l’incognita mi beffeggia?
Dorotea. Vi pare strana una simil cosa?
Pasquina. Vossignoria non lo merita?
Conte. (Giurerei che una di esse lo ha scritto). (da sè)
Dorotea. Lo finisca di leggere.
Pasquina. (Sono curiosa di saper chi è costei). (da sè)
Conte. Ascoltate, che ora viene il buono. L’incognita, che vi ama, per suoi onesti riguardi si tiene ancora celata. Oggi voi la vedrete colla maschera al viso, e avrà per segno un nastro al petto color di rosa.
Dorotea. Oh diamine!
Pasquina. Cosa sento?
Conte. Ditemi, signore mie, quel nastro lo portano al seno tutte le donne del popolo veneziano?
Dorotea. Perchè?
Conte. Perchè poc’anzi ne ho vedute altre due con un nastro simile similissimo al vostro.
Dorotea. Da vero?
Conte. Sì certamente.
Dorotea. (Chiamando Pasquino) Maschera, una parola. (Che ne dici, Pasquina? E che sì, che il viglietto l’ha formato la signora Costanza?) (piano a Pasquino)
Pasquina. (Così credo ancor io, è capace di averlo fatto). (piano a Dorotea)
Dorotea. (Non facciamo per altro che da noi si scuopra). (piano come sopra, e torna al suo posto)
Conte. (Questi loro segreti mi fanno sempre più sospettare che il viglietto venga dalle loro mani). (da sè)
Dorotea. Avete verun sospetto intomo a chi possa avervi scritto quel foglio?
Conte. Direi, se non temessi di essere troppo ardito.
Dorotea. Via, ditelo.
Conte. Mi pare che quella che l’ha vergato, non sia molto da me lontana.
Dorotea. A voi, maschera. (a Pasquina)
Pasquina. A me?
Conte. Se il mio pensier non m’inganna, se il viglietto è sincero, perchè non mi fate l’onor di scoprirvi?
Pasquina. Per me, non l’ho scritto certo.
Dorotea. Sapete chi l’averà scritto? Quella giovane a cui donaste l’anello.
Conte. Come sapete voi, che io ho donato un anello?
Dorotea. Sì signore, sappiamo tutto.
Pasquina. L’abbiamo anche veduto, e sappiamo ch’è un bell’ anellino.
Conte. Ditemi. Sareste voi la signora Pasquina?
Pasquina. Io Pasquina? Non signore.
Conte. E voi, signora.... (a Dorotea)
Dorotea. Sa chi son io? Costanza.
Conte. La signora Costanza! Quella giovane così bella e così vezzosa, che ieri sera alla festa di ballo mi piacque tanto? Quella che fra tante altre brillava e risplendeva come una stella?
Pasquina. (Sentite come la loda!) (da sè)
Dorotea. So che scherzate, signore. Costanza non merita questi elogi. Quella a cui donaste l’anello è più giovane, ed è più bella.
Conte. La signora Pasquina ha il suo merito, non lo nego; ma in paragone di voi, io non la stimo un zero.
Pasquina. Maschera, andiamo via. (a Dorotea, forte)
Dorotea. Or ora, aspettate un poco. (a Pasquino) Non vi piace dunque la signora Pasquina? (al Conte)
Conte. Vi replico, non mi dispiace. Ma non sarei disposto ad amarla; e poi ha quella sua madre così antipatica, che io non la posso soffrire.
Dorotea. Maschera, andiamo, ch’è tardi. (a Pasquina)
Conte. Vogliono partir così presto! Non vogliono restar servite di un caffè?
Dorotea. Obbligata. (al Conte) Pezzo d’asino, (da sè, e si avvicina a Pasquina a cui dice piano) Andiamoci a travestire, perchè non possa riconoscerci, se ci vede in altro luogo.
Conte. Signora Costanza, io vi amo, vi stimo e vi venero sopra tutte, e se voi in questo foglio mi parlate sinceramente.... (a Dorotea)
Dorotea. Quel foglio non è mio; ve lo dico e ve lo mantengo; e chi ha prudenza, non scrive di queste lettere ad un forestiere. Costanza ringrazia il signor Conte delle sue finezze, e in ricompensa di ciò, lo manda a far squartare ben bene. (parte)
Pasquina. Ed io mi sottoscrivo, e la riverisco. (parte)
SCENA XV.
Il Conte, poi Silvestra mascherata con bautta e volto.
Conte. Maledetta sia la signora Costanza, e quante sono queste diavole che mi vengono a perseguitare. Ma chi sa dirmi di certo, che quella maschera sia la signora Costanza? Parmi impossibile, che una giovane sì ben fatta sia capace d’un simile sgarbo.
Silvestra. (Le cerco per tutto, e non le ritrovo. Dove mai si saranno cacciate?) (da sè)
Conte. Possibile che io non possa scoprire chi ha scritto questo viglietto?... Oh, ecco qui un’altra maschera col solito nastro.
Silvestra. (Ecco qui il forastiere, con cui ho ballato ieri sera).
