Le confessioni/XVI
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XVI.
Cessai dal dubitare, ma acquistai la convinzione che la dottrina di questa fede, alla quale m’ero avvinto, non era tutta verità. Dapprima avrei detto ch’era interamente falsa, ora non lo potevo più.
Il popolo aveva la conoscenza delle verità, era indiscutibile, altrimenti non avrebbe potuto vivere. Inoltre questa conoscenza della verità m’era già accessibile, ne vivevo già, la sentivo. Ma in questa stessa conoscenza v’era pure anche menzogna, non potevo dubitarne. Tutto ciò che prima mi aveva respinto, ora era vivente davanti a me. Vedevo bene che nel popolo v’era meno di questo miscuglio di menzogna che non fra i rappresentanti della Chiesa; eppure anche nelle credenze del popolo il falso si mescolava col vero.
Ma da dove veniva la menzogna, e da dove la verità? La menzogna come la verità esistono nella tradizione, in ciò che si chiama la santa Tradizione e le Scritture. La menzogna, come la verità, è trasmessa da ciò che si chiama la Chiesa.
Mio malgrado ero così condotto allo studio, all’esame di questa Scrittura e di questa Tradizione, esame che avevo tanto temuto fino a quel giorno.
Mi rivolsi dunque allo studio di questa stessa teologia che altra volta avevo respinto con disprezzo, come inutile. Allora essa mi pareva essere solo una serie di assurdità; allora da ogni parte ero circondato dai fenomeni della vita, che mi parevano chiari e pieni di senso, mentre ora sarei stato contento di respingere ciò che non rientrava nel mio cervello sano. Ma non sapevo dove andare. Su questa dottrina religiosa è basata, o almeno legata indissolubilmente, l’unica conoscenza del senso della vita che mi sia stata rivelata. Per quanto ciò sembri bizzarro alla mia vecchia e ferma ragione, è l’unica speranza di esser salvato. Bisogna esaminarla prudentemente e con attenzione per comprenderla molto meno bene di quanto comprendessi le proposizioni scientifiche. Non tento e non posso tentare di comprenderla altrettanto perfettamente, sapendo la bizzarria della scienza della religione. Non cercherò la spiegazione di tutto, poichè so che la spiegazione di tutto, come il principio di tutto, deve nascondersi nell’infinito. Ma voglio comprendere in modo tale da esser condotto a ciò che è inevitabile e inesprimibile. Voglio che tutto ciò che è inesprimibile rimanga tale, non perchè le esigenze del mio spirito sono ingiustificate (sono giustificare e non posso comprendere nulla all’infuori di esse), ma perchè vedo i limiti della mia ragione. Voglio comprendere in modo tale che ogni proposizione inspiegabile mi appaia come una necessità della mia stessa ragione e non come un’obbligazione di credere.
È innegabile che la verità sia nella dottrina, ma è anche indiscutibile che questa racchiuda una parte di menzogna, ed io devo trovare il vero e il falso e separarli l’uno dall’altro. Ecco ciò che sto per intraprendere. Ciò che ho trovato falso in questa dottrina, ciò che ho trovato vero, a quali risultati sono arrivato; tutto ciò formerà le parti seguenti di quest’opera, che sarà probabilmente pubblicata un giorno se qualcuno giudicherà che ne valga la pena e che sia necessario.
1879.
Ho scritto ciò che precede tre anni fa.
Percorrendo ora queste pagine, seguendo nuovamente questo cammino del pensiero e dei sentimenti che furono miei in quel tempo, ho fatto un sogno.
Questo sogno mi presentò in riassunto tutto ciò che avevo sentito e descritto. Ecco perchè questa descrizione rinfrescherà la memoria di quelli che mi hanno compreso, spiegherà e coordinerà tutto ciò che è raccontato così a lungo in queste pagine. Ecco il sogno.
