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VII IX


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VIII.


Ora sono in grado di esporre, più o meno logicamente, tutti questi dubbi, ma allora non avrei potuto farlo; sentivo soltanto che, nonostante tutta la logica e la certezza delle mie [p. 52 modifica]conclusioni sulla vanità del mondo, confermate dai più grandi pensatori, qualche cosa mancava. Era nel ragionamento stesso, nella forma del problema? Non lo sapevo, ma sentivo che la mia convinzione non era sufficiente.

Tutte quelle conclusioni non potevano convincermi abbastanza per condurmi a fare ciò che risultava dai miei ragionamenti, cioè ad uccidermi. E mentirei se dicessi che la ragione soltanto m’impedì di suicidarmi. Il mio spirito lavorava, ma v’era qualche cos’altro che lavorava, qualche cosa che non posso chiamare altrimenti che la coscienza della vita. Era come una forza che m’obbligava a badare a questo piuttosto che a quello, e questa forza mi salvò dalla mia situazione disperata e diede tutt’altra direzione alla mia intelligenza. Questa forza mi obbligava a fissar la mia attenzione sul fatto che nè io nè centinaia d’uomini simili a me, non eravamo tutta l’umanità e ch’io non conoscevo ancora la vita dell’umanità.

Se esaminavo il ristretto circolo dei miei pensieri, non vedevo che uomini i quali, o non comprendevano il problema della vita, oppure, comprendendolo, lo soffocavano con l’ubbriachezza o mettevano fine ai loro giorni o, per debolezza, trascinavano una vita disperata. Questo era tutto quel ch’io vedevo. Mi pareva che questo circolo ristretto dei sapienti, dei ricchi, degli oziosi, al quale io appartenevo, fosse tutta l’umanità, e che i miliardi d’altri esseri che avevano vissuto prima di noi e vivevano ancora, non fossero uomini, ma bestie da soma qualsiansi.

Per quanto strano, incomprensibile, mostruoso mi sembri ora questo fatto, come ho potuto lasciar sfuggire, nella mia analisi della vita, tutto [p. 53 modifica]ciò che mi circondava da ogni parte — la vita di tutta l’umanità — come ho potuto ingannarmi così ridicolmente, fino al punto di pensare che la mia vita e quelle di Salomone e di Schopenhauer fossero la vera vita, la vita normale, mentre la vita di miliardi d’altri esseri era semplicemente una circostanza senza valore? Per quanto strano ciò mi paia ora, vedo che fu proprio così. Nell’orgoglio del mio spirito mi pareva indiscutibile che io, con Schopenhauer e Salomone, avessi posto la questione sul terreno della verità e dell’esattezza e che non potesse esservene un altro.

Ero così convinto che tutti quei miliardi di esseri non erano ancora arrivati a comprendere tutta la profondità della questione, che, cercando il senso della vita, non pensai una sola volta: «Ma che senso hanno dato alla loro vita quei miliardi di esseri che vivono e che vissero?» Per lungo tempo io vissi in questa follia, propria particolarmente, non nelle parole ma negli atti, a noi, liberali e sapienti.

Forse è in grazia della mia affezione strana, della mia simpatia fisica per il popolo operaio che ho infine scorto e compreso ch’esso non è certo sciocco come lo pensiamo. Oppure, in grazia della sincerità della mia convinzione che non potevo saper nulla e che il meglio che potessi fare era l’impiccarmi, ho sentito che, se volevo vivere e comprendere il senso della vita, dovevo cercare questo senso non presso quelli che, avendo perduto il senso della vita, vogliono uccidersi, ma presso quella moltitudine di esseri umani che ha vissuto e che vive, che organizza e sopporta la sua vita e la nostra.

Mi rivolsi dunque alle enormi masse degli uomini che hanno vissuto e che vivono semplici, [p. 54 modifica]ignoranti, poveri, e vidi tutt’altra cosa. Vidi che quei miliardi d’uomini che hanno vissuto e che vivono, salvo rarissime eccezioni, non potevano entrare nella mia classificazione. M’era impossibile vedere in essi degli uomini che non comprendessero la questione, perchè essi la pongono e vi rispondono con una chiarezza straordinaria. Non potevo neppure porli fra gli epicurei, poichè la loro vita risulta composta di privazioni e di sofferenze, più che di piaceri. Ancor meno potevo classificarli nella categoria di quelli che, stupidamente, mettono fine alla loro vita insensata, poichè essi si spiegano ogni atto della loro vita e la morte stessa, e considerano il suicidio come il più gran male. Risultava da questo che tutta l’umanità aveva una conoscenza qualunque del senso della vita, che io non riconoscevo e disprezzavo. Risultava da questo che la scienza ragionata non dava il senso della vita, ma escludeva la vita, e che il senso attribuito alla vita da miliardi di uomini, da tutta l’umanità, era basato su una scienza qualunque, menzognera e disprezzabile.

La scienza ragionata, per bocca dei sapienti e dei pensatori, nega il senso della vita, mentre enormi masse umane, tutta l’umanità, riconoscono questo senso in una loro scienza. E questa scienza è la fede, questa stessa fede che non posso accettare: Dio uno e trino, la creazione in sei giorni, il demonio e gli angeli e tutto ciò ch’io non posso accettare a meno di esser pazzo!

La mia situazione era atroce. Sapevo che non avrei trovato, nella via della scienza ragionata, nulla, tranne la negazione della vita, e nella fede nulla, tranne la negazione della ragione, ciò che era ancor meno possibile che la [p. 55 modifica]negazione della vita. Secondo la scienza ragionata, la vita non può esser che un male. Ma gli uomini lo sanno, dipende da essi di non vivere ed hanno vissuto e vivono; vivo io stesso, benchè sappia da un pezzo che la vita è un controsenso, un male. Dalla fede risulta che, per comprendere il senso della vita, devo rinunciare alla ragione, a questa stessa ragione per cui il senso è necessario.