Conte. (Non vorrei andare di male in peggio; sarà meglio che io me ne vada). (in atto di partire)
Silvestra. Favorisca, signore. (al Conte)
Conte. Che mi comanda?
Silvestra. Se ne va via così subito?
Conte. Vorrei andarmene veramente.
Silvestra. Favorisca; senta una parola.
Conte. Posso servirla? Comanda qualche cosa?
Silvestra. Eh, se mi vorrà favorire, non ricuserò le sue grazie.
Conte. (Questa pare più compiacente). Vuole il caffè?
Silvestra. Mi dispiace di essere così sola.
Conte. Non le basta la compagnia d’un uomo d’onore, d’un galantuomo?
Silvestra. Via, non gli voglio far questo torto.
Conte. Vuol che l’ordini adunque?
Silvestra. Mi farà una finezza.
Conte. Caffè. (Se non mi burla come le altre, la vedrò almeno nel viso). Si accomodi.
Silvestra. Sieda ella pure; ha tanto ballato ieri sera, che sarà ancora stanco.
Conte. È vero; ho ballato molto. Ci foste voi sul festino?
Silvestra. Sì signore, ed ho anche con lei ballato.
Conte. Ho ballato con molte, per dire la verità.
Silvestra. Ma con me so che ha ballato con gusto.
Conte. Posso sapere chi siete?
Silvestra. Che l’indovini.
Conte. Le maschere mi confondono; non saprei indovinare. Ma quello che ancora più mi confonde, si è quel maledetto nastro color di rosa.
Silvestra. Questo nastro?
Conte. Sì quello, perchè mi viene scritto in un foglio, che lo vedrò in petto ad una che mi vuol bene.
Silvestra. Favorisca, quel viglietto comincia così? Signor Conte adorabile.
Conte. Sì certo; eccolo qui per l’appunto. Voi dunque ne siete informata. Voi mi saprete dir chi l’ha scritto.
Silvestra. Per dirla.... il carattere è mio.
Conte. Siete voi dunque l’incognita che mi ama?
Silvestra. (Giacchè non vi è Costanza, voglio tentar la mia sorte). Certo, sì signore, io sono quella che, come dice il viglietto, notte e giorno per voi sospira.
Conte. Ti ringrazio, fortuna: ho finalmente scoperto quello che io tanto desideravo. Ma posso sperar, signora, che sia il vostro cuore sincero?
Silvestra. Capperi! sincerissimo. Le giovani mie pari non sono capaci di dir bugie.
Conte. Oh cielo! Siete fanciulla, giovane, o maritata?
Silvestra. Eh, sono ancora zitella.
Conte. (Muoio di volontà di vederla). Caffè. (chiama)
Nicolò. Eccolo qui prontissimo, (con cogoma e guantiera con chiccare)
Conte. Si smascheri, signora.
Silvestra. Ci è nessuno?
Conte. Nessuno. (Non vedo l’ora).
Silvestra. Eccomi. Mi conosce? (si leva il volto)
Conte. (Oimè!)
Silvestra. Che cosa è stato?
Conte. Niente, niente.
Silvestra. Si sente male?
Conte. Un poco.
Silvestra. Poverino! Saprò io consolarvi.
Conte. (Oh che tu sia maledetta!) (da sè)
Silvestra. È buono questo caffè?
Nicolò. Non si domanda nemmeno. L’ho fatto apposta.
Silvestra. Metteteci ben bene dello zucchero. Mi piace il dolce; e a voi. Contino?
Conte. Anche a me qualche volta. (Ma oggi mi è toccato l’amaro). (da sè)
Silvestra. Dell’altro zucchero.
Nicolò. Ancora?
Silvestra. Sì, dell’altro. Oh, così va bene. (beve il caffè)
Nicolò. (Signor Conte).
Conte. (Cosa vuoi?)
Nicolò. (Mi rallegro con lei).
Conte. (Di che?)
Nicolò. (Di questa buona fortuna).
Conte. (Anche tu mi dileggi?)
Silvestra. Oh caro questo dolcetto. (leccando il zucchero in fondo alla tazza)
Conte. (Or ora mi fa rivoltare lo stomaco).
Silvestra. Signor Conte, vuole che andiamo?
Conte. Vada pure, si accomodi.
Silvestra. Non sarò degna della sua compagnia?
Conte. Ho qualche cosa da fare.
Silvestra. Eh via, colle fanciulle civili non si tratta così. Venga meco, e mi dia la mano.
Conte. Dove vorreste andare, signora?
Silvestra. A casa.
Conte. Che diranno se una fanciulla, una zitelluccia sua pari, la vedano andar a casa con un forastiero?
Silvestra. Che dicano quel che vogliano. Nessuno mi comanda. Sono anch’io da marito. Orsù, mi favorisca la mano.
Conte. Eccomi a servirla. Godiamoci questa vecchietta.
Silvestra. Oh che tu sia benedetto. (partono)
Fine dell’Atto Primo.