Sono in letto, non sto nè bene nè male; sono allungato sul dorso, ma incomincio a chiedermi se son ben coricato; mi par che qualche cosa mi dia noia ai piedi. È troppo corto o ineguale? Non so, ma c’è qualcosa che non va. Muovo i piedi e nello stesso tempo incomincio a chiedermi su che son coricato, mentre finora non ci avevo pensato. Esamino il mio letto e vedo che son coricato su delle cinghie fissate ai due lati del letto. I miei piedi poggiano su una di queste cinghie, le gambe su un’altra, ma i piedi sono incomodi. Io so — il perchè lo ignoro — che le cinghie si possono spostare e, con un movimento dei piedi, respingo la cinghia estrema, che è sotto ai miei piedi. Mi pare che starò meglio così. Ma l’ho respinta troppo lontano, voglio riprenderla coi piedi, ma per questo movimento l’altra cinghia scivola sotto ai miei ginocchi e le mie gambe pendono. Faccio con tutto il corpo un movimento per rimettermi a posto, sicuro di riuscirvi, ma questo movimento fa scivolare e spostare sotto di me le altre cinghie, e vedo che l’affare va male...
La parte inferiore del mio corpo rimane penzolante, i miei piedi non arrivano al suolo. Io son sostenuto soltanto nella parte superiore del dorso e, non solo questa posizione è incomoda, ma incomincio ad aver paura. Allora mi domando quello a cui, dapprima, non avevo pensato. Mi domando. Dove sono e su che cosa son coricato? Guardo intorno a me e soprattutto in basso, su cui il mio corpo è sospeso e dove sento che cadrò ben presto. Guardo in basso e non posso credere ai miei occhi: sono su un’altura, non solo su un’altura simile alla più alta torre o alla montagna più elevata, ma sono su un’altura tale come non avrei mai potuto immaginare.
Non posso neppur rendermi conto se vedo proprio qualche cosa, in basso, in questo precipizio senza fondo che mi attira e sopra il quale sono sospeso. Il mio cuore si stringe, il terrore m’invade. Guardare in basso è spaventevole. Sento che se guardassi scivolerei subito dall’ultima cinghia e perirei. Non guardo, ma non guardare è peggio ancora, poichè penso a ciò che mi accadrà, fra un istante, quando scivolerò dall’ultima cinghia. E sento, nel mio terrore, che perdo il mio ultimo appoggio e che, lentamente, scivolo sul dorso, sempre più in basso. Ancora un movimento, e nulla più mi tratterrà!...
Ed ecco ciò che mi viene in mente: No, è impossibile che sia vero; è un sogno; svegliati. Cerco di svegliarmi, ma non posso. Che fare, che fare? mi domando, e guardo in alto. In alto pure c’è l’abisso. Guardo quest’abisso celeste e mi sforzo di dimenticar l’altro; vi riesco; l’infinito del basso mi respinge e mi terrorizza, l’infinito dell’alto m’attira e mi riconforta. Resto sospeso sopra l’abisso, sull’ultima cinghia, lo so, ma guardo solo in alto e la mia paura scompare. Come avviene sovente nei sogni, una voce qualunque mi dice: Attento, è questo! Affondo lo sguardo sempre più lontano nell’infinito dell’alto e mi sento divenir calmo. Ricordo tutto ciò che era, ricordo come tutto è avvenuto, come ho mosso i piedi, come fui sospeso, come rimasi terrorizzato e come son sfuggito all’orrore guardando al disopra del mio capo. E mi domando: Ebbene! ora, perchè son sospeso come prima? Non guardo intorno a me, ma sento con tutto il corpo il punto d’appoggio su cui mi tengo e vedo che non son più sospeso, che non cado, ma che mi tengo solidamente. Mi chiedo in che modo mi tenga, mi tocco, mi guardo in giro e vedo che v’è sotto di me, proprio nel mezzo del mio corpo, una cinghia; guardando in alto, mi trovo coricato su di essa nel più stabile equilibrio e m’accorgo che fin da prima essa sola mi teneva. Come succede nel sonno, il meccanismo che mi sostiene mi sembra assai naturale, comprensibile, indiscutibile, quantunque in realtà questo meccanismo non abbia il minimo senso comune. In sogno mi stupisco perfino di non averlo capito subito; inoltre, là, vicino alla mia testa, si trova un’antenna di incontestabile solidità, sebbene non abbia base. A questa antenna è fissata una corda, in modo molto ingegnoso e molto semplice. Se si è coricati su questa corda con la parte centrale del corpo e si guarda in alto, non potrebbe neppur affacciarsi la possibilità di una caduta.
Tutto ciò è chiaro per me, e sono tranquillo e felice.
Mi parve che qualcuno mi dicesse: Attento. Questo non va dimenticato.
E mi svegliai.
1882.
FINE.